Dal mito di Garibaldi alla religione civile del Risorgimento - Parte 2

Una figura intensamente romantica, ribelle, austera, autoritaria

Secondo la Riall, la biografia di Cuneo creò una formula politico-letteraria che rappresentò la struttura di tutti i futuri approcci al personaggio Garibaldi.

Sostanzialmente Garibaldi appare una figura intensamente romantica, ribelle, austera, autoritaria. «In termini politici, egli rappresenta un ideale decisamente democratico e aperto alla partecipazione; cerca di proporsi come l'incarnazione delle aspirazioni popolari [...]». (p.102) Più volte, la Riall, si dilunga nel libro a descrivere l'abbigliamento del comandante nizzardo. Del resto, il testo è corredato di 34 tavole, ben selezionate che rappresentano Garibaldi durante la sua esistenza.

Nel IV cap. Lucy Riall, dà conto dell'esilio volontario di Garibaldi. Dopo il fallimento della rivoluzione del 1848-1849 il Nizzardo si ritira dalla vita politica e si dedica, fra l’altro, a propagandare sé stesso e le sue idee, approvando le prime biografie scritte da ammiratori, cominciando a comporre le Memorie e consegnandone copie ad amici di nazionalità diversa affinché ne curassero la diffusione a livello internazionale.

 

Accanto al personaggio reale viene in tal modo a coesistere quello immaginario, generato dagli articoli e dai libri che venivano modellati sulla base di priorità politiche, sviluppando le potenzialità narrative con episodi del tutto inventati, ma che avevano la caratteristica di essere verosimili e di rispondere alle attese popolari.

«La fama che lo riguardava — relativa alle sue azioni, al suo aspetto e alla sua vita privata — venne sostenuta dalla rapida e massiccia offerta di informazioni a stampa [...]. Il suo fascino fu confezionato per venire incontro a quelli che apparivano i gusti e le esigenze di questa nascente cultura politica, ed egli stesso operò per crearla» (pp. 190-191).

Sono i giornali inglesi quelli che non smettono di incensare Garibaldi, qualcuno gli dà il soprannome di «Leone», simbolo medievale della resurrezione, quasi da accostarlo ad Aslan, li leone del romanzo di C. Lewis, «Le Cronache di Narnia».

 

Comunque sia le memorie su Garibaldi come quelle di Alexander Dumas, sono guardate con sospetto dagli storici, non aiutano alla ricostruzione della verità. George Macaulay Trevelyan, afferma che nella versione francese non vi è modo certo per «distinguere le affermazioni di Garibaldi dalle invenzioni romantiche di Dumas», e che lo storico non la può considerare una fonte attendibile». Inoltre, lo stesso Garibaldi fino al 1872 continuò a rivedere le sue memorie, pertanto, scrive Riall: «l'ampio numero di versioni diverse significa che era diventato difficile separare la 'leggenda dai fatti'». (p.181)

Tuttavia, in termini generale, le memorie sono dei tentativi di scrittori attivisti politici, che «mediante la costruzione di una memoria collettiva e il richiama ad essa contribuirono a creare un senso di identità nazionale» (p. 183)

 

A questo proposito, citando l'antropologo Benedict Anderson, la Riall, può scrivere, «Il nazionalismo, dipendeva dalla cultura stampata. Senza l'espansione della parola e dell'immagine scritta, sarebbe stato impossibile per le complesse società moderne 'dare forma', 'inventare' o 'immaginare un concetto di comunità e di appartenenza nazionale» (p. 190) La fama di Garibaldi fu alimentata dalla massiccia offerta di informazioni a stampa, e ciò fu reso possibile dalla «rivoluzione» in corso in quel settore.

 

La maggior parte dei volontari erano giovani, molti erano professionisti (avvocati, dottori), una significativa presenza era composta da scrittori, giornalisti e artisti.

Nel VI cap. si riflette sul concetto di guerra mediatica, proprio nell'anno del 1859, dove si utilizza la fotografia, lo sviluppo del telegrafo, che permette di inviare subito notizie, articoli di giornali. Ormai i giornali presentavano i conflitti come uno spettacolo, nascono i supplementi illustrati sulla guerra. Il resoconto pubblicato dallo «Illustrated London News» ricorda una guida turistica dell'Italia settentrionale. «La rappresentazione della guerra del 1859 ebbe un’importanza cruciale per dare vita a un culto di dimensioni europee per Garibaldi, e fu una componente essenziale per la costruzione del mito del “risorgimento” italiano, una narrazione completa, ricca di personaggi, in parte inventata e in parte riferita a fatti storici» (p. 243).

