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“Il Processo Duranti” di Parmenio Bettòli

“Il Processo Duranti” è quello che in termini moderni si potrebbe dire un thriller legale o thriller giudiziario, di 190 pagine, pubblicato in volume Milano, dai Fratelli Treves nel 1874, dopo essere apparso nell’Appendice del “Corriere di Milano”, e più volte ripubblicato negli anni successivi.

 

Ben costruito e vivace nei dettagli giudiziari, questo romanzo ci è parso un elemento rilevante per la storia del “giallo” italiano e abbiamo voluto ricordarlo perché è ambientato a Torino, col rimpianto che l’autore non sia torinese…

L’autore è Parmenio Bettòli, giornalista, direttore della “Gazzetta di Parma”, scrittore, commediografo, nato a Parma nel 1835 e morto a Bergamo nel 1907.

 

“Il Processo Duranti” è così strutturato: il notaio torinese Tito Luigi Monti, identificato con la massima precisione come dimorante in Torino in via Bertola n. 32, scrive di essere stato incaricato di far conoscere un clamoroso errore giudiziario che ha portato alla condanna al carcere di un innocente, il barone nizzardo Roberto di Mieil, che vi è morto suicida, e il notaio intende restituirgli l’onore perduto con l’infamante condanna.

 

La prima parte del libro riferisce il processo in Corte d’Assise a Torino contro il barone di Mieil, di trentuno anni, accusato di tentato furto con scasso della somma di lire 102 mila, nella notte del 16 dicembre 1865, nella casa del conte e commendatore Maurizio Duranti, in via della Provvidenza n. 43, al primo piano.

 

Il vivace dibattimento processuale, che sarebbe avvenuto dal 7 al 14 marzo 1867, è riferito con lo stile delle cronache giudiziarie dell’epoca, con qualche rara concessione al lettore: alcuni testimoni sono personaggi divertenti, macchiette, come l’infingardo portinaio, il sentenzioso domestico e l’eccentrico viveur conte di Morricone.

 

Soltanto i nomi inusuali del Pubblico Ministero e degli avvocati difensori (quello di Duodecimo Parina, in particolare!) possono destare qualche “sospetto” nel lettore.

 

La seconda parte, “Memorie del conte Maurizio”, rivela la trama criminale ordita dal conte Maurizio Duranti, di quarantuno anni, nato a Vico Canavese.

 

Duranti, ha letteralmente costruito le prove per ‘incastrare’ con l’accusa di furto il povero Mieil: ha scoperto che questi ha una tresca con sua moglie Eloisa di Valdengo, che progetta di fuggire con lei a Parigi e che, nella famosa notte del 16 dicembre 1865, si sarebbe introdotto in casa Duranti per portare via Eloisa.

 

Duranti ha quindi studiato un diabolico piano: quando Mieil è entrato in casa, lui lo ha fatto sorprendere dai poliziotti ed ha fatto trovare il denaro in un cofanetto, già scassinato, con gli strumenti di scasso. Mieil non ha spiegato il reale motivo della sua presenza, per non compromettere Eloisa, e si è difeso con giustificazioni inconsistenti che non hanno convinto i giurati.

 

Dopo la condanna di Mieil a cinque anni di reclusione, Duranti entra in crisi a seguito della morte della moglie fedifraga, punita da una consunzione mortale, e della loro figlioletta Leontina. Scrive una lunga e dettagliata confessione che scagiona pienamente Mieil, allegata al suo testamento, dove lascia suoi eredi gli enti pii del Canavese, e dispone che il notaio Monti, suo esecutore testamentario, pubblichi questa sua confessione.

 

Quando Duranti muore di pleurite, il 24 gennaio 1872, il notaio si attiva per la riabilitazione di Mieil che però giunge postuma, in un finale tragico che vede la morte di tutti i protagonisti.

Ne risulta una trama un po’ datata: non ci sono fatti di sangue, il movente della crudele vendetta nasce da un tradimento amoroso, la soluzione scaturisce dalla confessione del colpevole, non ci sono indagini e manca la figura del detective superuomo.

 

Sono tutti elementi che ricordano più il feuilleton che il poliziesco.

Si potrebbe anche osservare che “Il Processo Duranti” non rispetta la 7ma regola di S. S. Van Dine (1928): “Ci dev’essere almeno un morto in un romanzo poliziesco e più il morto è morto, meglio è. Nessun delitto minore dell’assassinio è sufficiente. Trecento pagine sono troppe per una colpa minore. Il dispendio di energie del lettore dev’essere remunerato!”.

 

Questa regola conosce però delle eccezioni, una fra tutte “L’impronta scarlatta” di Richard Austin Freeman (1907).

Quello che è da sottolineare è la grande rispondenza al vero del romanzo: più di una volta, “Il Processo Duranti” è stato scambiato per una storia reale, in passato, ma forse anche oggi.

 

È pubblicato a puntate dalla “Gazzetta Piemontese”, a partire dal 31 dicembre 1875 e fino all’8 febbraio 1876, e non è inserito nell’Appendice, ma nel testo, come avveniva prima del 1874 per le reali cronache giudiziarie, e l’impressione di leggere una vera cronaca è certo molto suggestiva.

 

Si tratta di un effetto voluto: la prossima pubblicazione de “Il Processo Duranti” viene annunciata il 29 dicembre 1875 dalla “Gazzetta Piemontese”, in aperta polemica con la legge 8 giugno 1874 sul riordinamento dei giurati che, all’articolo 49, vieta di pubblicare i dibattimenti giudiziari prima della sentenza per non influenzare la giuria popolare.

 

L’articolo 49 non permette di soddisfare la curiosità dei lettori per i processi veri celebrati in Corte d’Assise e il giornale pubblicherà “… un processo interessantissimo che è un romanzo pieno di emozioni, di passione e di effetto”, con la certezza che “I lettori leggeranno avidamente e con immancabile commozione la pietosa e terribile storia”.

 

Una sorta di “falso d’autore”, quindi, per accontentare l’interesse dei lettori per i processi…

 

Del resto, Parmenio Bettòli è un esperto in “falsi d’autore” e, nel gennaio del 1875, ha sollevato un caso che ricorda quello delle teste di Modigliani nell’estate del 1984 a Livorno: ha riscritto una sua commedia usando un linguaggio goldoniano con tanta verosimiglianza che vari esperti e letterati l’hanno poi giudicata un’opera inedita di Carlo Goldoni!

 

Ma questa è un’altra storia, la racconteremo un’altra volta.

 

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Articolo pubblicato il 26/05/2013