Il business del mattone. Storie di inganni, mattoni, sogni e nuove schiavitù

In Nepal oltre duemila minori vengono strappati con l’inganno alle famiglie e portati nella Valle di Kathmandu per lavorare come operai nelle fornaci di mattoni

Jadhu tutte le mattine si sveglia alle cinque. Salta la colazione, inforca le ciabatte e si reca alla Fornace. Per undici ore riempie d’argilla impastata uno stampo di legno. Produce mattoni. La sua media non è tra le migliori, appena trenta mattoni l’ora. Meno di quattrocento in una giornata intera di lavoro. Quattrocento mattoni necessari ad alimentare il boom edilizio nella Capitale, Kathmandu, dove i palazzi germogliano la notte accanto ai campi di spinaci e svettano instabili dopo qualche settimana, quando gli spinaci non ci sono più.

Jadhu, guadagna 200 rupie (poco meno di 1,80 euro) ogni 1000 mattoni. 20 Rs al giorno vanno ai caporali che,  come accade negli aranceti del meridione nostrano, gestiscono la forza lavoro nelle fornaci di Bakhtapur, Patan e delle periferie di Kathmandu.

Jadhu vuole imparare il mestiere, vuole diventare sempre più bravo e sempre più veloce, per guadagnare più soldi e finalmente riuscire a coronare il suo sogno: comprare tutte le caramelle del mondo.

Jadhu non sogna una famiglia, una casa, l’amore, il lavoro perfetto:  ha cinque anni, e per lui le caramelle sono il bene più prezioso.

Di bambini come Jadhu, nella valle di Kathmandu, ce ne sono migliaia. Costretti a vivere in baracche di lamiera accanto alle fornaci, malnutriti, abbandonati a loro stessi. Protetti da una struttura sociale parallela in cui gli adulti hanno dodici anni e si prendono cura dei loro colleghi di cinque, quattro anni, cucinando il poco riso una volta al giorno e trasportando gli enormi fusti di acqua malsana dai pozzi alle baracche.

Quasi tutti provengono dai villaggi di montagna del Nord Ovest, una delle aree più povere del Nepal. Ma non ci sono storie strappalacrime di una miseria profonda in cui le famiglie sono costrette a vendere i propri figli ai trafficanti senza scrupoli.

L’inganno sta alla base di tutto. Le famiglie vengono ingannate con la promessa che i loro figli avranno un lavoro sicuro nella ricca capitale, “lavori lucrativi” li chiamano. E le famiglie si fidano, perché sperano, perché la speranza è l’unica cosa cui si possono aggrappare, e perché la delusione dell’inganno è comunque qualcosa rispetto al niente dell’immobilità cui sono condannati.

L’ultima notizia riguardo questo fenomeno risale a pochi giorni fa, quando alcuni bambini rapiti dal villaggio di Thanagaun, nella regione di Sagarmatha, sono riusciti a scappare dalla prigione e dai mattoni per fare ritorno a casa.

Noi di Civico20 siamo riusciti a metterci in contatto con alcuni bambini, ora in libertà, che ci hanno brevemente raccontato l’esperienza che in un modo o nell’altro ha messo fine alle loro vite innocenti.

Sono arrivati su grosse macchine bianche” dice Dhan Bahadur, 11 anni “ da noi a Thanagaun, a Okhale, Rupatar, Lekhgaun, Mayankhu. “

Da quanto tempo va avanti tutto questo?

“Tanti anni. I grandi ricordano le stesse auto tanto tempo fa, e quando io arrivai alle fornaci c’erano molti bambini che vi lavoravano da molto tempo”.

Quanti bambini lavorano nelle fornaci?

Solamente qui a Bakhtapur eravamo oltre 200” risponde Deepak, 13 anni,  un altro bambino rapito, con i piedi e le mani distrutte dal lavoro e gli occhi verde acceso saturi di esperienze sbagliate “ma non eravamo solo bambini, ci sono anche anziani e donne portati nella Valle con gli stessi modi”.

Qualcuno si è mai rifiutato di lavorare?

Poche volte” ci dice Jhagar Bahadur Sarki, 11 anni “ usavano le armi per costringerci a lavorare tutto il giorno, anche quando eravamo troppo stanchi per proseguire” nel gruppo di bambini esplode il silenzio, tutti guardano Jhagar e me, e  gli occhi si spengono quando nella memoria ripassano le immagini degli abusi subiti e i volti dei “colleghi” persi e mai più ritrovati. “Quando qualcuno provava ad esprimere il desiderio di andare via e tornare a casa” prosegue Jhagar “veniva picchiato con il bastone, o lasciato a digiuno per giorni interi” e ci mostra una cicatrice sulla schiena, una grossa, costellata da tanti altri piccoli segni che spaventano il nostro occhio occidentale non uso a vedere la schiena di un bambino in tali condizioni. Ma, ci spiega Jhadur, come per tranquillizzarci “ solo quella grossa ( la cicatrice, ndr) è dovuta alle percosse. Le altre sono incidenti di lavoro”.

I bambini salgono sull’autobus che li riporterà a casa, sulle loro montagne, all’affetto delle madri e alla povertà che per loro rappresenta, in maniera paradossale, il rifugio più sicuro.

Dhan Bahadur, Jhagar Bahadur, Deepak, Jadhu, ora sono liberi e salutano felici dai finestrini dell’autobus che scalda il motore nell’attesa che tutti prendano posto. Questi sono i bambini che hanno trovato il coraggio e hanno avuto la possibilità di denunciare alle autorità i trafficanti.

Rimki Rai e Sharmila Shrestha sono stati arrestati in attesa del processo per traffico di esseri umani e riduzione in schiavitù. In una nazione in cui il concetto di civilità e giustizia si muove a braccetto con quello di società tribale, le famiglie di alcuni bambini si sono costituite come parte offesa, mentre alcune associazioni umanitarie hanno chiesto di presentarsi al processo come parte civile.

L’ultima dichiarazione la raccogliamo da Naresh Rai, l’autista dell’autobus, originario di Lekhgaun, nel distretto di Bajhang, sempre nel nordovest,  e non si può proprio definire un lieto fine. Anzi, apre le porte ad una serie di domande e altre criticità.

Con gli occhiali da sole, sporto dal finestrino, con il sacro tika sulla fronte e una musica indiana sparata dalle casse, Naresh Rai ci dice che “oltre centocinquanta bambini sono stati rapiti negli ultimi mesi solo dalla regione di Udaypur. Un mio cugino che ancora vive lì, mi ha detto che solo nell’ultima settimana le macchine bianche dei trafficanti si sono presentate due volte. Arrivano vuote e ripartono con cinque o sei bambini sorridenti dietro, nel cassone scoperto”.

E le autorità?

Naresh scuote la testa, si guarda intorno e toglie gli occhiali da sole “ a Kathmandu servono mattoni (per via del boom edilizio sopracitato, ndr) e nella Valle non c’è abbastanza forza lavoro. Le autorità chiudono un occhio o due, se li avessero ne chiuderebbero tre. In Nepal le città sono più importanti delle campagne”.



(credit: Luca Catalano)

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Articolo pubblicato il 15/02/2015