Il mito di Garibaldi - Parte 3

La "normalizzazione" sabauda passa anche attraverso la spoliazione economica

Finita la resistenza di Francesco II e di Maria Sofia, inizia subito la resistenza popolare contro gl’invasori che si estende all’intero regno, bollata però come "brigantaggio". Con l’intento dichiarato di non fare prigionieri, secondo gli ordini del generale Enrico Morozzo della Rocca (1807-1897), si scatena una durissima repressione. Migliaia di soldati irriducibili del Regno delle Due Sicilie subiscono la deportazione nei campi di concentramento piemontesi di San Maurizio Canavese e del forte di Fenestrelle, molti la fucilazione. La "normalizzazione" sabauda passa anche attraverso la spoliazione economica: le spese sostenute per l’invasione sono poste a carico dei napoletani, s’inasprisce la pressione fiscale, le industrie meridionali perdono le commesse statali, viene epurato il personale amministrativo e politico ed è introdotta la legge sarda del 1855 sulla soppressione degli ordini religiosi. Si apre la Questione Meridionale.

Studi non viziati da pregiudizi e stereotipi, ormai hanno messo in discussione l’impostazione tradizionale della cosiddetta questione meridionale, soprattutto quella di tipo economico, è chiaro che “alla data dell’Unità non vi fossero differenze tra le due aree del paese”, mentre negli anni successivi all’unificazione, “(…)il declino del Mezzogiorno è un processo continuo fino alla metà del Novecento(…)” Pappalardo sul fenomeno del brigantaggio, parla di contrasto, di due mentalità, di due differenti impostazioni culturali e cita Galli della Loggia, che vede nella questione meridionale,“una diversità etico-antropologica radicale, che diventa un problema per l’identità nazionale italiana. Mentre l’antropologo e sociologo Carlo Tullio Altan, vede addirittura una “reazione di rigetto della società meridionale”, fino ad arrivare ad “uno scontro di civiltà”. Il 17 marzo è proclamato a Torino il Regno d’Italia, così scrive Giovanni Cantoni:“la nazione italiana, prima una nella fede e nella diversità, viene unita nell’errore, cui si accompagna l’imposizione spesso crudele di una uniformità che è piuttosto rivoluzionaria che piemontese. Cadono tutte le Case regnanti, vengono disperse tutte le classi dirigenti che hanno servito la cristianità a diverso titolo fin nelle terre più lontane, le differenze regionali e storiche sono interamente bandite, la religione e i suoi ministri perseguitati”.

 

GARIBALDI ALLA GUIDA DELLA MASSONERIA PER “FARE GLI ITALIANI”.

 

Il 4° ed ultimo capitolo del libro di Francesco Pappalardo,(“Garibaldi e il Risorgimento”), tratta della questione ideologica del Risorgimento. In pratica il nuovo Stato italiano, sorto in maniera così avventurosa, deve legittimarsi tanto sul piano interno quanto su quello internazionale e non è un’impresa facile, almeno per quanto riguarda la nostra penisola, perché la maggioranza del popolo italiano è completamente estranea al nuovo ordine.

Pertanto,“le ristrette élite politiche e intellettuali del Risorgimento, che rappresentano inizialmente un elettorato non superiore al due per cento della popolazione, si attribuiscono il compito di consolidare le basi del traballante Stato unitario”.

 

Questa élite liberale, spesso legata alle varie logge massoniche, sceglie ideologicamente di unificare il Paese estendendo al massimo la presenza dello Stato, e così, viene introdotto l’istituto del prefetto, sono limitati i ruoli decisionali dei comuni, unificati i sistemi monetari; si omogeneizzano tutte le istituzioni, si crea un forte Stato centralista. Parallelamente nasce una politica anticattolica, sotto la guida di quello che il sociologo delle religioni Massimo Introvigne chiama “(…) partito anti-italiano. Per questo partito ‘fatta l’Italia’ non si trattava soltanto di ‘fare gli italiani’; si trattava piuttosto di fare l’Italia contro gli italiani, o di disfare il tradizionale ethos italiano radicato nel cattolicesimo per costruire un ethos nuovo, progettato a tavolino, modellato sulle presunte caratteristiche delle più avanzate nazioni protestanti europee”.

