Torino che non c’è più
Piazza Solferino

La vecchia “Spin-a” e il grattacielo di piazza Solferino

«Torino gode fama di città modernissima e i visitatori l’esaltano con i paragoni; e credono di lusingarla attribuendole l’eleganza di Parigi, la lindezza di Vienna, e non pensano che assimilandola ad altre metropoli, l’annullano. Torino ha invece un’anima ben sua [...]».

Così scriveva Guido Gozzano ne il suo breve racconto “Torino suburbana – La Gran Cuoca”: e non si può che convenire con lui, perché davvero Torino possiede un’anima sua, particolari

ssima e tutta piemontese. Ed è per questo spirito singolare che i visitatori vengono a vedere la nostra città. Auguri a loro se riescono a trovarla ancora, quest’anima particolare, semisepolta tra ogni genere di iniziativa culturale, di prodotti fuori luogo e di architettura opprimente.

Architettura, già: mentre il faraonico, angosciante scatolone di cemento e vetro dell’Intesa San Paolo continua a crescere nel cuore di Torino, è bene sottolineare che non si è trattato del

l’unico sfregio allo skyline cittadino, anche se certamente rappresenza il meglio riuscito tra tutti.

Dalla Torre Littoria in poi, sembra che al Comune di Torino si siano appassionati ai grattacieli, approvandone la costruzione nei luoghi più impensati e meno rispettosi per i quartieri circostanti. Uno tra questi scempi architettonici è senza dubbio quel brutto ceffo che sovrasta piazza Solferino all’angolo con via Santa Teresa e via Pietro Micca. Un “coso” di quindici piani che fa a pugni con l’architettura liberty dei palazzi circostanti.

Il “palazzaccio brutto di via Santa Teresa” sorge al posto di un edificio che i torinesi familiarmente soprannominavano “la Spin-a”: una casetta che di piani ne aveva solo cinque, e che si affacciava a triangolo tra la Piassa dël bòsch e la Contrà ‘d Santa Teresa. Una palazzina di un decoro e di una eleganza molto dimesse, molto subalpine, eretta dopo gli sventramenti di via Pietro Micca in luogo di un’altra piccola casa del XVII Secolo. Insomma: un tipico palazzo di Torino, uno di quelli che contribuiscono a dare alla nostra città quell’”anima ben sua” della quale parlava il Gozzano.

Nel ’42, però, una bomb

a sventrò la Spin-a, e alla fine del conflitto ci si pose il problema della ricostruzione. Già, ma come? In altre Nazioni d’Europa, molto più orgogliose della loro identità, decisero di ricostruire tutto com’era in precedenza. A Torino, invece, si volle optare per il nuovo. Il nuovo si presentava in diverse forme, ma la prediletta sembrava quella dei parallelepipedi di cemento.

La “scusa” per l’abbattimento della Spin-a fu quella della viabilità: quell’edificio rappresentava un ostacolo al traffico. Meglio abbatterlo, far retrocedere il limite della piazza affiancando il nuovo palazzo con gli altri e consentire un più snello flusso dei veicoli. La miglioria venne attuata così bene (in modo diverso, però, dal progetto approvato) che il 12 e il 27 marzo 1952 La Stampa pubblicava due articoli nei quali si lamentava il traffico impazzito: «Da quando si è allargata la famosa “Spina” con la costruzione del grattacielo, una notevole parte del traffico si è convogliata proprio in questo difficile passaggio: i veicoli provengono da direzioni diverse, da piazza Solferino, da via Cernaia, da via Santa Teresa e da via Pietro Micca e da via Botero» (La Stampa, 12 marzo 1961).

Il 28 novembre 1949 il Consiglio Comunale di Torino approva la costruzione di quello che già allora veniva definito “grattacielo”: forse a Torino 15 piani (sì, perché dei 14 iniziali se ne era aggiunto uno in più come “bonus”) erano sufficienti accostarsi alle gozzaniane “eleganza di Parigi, lindendezza di Vienna” uno... skyline di New York. In Consiglio, però,

i pareri non erano unanimi. Qualcuno avanzava critiche; ma c’è da rabbrividire sulla cecità dei politici di allora (e sul loro cattivo gusto) se dalla Stampa del 29 novembre scopriamo che alcuni consiglieri sono contrari al grattacielo perché la «sporgenza del portico comprometterebbe il futuro piano regolatore e la creazione di una grande strada di transito che si intende far passare appunto per piazza Solferino» (un progetto che, se attuato, avrebbe sventrato il quadrilatero romano creando un megacorso di collegamento con corso Vercelli. Da paura).

Fanno tenerezza le parole del consigliere Chiarloni, che non si oppone al progetto perché  

«Sia dal punto di vista della circolazione che da quello estetico, questo è il massimo che si possa richiedere per la zona. Non è il meglio forse, ma è certo il meno peggio».

C’è da chiedersi cosa si intendesse per “peggio”.

Ma tant’è. Con quaranta voti a favore il grattacielo ottiene il varo. L’impresa Cravotto può iniziare i lavori e il mostro inizia a salire. E così si arriva al 1952, quando spunta una novità: due citazioni in tribunale chiedono l’abbattimento di dieci piani del grattacielo, per riportarlo all’altezza della vecchia casetta della Spin-a. Le citazioni vennero presentate dai proprietari della casa quasi di fronte alla torre e dall’Istituto San Paolo, proprietario dell’isolato adiacente, che contes

tavano delle illegalità nella costruzione, principalmente legate alla famosa sporgenza sulla piazza. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il grattacielo è ancora lì, con i suoi quindici piani che svettano sulle case circostanti.

C’è da domandarsi perché Torino si sia meritata uno sfregio del genere. Era davvero il “massimo che si possa richiedere per la zona”, come giustificava uno dei consiglieri comunali? Sicuramente no. Torino si vanta di opere di architettura uniche, dal barocco al liberty. L’hanno abbellita architetti come Juvarra e Garove, Alfieri e Bonsignore, Antonelli e Ceppi. Non è un caso che i turisti snobbino questi palazzacci e concentrino la loro visita a Palazzo Madama o alla Mole Antonelliana.

Perché questi cubi di cemento e vetro atterrati nel centro di Torino come corpi alieni si possono trovare ovunque, in tutto il mondo: e incentivarne la costruzione significa sminuire il valore artistico e l’identità di una città. Costa tanto essere attenti all’estetica? Forse sì: se si continuano a proporre come modelli artistici dei “bidoni” come questo, non pretendiamo che poi si comprenda ancora la differenza tra bello e brutto.

 

 

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Articolo pubblicato il 21/10/2013