 

Il 1860 fu l'anno d'oro del garibaldinismo, nasce per caso la spedizione dei Mille in Sicilia. Garibaldi non era convinto dell'idea di una rivoluzione in Sicilia, «perse più volte il controllo dei nervi prima della partenza definitiva con i suoi volontari da Quarto, nella notte tra il 5 e il 6 maggio» (p. 217)

Così «nella primavera del 1860, quando Garibaldi si imbarcò per la Sicilia, l'originario obiettivo mazziniano di creare un eroe che simboleggiasse e rendesse visibile l'esistenza di un popolo italiano poteva dirsi pienamente realizzato» (p. 244)

L'VIII cap. la scrittrice inglese si occupa della Spedizione dei Mille che ha inizio non a caso in Sicilia, dove alle secolari aspirazioni autonomistiche della popolazione dell’isola si aggiungono l’orientamento liberaleggiante dell’aristocrazia, che ne aveva attenuato la fedeltà verso la monarchia, e l’endemica turbolenza dei contadini, i quali respingevano in buona parte le sollecitazioni religiose e legittimistiche, cui si mostravano invece sensibili i ceti rurali delle altre zone della Penisola.

 

L’intera spedizione è un capolavoro di regia: al seguito del Generale viaggiano gli inviati dei maggiori giornali italiani ed europei, mentre i fratelli pittori lombardi Domenico (1815-1878) e Girolamo (1827-1890) Induno lo ritraggono nelle scene principali della campagna che — nelle pagine del romanziere Alexandre Dumas (1803-1870), auto-investitosi della funzione di storico dei Mille — diventa una festa di colori e di suoni, una marcia gloriosa e pittoresca, e conquista immediatamente i lettori.

L’avanzata garibaldina, inoltre, viene accompagnata da una serie di proclami e discorsi entusiasmanti, che fanno riferimento ai Vespri e all’orgoglio dei siciliani nonché al sentimento religioso delle popolazioni, mentre il ricorso a feste e a celebrazioni serve a elaborare «un’estetica politica» (p. 283) volta a promuovere un senso di appartenenza nazionale e ad accreditare l’impresa come un’avventura popolare giustificata moralmente. Nelle sue apparizioni pubbliche Garibaldi prende in prestito alcuni elementi dei rituali tradizionali, anche monarchici, e nello stesso tempo è attento a creare un’atmosfera familiare, muovendosi a piedi fra la gente e mostrandosi accessibile a tutti. «Questo eclettico miscuglio di sacro e quotidiano — un’unione fra l’autorità rituale e la rilassata intimità del capo democratico — può aiutare a spiegare il successo popolare del suo culto, e a dare conto della spontanea reazione emotiva alla sua presenza» (p. 279).

 

Dal racconto della Riall non trapela nulla dei vari tradimenti e inadempienze messi in atto dagli ufficiali borbonici, in particolare dei vecchi generali Francesco Landi e Ferdinando Lanza, a Calatafimi e Palermo. E poi ancora Gennaro Gonzales, Tommaso Clary, Giuseppe Letizia, Fileno Briganti, Giuseppe Ghio. Alcuni nomi di comandanti borbonici corrotti, che avevano un esercito più o meno efficiente e non furono in grado di fermare la rivoluzione garibaldina. Sul grado di corruzione dell'ambiente militare borbonico, scrive Gigi Di Fiore: «In totale, sedici ufficiali furono ritenuti responsabili diretti dei tracolli militari in Sicilia, Calabria e Puglia. Incapaci, forse pavidi, altri probabilmente corrotti. Di certo, molti furono solo cinici calcolatori. Scelsero per opportunismo, quando le cose stavano cambiando[...] Qualcuno si suicidò; altri, passati con l'esercito piemontese poi italiano, furono umiliati, guardati con diffidenza e messi subito in pensione[...] Scrisse ancora Alfonso di Borbone conte di Caserta: 'Io credo che un semplice caporale di buona volontà in quell'epoca, se avesse comandato, avrebbe battuto Garibaldi e tutti gli addetti della rivoluzione'» (Gigi Di Fiore, Controstoria dell'unità d'Italia, Rizzoli, 2007)

 

Prima della battaglia del Volturno e poi dell'ultima resistenza nella fortezza di Gaeta, e di Messina, l'unica volta che un ufficiale borbonico non ha tradito, fu nella battaglia di Milazzo, qui  il colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco nonostante con un insufficiente numero di soldati tiene testa ai garibaldini per una settimana.