 

Del resto lo aveva già detto, Massimo D’Azeglio, nel 1849, per lui il problema non sono gli austriaci, ma gli italiani, che sono “troppo” cattolici. Lo stesso pensiero è presente in Garibaldi, che si fa promotore di una cultura popolare basata su una nuova religione civile, anticattolica, diffusa con "[...] la distribuzione capillare di opuscoli e di catechismi che attribuiscono a lui la vera rappresentanza della legge di Cristo contro le imposture del Papa" . In sostanza, era un tentativo insidioso di «rieducazione» popolare, volto a disfare il tradizionale ethos italiano fondato sul cattolicesimo per costruire un ethos nuovo. Infatti, Garibaldi,  riteneva, che la lacerazione fra «paese legale» e «paese reale», evidente fin dai primi giorni di vita del nuovo Stato unitario, fosse la conseguenza del radicamento della cultura religiosa presso la stragrande maggioranza della popolazione.

 

“In effetti la massoneria italiana - scrive Pappalardo - condiziona l’agire politico sia dei moderati che dei rivoluzionari: tutta la classe politica, la burocrazia, le forze armate, la magistratura, il mondo dell’istruzione ne sono influenzati; la scuola e l’esercito sono gli strumenti usati per un’ampia iniziativa pedagogica nei confronti della società italiana. Garibaldi diventa l’ispiratore dei ministri dell’Istruzione, Francesco De Sanctis (1817-1883), Michele Coppino (1822-1901) e Guido Baccelli (1830-1916), tutti affiliati alla massoneria. L’obbligatorietà del servizio militare, imposto anche ai chierici, è vissuta come un sopruso, che genera, in numero elevatissimo, renitenza alla leva, diserzioni e suicidi. L’"alfabetizzazione patriottica dei ceti popolari" passa anche attraverso forme di sacralizzazione della monarchia e una massiccia rivoluzione toponomastica. Il Generale è oggetto di venerazione ovunque; sorgono il "partito di Garibaldi" e poi il "garibaldinismo", "termine indicante un fenomeno mentale prima che sociale" .

 

In questo condizioni nasce il mito della Roma da liberare e da "rigenerare" perché soggetta alla "tirannia" papale. Nell’attesa di un’insurrezione dell’Urbe, che non avverrà mai, fra il 1866 e il 1867 vengono soppresse moltissime istituzioni ecclesiastiche, regolari o secolari: il passaggio dei beni di oltre venticinquemila enti alla borghesia fondiaria ha fortissime ripercussioni sociali e apre la strada al proselitismo dei socialisti in vasti strati della popolazione. Tuttavia la persecuzione rende i cattolici sempre più consapevoli della necessità di "[...] un’effettiva sovranità territoriale per consentire al Pontefice il libero compimento della sua missione", come implicitamente sostiene Papa Pio IX, nel dicembre 1864, condannando con il Sillabo due proposizioni relative al principato civile del Pontefice e alla sua libertà.

 

Garibaldi si fa promotore di una “crociata umanitaria” contro il Pontefice, perché “la teocrazia papale è la più terribile delle piaghe del mio povero paese, resa insanabile da 18 secoli di menzogne, di persecuzioni, di roghi e di complicità con tutti i tiranni d’Italia”. Ormai la lotta contro il clero cattolico è il fulcro del suo impegno politico. Naturalmente questo suo furore irreligioso è dovuto alla sua iniziazione massonica, avvenuta nel 1844, in Uruguay.

 “Non va dimenticato, peraltro, - per Pappalardo - che in Garibaldi l’anima razionalista e negatrice del mistero coesiste con quella occultistica. Nel 1863 accetta la presidenza onoraria di una società spiritica veneziana e nel 1881 — pur avendo spesso optato per una struttura «aperta», al fine di facilitare la comunione dei diversi corpi massonici e fare della massoneria il perno di quel fronte laico e radicale che avrebbe dovuto contribuire a trasformare il paesaggio sociale e culturale dell’Italia unita —, torna a preferire strutture verticizzate e forme più riparate d’iniziazione, chiudendo la propria carriera come Grande Ierofante del Rito Antico e Primitivo, suprema carica dei rami rituali di Memphis e Misraïm”.

 

In conclusione  del mio percorso storico culturale su Garibaldi si può sostenere che la  sua figura è tutt’altro che limpida ed esemplare, tanto nella prospettiva religiosa quanto in quella civile, se si considera un valore la continuità identitaria della nostra nazione. Indubbiamente Garibaldi è una figura che contribuisce a dividere e non, come auspicato, a unire: accettarne l’icona equivarrebbe infatti ad accettare un’unità intossicata da una falsa e ideologica nozione d’italianità, in contraddizione con le radici più genuine della civiltà italica. Non a caso Garibaldi fu assunto come emblema nel 1943-1945 dalle brigate partigiane comuniste, nonché dal Fronte Popolare socialcomunista nella battaglia elettorale — felicemente persa — del 18 aprile 1948.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Articolo pubblicato il 23/04/2021