Il 1918 della Grande Guerra - parte2

Due mondi, due popoli, entrambi cattolici si sono potuti combattere così selvaggiamente

Sono particolarmente interessato agli ultimi due interventi della Sessione: “Il Servizio P. Propaganda, Assistenza, Vigilanza”, dei militari italiani, Del Prof. Gian Luigi Gatti. Anche questo abbastanza lungo. Dopo la rivolta della Brigata “Catanzaro”, fu necessario emanare una circolare in cui si esortava gli ufficiali a far comprendere ai soldati “che vi è in alto chi si preoccupa per lui, che egli non è abbandonato a tutte le correnti,  che egli è un uomo trattato con comprensione umana”. Inoltre c'era la raccomandazione di ricorrere più frequentemente alle licenze, ai riposi e al 'sano divertimento'. Due personalità capirono l'importanza di organizzare una vita sociale più adeguata per i soldati: don Giovanni Minozzi, che aprì le prime Case del soldato al fronte e il generale Luigi Capello, che istituì un servizio di propaganda. Sull'importanza del ruolo propagandistico svolto dai cappellani militari, ci sarà una relazione a parte nella sessione successiva.

 

Per quanto riguarda il ruolo del servizio di propaganda e di istruzione il generale Capello ha intuito l'importanza di dare delle ragioni storiche e sociali alla truppa. Con lui lavoravano diversi ufficiali intellettuali. Venne organizzata così la specifica propaganda per i soldati, ma anche per gli ufficiali, che secondo Capello, non avevano sufficiente spirito nazionale. Solo agli ufficiali venivano distribuiti libri, riviste ed opuscoli. Naturalmente per la truppa, spesso ignorante, veniva assicurato un altro trattamento. E' molto importante questo passaggio del professore,“L'intuizione del generale non era una novità per il paese, dove soprattutto gli interventisti democratici avevano proposto di approfittare della guerra per una pedagogia di massa, ma doveva apparire rivoluzionaria nelle fila dell'esercito cadorniano, incapace di capire che la guerra mondiale aveva scardinato i criteri della guerra tradizionale anche per quanto riguarda la gestione delle truppe: non si trattava più di comandare un esercito di caserma, ma di civili in uniforme.

 

Dopo la rotta di Caporetto, il comando supremo inviò in ogni armata agenti e funzionari di pubblica sicurezza per un'indagine sui militari e sulle popolazioni che risiedevano nelle zone di guerra. “L'ipotesi che a Caporetto si fosse verificato uno sciopero militare da parte dei soldati angustiava i vertici militari, che, per tutta la durata del conflitto, si preoccupavano che la propaganda pacifista non penetrasse nelle fila dell'esercito”.

 

Per eliminare il più possibile il malcontento occorre fare opera di propaganda ad ufficiali e soldati. Un'opera assidua di contropropaganda patriottica, affidata ad un ufficiale che doveva organizzarsi la vigilanza scegliendosi alcuni fiduciari tra la truppa e la popolazione, erano raccomandati “giornalisti”, qualche sacerdote. Si operava con conferenze, la stampa di manifesti o periodici con articoli già “preparati”. E' chiaro che fu tra gli ufficiali ci complemento che vennero scelti gli uomini per la propaganda, anche perché avevano svolto nella vita civile, attività di giornalisti, avvocati e insegnanti. Sono state preparate ben XVI direttive al servizio P per fissare i criteri generali per la propaganda.

 

E comunque ogni comandante di reparto deve svolgere tra i suoi soldati un'opera vera e propria di apostolato. Del resto ci sono circolari dove l'ufficiale (P) era chiamato “apostolo” e “missionario”. Secondo Lombardo Radice, che era capo di una sezione P, poi c'erano Pietro Calamandrei, Giuseppe Prezzolini, Gioacchino Volpe. Queste“ scuole di guerra”, fecero miracoli, nelle truppe spesso analfabete. Peraltro esisteva già presso le scuole ufficiali, una cattedra di pedagogia militare, dove insegnava Luigi Russo.

