Quando lo sport diventa rivendicazione
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Serbia-Albania, il match finito a fuoco e fiamme

Mentre gli occhi del mondo restano puntati sulla nuova epidemia d’Ebola e sulle manovre russe in territorio ex- sovietico, un “vecchio” vulcano apparentemente inattivo da qualche tempo si risveglia ed è più rovente che mai: quello dei Balcani.  Quando si dice che tutti gli eccessi portano in un modo o nell’altro a conseguenze negative, non si esentano neanche le occupazioni più sane. Questa volta, degna d’incriminazione, è stata la partita di calcio disputata il 14 ottobre a Belgrado, capitale serba. L’ironia della sorte, che spesso gioca sporco, ha voluto che il sorteggio dei gironi di qualificazione per gli europei 2016 prevedesse lo scontro, in tutti sensi, di Serbia e Albania – senza che alcun provvedimento successivo alla scelta delle sfidanti fosse preso dall’UEFA, che forse come molti tende a sottovalutare le tensioni che ancora persistono in queste zone del continente europeo.

Anche a causa della negativa reputazione dei giocatori e fans serbi in ambito calcistico, che accusano precedenti violenti, il governo serbo aveva deciso già qualche settimana prima del match d’impedire ai fans provenienti dall’Albania l’accesso all’aerea dove si sarebbe disputata la partita, provocando ulteriore tensione soprattutto a livello mediatico; ma soprattutto dimenticando l’importante presenza numerica di albanesi in tutti i Balcani, e non solo nella loro madre patria. Come se gli spiriti non fossero già abbastanza bollenti, alcuni giocatori e giornalisti albanesi, atterrati nell’aeroporto serbo, hanno lamentato di essere stati fermati dalle forze armate a causa del loro abbigliamento, che naturalmente consisteva in una divisa con colori e simboli nazionali, che avrebbe infastidito gli addetti ai controlli aereoportuali. Misura presa, probabilmente, anche in ragione del fatto che qualche giorno prima della partita il premier serbo Aleksandar Vucic aveva denunciato la volontà dei fans albanesi , in sua opinione, di star preparando “delle provocazioni e un incidente” in vista del match calcistico.



Tuttavia, solo dopo il fischio d’inizio si è visto accadere il peggio. L’odio e la negatività hanno dato spettacolo, e durante il primo tempo si sono alzate grida come “a morte gli albanesi”, che hanno naturalmente contribuito ad irrigidire le posizioni dei tifosi. Il climax è stato però poco prima del fine primo tempo, quando un drone è letteralmente piovuto dal cielo sventolando la bandiera della “Grande Albania” con la scritta “Kosovo autoctono”, che ha generato il caos sul campo e non.

Mitrovic, giocatore serbo, ha poi fermato e abbattutto il drone, gesto che ha spinto i giocatori avversari a reagire per difendere la propria bandiera, e quindi la propria patria, e successivamente numerosi ultras ad entrare in campo e a dare il via ad una vera e propria rissa. La partita è stata poi dichiarata sospesa dalla UEFA, ma ancora si cercano di capire i meccanismi scatenatisi. Il primo ministro serbo ha dichiarato come ciò che è avvenuto fosse "un’ azione organizzata con l'obiettivo di colpire la stabilita' in Serbia e nell'intera regione" e che "le intenzioni degli estremisti albanesi erano di mostrare la Serbia come un Paese intollerante dinanzi alle diversita”. Si è infatti ipotizzato che il lancio del drone sia stato organizzato dal fratello del primo ministro albanese per irritare i serbi, che già dall’inizio della partita tiravano fumogeni, petardi e oggetti in campo e sugli spalti.

A livello internazionale la notizia ha naturalmente avuto eco; Maja Kocijancic , in veste di portavoce dell’Alto rappresentante dell'Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza Catherine Ashton, ha dichiarato : “ La politica non sia guidata dalle provocazioni da stadio; per questo evidenziamo l'importanza della cooperazione regionale e la prevista visita del premier Edi Rama in Serbia dei prossimi giorni".

La Repubblica Kosovara, zona con caratteristiche culturali e linguistiche particolari e uniche nel loro genere, tenta tutt’oggi di vedersi riconosciuto il prorio status anche dalla Serbia, che continua però a rendere quasi impossibile anche solo il passaggio dei cittadini kosovari sul territorio serbo; e se da 15 anni il Kosovo, nel quale risiedono molti albanesi, aspetta il riconoscimento che il suo vicino continua a negargli per determinate ragioni, è pur sempre ingiustificabile ma rimane quantomeno prevedibile la reazione avuta da entrambe le parti. Lungi da considerare un tale avvenimento come ragionevole e scusabile, bisognerebbe però far fronte, soprattutto a livello interno, all’ancora drammatica situazione che vivono questi paesi rimasti scottati dai recenti sconvolgimenti politico-sociali, tenendo anche in considerazione la loro possibile adesione all’Unione Europea, che non transigerà di certo sulla gestione di avvenimenti di questo genere.

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Articolo pubblicato il 21/10/2014