Nel 1920 Karel Capek scriveva R.U.R.: un secolo fa nasceva la parola robot

Massimo Centini per Civico20News

Con robot, in genere, siamo indotti a definire una qualsiasi macchina (quasi sempre di forma antropomorfa) che svolge tutta una serie di attività (nella maggioranza dei casi manuali) normalmente prerogativa dell’uomo. Ciò che dovrebbe differenziarlo da qualunque altra macchina, è la sua capacità di interagire appoggiandosi alle prerogative della cosiddetta intelligenza artificiale.

Il termine robot fu usato per la prima volta un secolo fa dallo scrittore cèco Karel Capek (1890-1938) nell’opera R.U.R. (corrisponde a Russum Universal  Robots) pubblicata nel 1920. Il termine deriverebbe dal gotico arbaiths, lavoro, travaglio; è equivalente allo slavo antico robota, che significa schiavitù o lavori forzati. Inoltre rimanderebbe al gotico arbi, eredità, e alla parola tedesca arbiet, lavoro.

Karel Capek ebbe l’intuizione di usare questo nome prendendo spunto dal fratello Josef (1887-1945), pittore e scrittore, che aveva già affrontato il tema dell’automazione nel suo racconto Opilec (1917).

Per la precisione va osservato che la parola robot è entrata a far parte della vulgata per indicare un essere completamente artificiale, mentre in realtà Capek si riferiva a una creatura ibrida, cioè corrispondente a quello che oggi definiamo cyborg.

Oggi ricorre anche il termine androide, derivato dal greco anèr, andròs (uomo) e quindi traducibile con “forma d’uomo”, che viene utilizzato senza distinzioni per il robot o per il cyborg.

Di fatto i robot immaginati da Capek sono in realtà “replicanti”, creature umanoidi costituite da materia organica amalgamata alla struttura dell’androide con modalità che lasciano trasparire in nuce la progettualità dell’ingegneria genetica, se pur con dinamiche produttive anacronistiche, molto simili a quelle tipiche di un’officina preindustriale.

I robot vengono costruiti nella fabbrica fondata dal dottor Rossum, ubicata su un’isola sperduta in mezzo all’oceano. Isola posta sulla costa orientale degli Stati Uniti fu usata dal biologo Rossum per condurre studi sulla fauna oceanica: nel corso delle sue ricerche ebbe modo di creare artificialmente il cosiddetto protoplasma, che poi verrà utilizzato per la realizzazione degli esseri umani artificiali prodotti dalla Rossum’s Universal Robots.

Capek indica nel protoplasma un “glutine organico” che, come detto, è dovuto a Rossum (rozum, ragione), un inventore, un po’ “pazzo, vecchio e stravagante”, che si pone senza distorsione sulla scia degli scienziati sopra le righe tipici dell’espressionismo.

Ricordiamo che in citologia con “protoplasma” si indicano le sostanze contenute in una cellula e circondate dalla membrana cellulare; fu già descritto dal botanico italiano Bonaventura Corti (1729-1813), mentre il termine venne creato dal fisiologo Jan Evangelista Purkyn? (1787-1869), cfr. Osservazioni microscopiche sulla Tremella e sulla circolazione del fluido in una pianta acquajuola dell'abate Bonaventura Corti professore di fisica nel collegio di Reggio (1774).

Nell’opera di Capek, le strutture costituenti il complesso industriale dell’isola, uffici, officine e abitazioni, sono descritte con caratteristiche che si rifanno all’architettura industriale dell’epoca. L’isola è collegata alla terraferma da tre navi.

Harry Domin, direttore generale della Rossum’s Universal Robots, intende liberare l’umanità dalla schiavitù della fatica fisica. Di fatto però, i robot hanno maturato un profondo odio per il genere umano che vorranno distruggere, ma salvaguardano le fabbriche nelle quali dopo l’opera di eliminazione, ritorneranno a lavorare: metafora del lavoro come attività primaria da cui si è dipendenti.

Le macchine rivoluzionare create determineranno però effetti catastrofici: prima della presa del potere da parte dei robot, saranno gli uomini a perdere la loro identità e autonomia: infatti l’umanità scivola nel vizio e nel menefreghismo, adagiandosi sulle apparenti comodità che la vita offre loro. Si fanno anche meno figli, mentre i robot hanno ormai raggiunto il numero così elevato che li rende onnipresenti e, forti della loro potenza, iniziano a ribellarsi agli uomini e si attivano per sterminare l’umanità. Ad avvertire il pericolo è Helena Glory, che per correre ai ripari distrugge i progetti per la fabbricazione degli androidi: ma è ormai tardi.