 

Piero Melograni ha ritenuto che gli ufficiali P fossero da considerare molto simili ai commissari politici russi, “parvero assumere il ruolo di vere e proprie 'eminenze grigie', con un alto potere inquisitore”. Del resto l'intero servizio P ebbe un carattere fortemente politico, si trattava di svolgere un compito di ammaestramento patriottico, sia nei confronti dei soldati, sia soprattutto dei contadini, in un'ottica di “rieducazione patriottica i cui fini andavano oltre la vittoria nella guerra, per giungere alla formazione di un uomo nuovo'”.

 

Giovanni Belardinelli, invece, paragone agli ufficiali P ai parroci, che collaborarono attivamente per promuovere la moralità dei soldati e della popolazione. “L'idea dell'italiano 'nuovo' era tradizionale per la giovane Italia unita, si pensi al famoso 'fatta l'Italia bisogna fare gli italiani', e che fu ripresa anche dal fascismo”.

Belardinelli ha posto l'attenzione sull'assistenza. Melograni invece su quella della vigilanza che caratterizzava il servizio P: “i suoi ufficiali sarebbero stati una sorta di inquisitori sia di ufficiali inefficienti sia di soldati disfattisti”. Il prof. Gatti rileva una distanza siderale tra ufficiali e la truppa semianalfabeta, che “non era limitata all'istruzione o all'aspetto economico, ma si trattava di due sistemi di valori, due Weltanschauung, profondamente differenti che comunicavano tra loro solamente con grande fatica”.

 

Una volta conclusa l'esperienza della guerra, alcuni ex ufficiali P, cercarono di continuare quello che avevano sperimentato nell'esercito, un insegnamento civile che avrebbe dovuto continuare anche nel paese. Quella “gioiosa scuola di italianità”, come la definì Lombardo Radice, una posizione accettata sia da Prezzolini, che Jahier e dal nazionalista Volpe, che vedeva nel servizio P, un “nutrimento morale” offerto al combattente.

 

Conclude la Sessione il prof. Piero Crociani affrontando l'altra pagina importante degli “Stranieri in grigio-verde”. Tutti quei Cecoslovacchi, slavi, romeni e soprattutto albanesi che hanno combattuto con gli italiani.

III SESSIONE, a cura dell'Ordinariato Militare, viene affrontato il tema dei Cappellani Militari. Introduce il S.E.R. Mons. Santo Marcianò, poi il Prof. Antonello De Oto, relaziona su “I Cappellani Militari Italiani nella Prima Guerra Mondiale”. Furono circa ventimila uomini, che a diverso titolo portarono la parola del Cristo nel fango delle trincee e nella sofferenza della battaglia.

 

Novanta sono i caduti in combattimento e tre dispersi, centodieci cappellani presi prigionieri dal nemico e ben 546 decorati. Lo Stato liberale ostile alla religione, che desiderava limitare fortemente la sua presenza in ambito militare, “dovette quindi momentaneamente cedere di fronte al bisogno di uno sforzo collettivo per vincere le resistenze del nemico austro-ungarico”. Con onestà intellettuale il marxista ateo Antonio Gramsci riconobbe come l'unico “coefficiente morale”, “che tenne insieme centinaia di migliaia di uomini impegnati nella Grande Guerra, figli di popoli pre-unitari che mai si erano sfiorati e che si conobbero in trincea per la prima volta, furono proprio i cappellani militari”.

 

Certo piuttosto andrebbero fatte profonde riflessioni su  come è stato possibile che due mondi, due popoli, entrambi cattolici si siano potuti combattere così selvaggiamente.

Pertanto nonostante un Papa come Benedetto XV che non esitò a definire “l'inutile strage”, nella I Guerra Mondiale,“un mondo ecclesiastico intero non si fece dunque di lato e si lasciò invece letteralmente attraversare  dall'esperienza dura e lacerante della I guerra mondiale […] condividendo il destino di un popolo impegnato in un conflitto che per la prima volta non coinvolgeva solo coloro che avevano abbracciato il 'mestiere delle armi' ma popoli interi in una dimensione di conflitto mondiale”.

