L'importanza della toponomastica
Vecchia toponomastica "sopravvissuta" in corso Dante, un tempo corso Parigi

Perché il Comune di Torino, negli anni, ha scelto di cancellare gli antichi nomi delle vie della città? Perché non riscoprirli, e magari valorizzarli? I toponimi esprimono tradizioni, cultura, identità di un territorio: in un momento di crisi, andrebbero tutelati e riscoperti. E - magari - aiuterebbero anche il turismo.

Se dici Piccadilly, Broadway, piazza Rossa, piazza del Popolo, non puoi sbagliarti: sei, rispettivamente, a Londra, New York, Mosca, Roma. Milioni di persone affollano ogni anno questi, così come altri luoghi della Terra, al punto che sono entrati ormai nell’immaginario collettivo e i monumenti o gli scorci che da essi si ammirano sono a tutti ben noti. Nessuno, o ben pochi, però, si domandano il perché di questi nomi. A tutti sembra scontato, ad esempio, che la piazza Rossa debba il suo nome al colore degli edifici (o che c’entri in qualche modo il periodo sovietico), o che piazza del Popolo a Roma sia un retaggio dell’antica Roma, del fascismo, o che insomma ci si ricolleghi a plenari raduni del popolo romano. Toglierebbe forse la magia di questi luoghi sapere che Piccadilly deve il nome ad un sarto che produceva i colletti rigidi detti picadils; che Broadway (nella sfrenata fantasia americana) significa semplicemente “via larga”, e che in New York esistono ben quattro vie con lo stesso nome; che la piazza Rossa è semplicemente la “piazza bella”; che piazza del Popolo deve il nome ad un pioppo (in latino populus) che vi sorgeva nei tempi dell’antica Roma? No di certo. Eppure questi nomi sono rimasti, a testimonianza della tradizione della città, del suo passato, della sua storia. Nessuno li giudica inadatti, nessuno ha pensato di ribattezzarli in altro modo.

A Torino, invece, si è agito in maniera drasticamente diversa. Da metà Ottocento, con gli stravolgimenti post-unitari, la città è stata sostanzialmente violentata nella sua toponomastica. Le sono stati portati via quasi tutti i toponomi storici, preferendo loro i grandi “padri della patria”, le battaglie delle guerre di indipendenza o semplici politici del Risorgimento. Così, prima fra tutte, ci siamo giocati il nome che più di tutti identificava Torino: “contrada dla Dòira Gròssa”, che è diventata via Garibaldi. Dal Comune hanno poi pensato che avere in città vie dai ricordi gastronomici, come le contrade del Gambero, del Gallo, del Fieno, delle Fragole, fosse a dir poco provinciale. Meglio spazzarle via in nome del progresso; e in questa ondata modernista, non si sa perché, si è salvata la sola via delle Tre Galline, che ancora rallegra col suo nome tutto torinese quel di Piazza della Repubblica (pardon; porta Palazzo, o porta Pila).

Addio contrada dei Guardinfanti, addio via dei Due Bastioni, del Cannon d’Oro, delle Quattro Pietre: ovunque nel centro storico fiorivano vie Cavour e XX Settembre, Dei Mille e Mazzini. Sparirono anche i nomi che si ricollegavano alla devozione popolare, come via del Soccorso, della Speranza o della Provvidenza.

Col fascismo si è imposta via Roma al posto dell’antica via Nuova; e con essa si sono andate a sommare la pletora di nomi che si rifanno alla Grande Guerra e all’impresa coloniale. A che pro, altrimenti, avere a Torino piazza Massaua, Derna, Hermada, i corsi Monte Cucco, Monte Grappa e altri ancora? Si dirà: sono tutti in luoghi periferici. E le vie Piave e Bligny?

I sovrani, naturalmente, sono stati spodestati col mutare del regime o del gusto. Via Vittorio Emanuele I: meglio piazza Vittorio Veneto. Via Emanuele Filiberto: meglio piazza della Repubblica.

I nomi più semplici, che indicavano la natura stessa della via (Strada Lungo Po, viale del Valentino, viale di Stupinigi ecc.) sono mutati il prima possibile in corso Cairoli, corso Marconi, corso Unione Sovietica. Fortunatamente ci è stato “ridonato” corso Francia dopo aver mutato nome in corso Gabriele d’Annunzio! Ma il peggio, ormai, era fatto. Oggi pochissimi toponimi rimangono della Torino che fu. Pittoreschi e “unici” sono via Tre Galline e via Cappel Verde; meno caratteristici ma comunque densi di fascino subalpino sono le vie Bellezia e Bogino, le prime ad essere intitolate, in città, a delle personalità. Seguono via Monte di Pietà, via dell’Arsenale, dell’Arcivescovado, della Rocca, della Cittadella, Palazzo di Città, Corte d’Appello, che ricordano antichi edifici oggi scomparsi o che hanno cambiato uso. E c’è poi quella piazza Castello che, da sempre, ha avuto quel nome e che sempre forse lo avrà: tentarono i francesi rivoluzionari a ribattezzarla Place de la Réunion o Place Impériale; resterà sempre e solo piazza Castello. Per fortuna.

 

Perché, in fondo, qualcuno non comprenderà il perché a quasi un secolo si dibatta, talvolta, su questi ricordi che sanno di annalistica e che sembrano tirati fuori da un armadio pieno di naftalina. E invece tutto ciò è importante. È importante per l’identità di un popolo, per l’appartenenza civica, per l’amore che si può nutrire per la propria terra e il proprio retaggio cultura. E perché no, anche per il turismo (chi di voi non ha mai fotografato i pittoreschi nomi delle calli veneziane o delle vie fiorentine?). Via Garibaldi, corso Matteotti, piazza Vittorio Veneto possono trovarsi in qualunque altra città. Pensate forse che per Piccadilly, Broadway, piazza Rossa, piazza del Popolo valga lo stesso discorso?

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Articolo pubblicato il 24/11/2013