Ritornando alla mitologia creata intorno al generale vittorioso, concludo utilizzando una recensione al libro della Riall, dello studioso cattolico Francesco Pappalardo. «Dopo l’impresa nell’Italia Meridionale Garibaldi non è più soltanto un generale vittorioso - scrive Pappalardo - ma anche un punto di riferimento per molteplici raggruppamenti d’ispirazione democratica e radicale, che danno vita a quel vasto e autonomo movimento politico noto come «garibaldinismo», termine indicante uno stato d’animo che si traduce in azione, in febbre di combattimento, in spirito di solidarietà fra gli uomini, quasi una fede laica, che subentra alla religione dei padri.

 

Nella politica italiana di quegli anni egli svolge un ruolo centrale attraverso una gran mole di corrispondenza e una presenza instancabile sulla stampa, che tengono alto il suo prestigio e continuano a imporre all’opinione pubblica l’attualità delle questioni di Roma e di Venezia.

Al rafforzamento del mito giova anche l’«esilio» nell’isola sarda di Caprera, che gli garantisce contemporaneamente visibilità e lontananza, aggiunge un tassello ulteriore alla mistica del «Cincinnato» e lo lascia di riserva per le ore grandi della storia. Alla morte del Generale la rivista parigina Revue des deux mondes, pur nell’ambito di un articolo critico su L’ultimo dei condottieri, tributa un omaggio al suo coraggio e al suo senso del teatro: «“gli uomini famosi dovrebbero sempre fare in modo di concludere la propria esistenza su un’isola, niente li rende più grandi della solitudine che ciò crea intorno a loro. Più piccola è l’isola, più grande appare l’uomo, e Caprera è un’isola davvero minuscola”» (p. 438).

 

In ultimo la Riall si sofferma sul ruolo svolto da Garibaldi e dai suoi seguaci nel «fare» gli italiani e nel costruire una nuova identità nazionale - inasprendo soprattutto gli attacchi alla Chiesa, identificata come il vero avversario -, anche se la loro mitologia si rivela efficace più come ideologia di opposizione alla nuova classe dirigente unitaria che come cemento della nazione.

Infatti nel testo è trascurato l'aspetto religioso della battaglia politica e sociale di Garibaldi. Non trapela l'odio ideologico del nizzardo nei confronti del cattolicesimo. «Il partito “anti-italiano” intende non solo “fare l’Italia” ma anche “rifare” gli italiani, - scrive Pappalardo - sostituendo l’ethos nazionale con un ethos estraneo alla tradizione culturale italiana (cfr. p. 176). Pure Garibaldi si fa promotore di una cultura popolare basata su una nuova religione civile, anticattolica, diffusa con “[…] la distribuzione capillare di opuscoli e di catechismi che attribuiscono a lui la vera rappresentanza della legge di Cristo contro le imposture del Papa” (p. 177), ispirata ad un umanesimo di stampo massonico, che egli ha assimilato in un impressionante cursus honorum in seno alla libera muratoria». (F. Pappalardo, “Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia”, Sugarco (2010)

 

Gli ultimi anni della sua vita hanno un grande valore politico e simbolico, perché indicativi sia degli sforzi e delle difficoltà d’imporre una religione «civile» alternativa al cattolicesimo, sia del tentativo di stimolare un ulteriore fase del processo rivoluzionario in Italia.

«In conclusione, il mito di Garibaldi può non corrispondere alla realtà, ma fu senza dubbio straordinariamente efficace. […] la popolarità di cui godette ci offre importanti spunti per comprendere la più generale funzione dei miti nell’ambito dei movimenti nazionali, mostrandoci che i miti vincenti non sono né autentici né inventati, ma scaturiscono da una convincente sintesi di entrambe le cose; e che non sono né spontanei né imposti, ma possono essere molto più appropriatamente definiti come il prodotto di un intricato processo di negoziazione fra “attore” e “pubblico”, nel quale risulta difficile scoprire chi sia l’attore» (pp. 478-479).

 

 

 

 

 


 

 

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Articolo pubblicato il 13/11/2021