 

E questo dovrebbe essere un fattore penalizzante per tutti quelli che hanno voluto entrare in guerra costringendo non solo cinque milioni di uomini mobilitati, ma un intero popolo che ha dovuto soffrire per tre anni di guerra sanguinosa, che provocato oltre 650 mila morti, (13 milioni in totale in tutti i Paesi) oltre un milione di feriti, di cui duecentosettantamila mutilati.

 

Successivamente Monsignor Angelo Frigerio ha curato una relazione su “Don Angelo Roncalli un sacerdote chiamato alle armi divenuto San Giovanni XXIII Papa”. Ultimo intervento, del Gen. B. Marco Ciampini, su “Il rispetto e la memoria. Il culto della vita nell'onorare i caduti”.

 

IV SESSIONE, con la presidenza del Prof. Giuseppe Conti, affronta “altri aspetti della Guerra”. Dopo “il ruolo delle basi navali e aree della Regia Marina nella Vittoria”, del Prof. Piero Cimbolli Spagnesi, intendo concentrarmi però sulla seconda relazione del Dott. Andrea Di Michele, che affronta un argomento che andrebbe studiato meglio, Patrioti irredenti o fedeli servitori dell'imperatore? Immagini e realtà dei soldati di lingua italiana nell'Esercito austro ungarico durante la grande guerra”. Si tratta dei 110.000 sudditi austro-ungarici di lingua italiana arruolati nell'esercito dell'Impero e inviati a combattere su diversi fronti, in primo luogo in Galizia, sui Carpazi, in Romania. Circa 30.000 finirono nei campi di prigionia in Russia, poi alcuni di questi, circa 2.500, sorpresi dalla Rivoluzione bolscevica, furono trasferiti in un viaggio avventuroso attraverso la Russia nella concessione militare italiana di Tientsin.

 

Al di là di queste vicende avventurose, quasi fantastiche, il caso dei soldati di lingua italiana dell'esercito austro-ungarico rappresenta un elemento storiograficamente interessante. Ci spinge a interrogarci, a ragionare sui sentimenti con cui essi partirono per il fronte, sulle loro identità, culturali, nazionali, regionali, sulle loro aspirazioni, poi sulla loro scelta per l'Italia o per l'Austria. Sono questioni ampie e complesse, che l'autore cercherà di illustrare. Iniziando in principio a descrivere i caratteri della popolazione nei decenni che hanno preceduto lo scoppio della guerra. Si inizia con un identikit dell'Impero multietnico.

 

I componenti principali del vasto Impero erano tedeschi (il 23,9%), e ungheresi (20,2%); gli italiani rappresentavano il 2,0% (780.000). Prima dell'unificazione italiana gli italiani erano ben circa cinque milioni e mezzo, distribuiti tra la Lombardia e l'Istria, costituivano una tessera importante del puzzle asburgico, non solo dal punto di vista numerico, ma anche economico e culturale. Come per tutti i combattenti, la partenza per la guerra era sempre dolorosa, così anche per gli italiani che combattevano per l'Austria. Non mancarono le imprecazioni contro il nemico serbo e il suo alleato russo, a Trieste non mancarono le manifestazioni patriottiche contro i nazionalisti slavi e non mancarono gli assalti agli edifici di sloveni.

