Molto più del miele: Il mondo dimentica le api.

Da metafora del sesso a specie in via d’estinzione. L’ape e le sue difficoltà.

Prendiamo spunto da un documentario del 2012 di Markus Imhoof, More than Honey (In italiano: Un mondo in pericolo). Prodotto tra Svizzera, Germania e Austria, il lavoro di Imhoof è un’istantanea della situazione che quotidianamente affrontano miliardi e miliardi di api nel mondo.

L’ape. Uno degli insetti più noti e affascinanti dell’intero mondo animale. Dotata di una struttura sociale perfetta, tanto da considerare una famiglia di api non come un insieme di individui ma come un superorganismo in cui ciascuna ape non è che una cellula necessaria e sostituibile.

La società delle api è divisa in caste. La prima è quella reale, composta essenzialmente da una regina fertile (quando l’alveare è al completo) e dalle larve reali (in caso di “sede vacante”). Compito della Regina è quello di creare coesione nella famiglia evitando scissioni e sciamature (quando una parte dell’alveare fugge creandone uno nuovo) e soprattutto di partorire costantemente per permettere alla colonia di sopravvivere forte e numerosa. La Regina può deporre da un minimo di 300 a un massimo di circa 2000 uova al giorno.

La seconda casta è quella delle operaie. La più numerosa. Le api operaie sono tutte femmine sterili e ciascuna è specializzata, a seconda dell’età, nello svolgimento di compiti diversi. La vita di un’ape operaia ha inizio con la deposizione da parte della regina di un uovo fecondato all’interno di una cella esagonale di cera. L’uovo si trasforma rapidamente in una larva che viene cresciuta dalle api nutrici le quali la cibano con miele e polline fresco (a differenza delle regine che vengono nutrite con pappa reale). Dopo qualche giorno di stadio larvale, l’operaia si trasforma in pupa e così rimane per qualche altro giorno finché, ormai matura, esce dal bozzo e comincia a lavorare. Le api neonate sono leggermente più piccole delle adulte, e il primo compito loro assegnato è quello di tenere pulite le celle e i favi. In seguito, con la formazione delle ghiandole deputate alla produzione di pappa reale,  diventano nutrici. Con la formazione invece delle ghiandole per la produzione della cera (cerigene) salgono di livello e diventano costruttrici. Le operaie non escono dall’alveare fino al ventunesimo giorno di vita. Nel frattempo, dopo i lavori di costruzione, si occupano, nell’ordine, di immagazzinare le scorte, fare la guardia all’alveare (api guardiane) e di assicurarsi che la temperatura dell’alveare sia costante (api ventilatrici). Dopo circa venti giorni dalla nascita, le ghiandole cerigene si atrofizzano e l’ape esce dall’alveare diventando bottinatrice, cioè raccoglitrice. Una volta esaurito il proprio ciclo vitale, che può variare dai 40 a i 50 giorni,  l’ape operaia saluta la famiglia e va a morire lontano, per non contaminare l’alveare col proprio cadavere.

La terza casta è quella dei fuchi, maschi fertili il cui unico compito è, appunto, di essere fertile. Il fuco nasce da un uovo non fecondato, non ha pungiglione e la ligula (che sarebbe la bocca) non è sviluppata per estrarre polline dai fiori ma solo per riuscire a nutrirsi del miele conservato nelle cellette dei favi. In primavera i fuchi si riuniscono e sciamano alla ricerca di regine vergini da fecondare. Il tutto avviene in volo,  dopo una splendida danza con cui il fuco corteggia la regina e si conclude con la morte violenta del maschio. Le uova della regina non vengono fecondate immediatamente.  Il seme maschile viene immagazzinato nell’addome della regina e dispensato dalla stessa  negli anni successivi. Per assicurare la maggiore quantità di seme possibile,  durante l’accoppiamento l’apparato riproduttivo del fuco si strappa rimanendo attaccato alla regina e continuando a trasferire il seme. Il fuco muore immediatamente. Una volta fecondata la regina, i fuchi rimasti sono inutili per la sopravvivenza della famiglia. Nella maggior parte dei casi i maschi vengono uccisi dalle operaie in maniera violenta (decapitazione) o traversa (i fuchi, incapaci di nutrirsi da soli, non vengono più nutriti dalle operaie). In pochissimi casi il fuco viene semplicemente allontanato dalla colonia, il che comunque equivale ad una condanna a morte.

Ora che abbiamo una panoramica generale del “sistema-ape” possiamo parlare della funzione (fondamentale) che le api svolgono per la sopravvivenza degli ecosistemi.  Sì, tutto si può ridurre ad un solo termine: Impollinazione. E infatti non è ciò che fanno ad essere davvero rilevante, bensì quanto fanno.