 

“L'odio e il razzismo antislavo ricompattava posizioni politiche diverse e dava un senso tutto speciale alla guerra di questi italiani d'Austria”. Lo spirito con cui si partiva non era dunque sempre lo stesso, tuttavia “gli italiani d'Austria risposero diligentemente alla mobilitazione generale del luglio 1914”, lo stesso nelle altre regioni dell'Impero.“A prevalere fu il senso del dovere, l'educazione all'obbedienza alle autorità costituite, l'inerzia di fronte a un comando indiscutibile, il timore per le conseguenze di un atto di disobbedienza, la speranza in una guerra breve, per qualcuno anche la convinzione che si sarebbe combattuta un conflitto giusto, per difendere la patria”. Tuttavia Di Michele rileva che gli alti comandi austriaci erano in certo senso diffidenti dei combattenti italiani:“qualsiasi richiesta di garanzia linguistica e culturale o di autonomia territoriale era sbrigativamente  considerata un'espressione  d'irredentismo  da stroncare senza indugi”.

 

Non così per le autorità civili, che non ingigantivano il significato politico di ogni manifestazione d'italianità. Di questo parere era il luogotenente del Tirolo e Vorarlberg barone Markus von Spiegelfeld, che criticava gli atteggiamenti delle autorità militari, che esasperavano il clima politico, causando effetti controproducenti. Ad avviso del barone bisogna concedere all'italiano “di poter tranquillamente esprimere la sua nazionalità”, in questo modo l'irredentismo non trova nessun canale per alimentarsi. Con lo scoppio del conflitto la severità dei militari si accentuò sulle minoranze etniche. Ancora il Luogotenente a deplorare la politica punitiva, “capace solo di aumentare il distacco degli italiani dalle istituzioni e di fare propaganda all'irredentismo [...]”. Inoltre, “anche per il ministero dell'Interno, andavano evitati, arruolamenti illegittimi,  per non alimentare forme di malcontento nel Trentino, ma anche per non scatenare campagne di stampa antiaustriache in Italia”.

 

Sostanzialmente i vertici militari per Di Michele erano ossessionati per il pericolo irredentista, costantemente ingigantito. Naturalmente questo clima ha provocato gesti di discriminazione e maltrattamenti ai danni dei soldati italiani. E comunque dalle numerose lettere monitorate dai vertici militari austriaci, venne tracciato un profilo etnico di affidabilità dei vari popoli dell'Impero multietnico. I peggiori sono i cechi, mentre per quanto riguarda i soldati dell'area Alpina, gli italiani, il “cuore” della popolazione era da considerarsi “sano” e fedele all'Impero.

 

Tra gli italiani non si registravano casi di diserzioni in massa, il rapporto sosteneva che“un eventuale referendum nei territori di confine rivendicati dall'Italia avrebbe dato un esito schiacciante a favore dell'Austria”. Di Michele si occupa dell'odissea, della dura prigionia dei prigionieri in Russia, tra Austria e Italia. Sostanzialmente erano dei prigionieri dimenticati, anche perchè c'erano forti discussioni sulla loro affidabilità.

 

Comunque Di Michele sostiene che tra questi italiani prigionieri, il fattore “nazionalità” era minoritario, sia che riguarda l'Austria, che l'Italia, loro si sentivano appartenenti alla propria valle, al proprio paese o città. La maggioranza di questi “italiani” era incerta sulla difficile scelta. In pratica erano “troppo italiani” per gli austriaci, poco italiani per il governo italiano.

 

V SESSIONE. “Prospettive del 1918. alcune strategie politico diplomatiche”. Seguono “le relazioni di chiusura” della Prof.ssa Maria Gabriella Pasqualini e del Gen. Isp. Capo Basilio Di Martino, con le sue considerazioni sulla dimensione militare del 1918. Termino con alcuni suoi punti fermi, tratti da Giulio Douhet, uno dei maggiori pensatori militari del XX secolo:

 

“La grande guerra fu essenzialmente: guerra di popoli; sostanzialmente guerra industrializzata; formalmente: una sola, immensa e lunghissima battaglia”. Una lotta di giganti in cui la vittoria aveva premiato chi era stato in grado di “portare in campo una maggiore somma di resistenza, di mezzi, di energie e di fede”. Un monito importante per il futuro sarà quello che nessuno potrà dire: “armiamoci e partire”.

 

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Articolo pubblicato il 12/08/2023