Un’ape bottinatrice è in grado di visitare circa 700 fiori al giorno. Un alveare medio contiene 30.000 api. Ne segue che ciascun alveare è in grado di impollinare, quotidianamente, oltre 20 milioni di fiori. Per una superficie media di 3000 ettari. Ripetiamo: al giorno.

Nel 2012 la Banca Mondiale ha calcolato il valore globale dell’impollinazione in 170 miliardi di euro. In calo costante.

La discesa del valore non è legato alla diminuzione di produttività degli alveari, che, seppur anche questa in calo, si mantiene mediamente costante. Non è neppure legata alla riduzione di terre coltivate che, anzi, sono in aumento nel mondo (seppur in forma di monocoltura intensiva).

Per spiegare le motivazioni prendiamo un esempio attuale. Nell’operosa Cina è nata negli ultimi decenni una figura professionale molto particolare e necessaria: l’uomo ape. Muniti di una piuma di gallina cosparsa di polline essiccato, procedono a sostituire le api che in quelle regioni, semplicemente, non esistono più. Per poche settimane all’anno milioni di uomini ape si riversano nei frutteti con la loro piuma di gallina fecondata o con un più spartano filtro di sigaretta attaccato ad una canna di bambù con della gomma da masticare. E impollinano. Nel 2010 la paga media di un uomo ape era di 7 euro. Nel 2012, nove. Oggi siamo arrivati a 15 euro al giorno.

Ma perché un lavoro simile, fino a pochi anni fa inimmaginabile, è ora tanto importante?

Perché, come già detto: le api sono scomparse.

Tutto risale alla riforma agraria di Mao. Negli anni ’50 i raccolti di cereali erano la più grande e preziosa ricchezza della Repubblica Popolare. Intere regioni si trasformarono in distese sterminate di campi coltivati. Il popolo cinese aveva di che sfamarsi.

Ma tanta ricchezza faceva gola a qualcun altro. Non una potenza straniera affamata e vorace, bensì un piccolo animale leggero e svolazzante, ma non per questo meno famelico: il passero.

Miliardi di passeri saccheggiavano continuamente i raccolti della Repubblica e il Grande Maestro - com’era chiamato Mao - che non andava troppo per il sottile, decise di risolvere la questione sterminandoli.

Più di 50 miliardi di volatili vennero massacrati nel giro di pochi anni. E i raccolti, almeno per qualche tempo, stettero al sicuro.

La natura però non ammette spazi vuoti, e nel buco lasciato dalla scomparsa del predatore, non può che insinuarsi la preda. Un numero incalcolabile di insetti e parassiti cominciò a proliferare nelle regioni orfane dei passeri. Presto anche questi cominciarono a cibarsi dei raccolti. Governo e agricoltori non faticarono troppo nel cercare una soluzione e, similmente alla questione passeri, optarono per la strategia dello sterminio. Soprattutto negli anni ’80 e ’90, vennero impiegate enormi quantità di pesticidi senza valutare l’impatto che quest’uso avrebbe avuto sulle specie non infestanti. L’inquinamento ambientale ha fatto il resto: oltre il 95% delle api cinesi, non esiste più.  E i fiori da soli non si impollinano. Ed ecco che si rendono necessari gli uomini ape. Senza di loro i rami nei frutteti sarebbero spogli, non ci sarebbero gli ortaggi e il paesaggio si trasformerebbe in un deserto inospitale.

Certo, quello della Cina è l’esempio limite. La situazione più grave che le api moderne si trovino ad affrontare.  Ma, per quanto migliore, la situazione nel resto del mondo non è positiva.

In Europa si registra, per gli stessi motivi cinesi, un calo del 57% nel patrimonio apistico. Negli Stati Uniti si arriva all’80%. Le api di tutto il mondo stanno morendo.

Spesso viene attribuita ad Einstein una profezia: “Se l’ape scomparirà dalla terra, agli uomini resteranno pochi anni di vita. Non più api, non più impollinazione, non più piante, non più uomo”.

Al di là della paternità, la sentenza non potrebbe essere più corretta.

L’ape è fondamentale allo sviluppo della natura e, che lo voglia o meno, anche l’uomo, per la sua sopravvivenza, è legato alla natura, di rimando alle api. Un triangolo in cui foreste e città poggiano la propria esistenza sulle spalle di un piccolo e delicatissimo insetto.

Un rapporto quasi simbiotico che l’uomo ha però perso di vista. L’apicoltura nell’economia mondiale ricopre un ruolo marginale e le api vengono allevate quasi esclusivamente per la produzione del miele. Che nella vita dell’alveare rappresenta appena il 10% del lavoro totale. Quando l’uomo capirà che è nel rimanente 90% che risiede il vero valore delle api, allora, forse, comincerà a prendersi nuovamente cura di loro. E ci saranno rami carichi di frutti, orti rigogliosi e una natura vitale. E avremo strappato nuove terre alla desertificazione cui il mondo sta  inesorabilmente andando incontro.

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Articolo pubblicato il 29/08/2014