Il dottor Gall, direttore della “sezione fisiologica e del reparto ricerche” afferma: “abbiamo dato ai robot volti troppo uguali. Centomila facce uguali puntate verso di noi. Centomila bolle senza espressione. È come un sogno terribile”.

Angelo Maria Ripellino nella nota che accompagna la traduzione italiana di R.U.R., chiarisce: “Il motivo dell’insurrezione dei robot contro gli uomini che li hanno costruiti è connesso in particolare a quelle varianti della saga golemica, in cui l’infuriare del manichino d’argilla viene spiegato col suo odio per il rabbino inventore e sapientone barbuto” ((Nota di A.M. Ripellino in K. Capek, R.U.R., Torino, 1971, pag. 176).

I robot realizzati con tessuti biologici dall’ingegner Russum sono concepiti per le attività industriali, ma alla fine si liberano dal giogo del costruttore. In questi esseri non disposti a subire le imposizioni del loro creatore, è stata individuata una metafora del proletariato, secondo un copione ideologico ricorrente in parte della fantascienza.

Globalmente, R.U.R. si pone come un ammonimento della società tecnologica, che quando perde il controllo degli strumenti che costruisce può vedere stravolto il proprio ruolo, passando da dominatore a dominato.

L’isola è il luogo circoscritto in cui avviene l’apocalittica reazione dei robot, che costituisce un Leitmotiv ricorrente in numerose opere di fantascienza, anche se le radici possono essere scorte nel passato lontano, come per esempio nel mito del Golem.

Da quando Capek, in R.U.R., immaginò l’esistenza di una sostanza analoga al protoplasma delle cellule viventi con la quale erano prodotte le macchine del suo romanzo, i robot sono diventati protagonisti di moltissime espressioni culturali, non solo della fantascienza. Inoltre, sappiamo, la realtà ha superato l’immaginazione e oggi il robot, nelle sue molteplici espressioni, occupa un ruolo rilevante nella società, passando rapidamente dal mondo della produzione industriale a quello della quotidianità.

L’idea di Capek di contenere queste creature in un’isola è un espediente per assicurarci che il loro potere risulti circoscritto, chiuso in uno spazio dal quale apparentemente è impossibile allontanarsi e quindi diffondere la “genia robotica” nel mondo. In realtà, ciò ci assicura solo parzialmente, poiché sappiamo che il potere dei robot non cessa di crescere, forse evolvendosi autonomamente, senza fermarsi mai, anche quando l’uomo ormai sarà un essere obsoleto.

Gli automi sono però destinati a scomparire con il loro inventore: infatti, quando il professore morirà e gli operai umani saranno ormai in salvo su una nave, l’isola salterà in aria. Non rimarrà così traccia di quel mondo straordinariamente innovativo che gli uomini, quelli in carne e ossa, forse non sarebbero stati in grado comprendere.

Ricordiamo inoltre che la letteratura di fantascienza ante litteram propone un’altra isola abitata da esseri costruiti dall’uomo e posti al suo servizio; in questo caso però si tratta di creature docili, che non si ribellano al proprio costruttore.

Ci riferiamo al breve racconto Nell’isola degli automi di Luigi Capuana (1839-1915), pubblicato nel 1906, che contribuisce a porre in rilievo l’attenzione dimostrata dall’autore de Il marchese di Roccaverdina per ambiti della cultura che sembrerebbero essere rigettati dalla poetica verista.

Nell’isola degli automi la struttura si basa sul topos del naufragio: il capitano di una nave e il suo giovane figlio si trovano su un’isola dove un anziano scienziato, con la collaborazione di un gruppo di operai, ha realizzato numerosi di automi che danno all’isola un volto insolito per l’uomo di mare e il suo figlioletto. Capuana dimostra di conoscere le realizzazioni di Jacques de Vaucanson (1709-1782), indicato come antenato del geniale inventore incontrato sull’isola. Inoltre si fa riferimento alle “recenti innovazioni dell’Edison”, trapuntando il racconto con accenni che si correlano armoniosamente al sapere scientifico.

 Che si tratti di androidi come quello descritto da Fritz Lang (1890-1976) nel film Metropolis (1920), o dell’avanzato computer di 2001: odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1928-1999), per l’osservatore non addetto ai lavori non vi sono differenze: la macchina-umana è sostanzialmente un pericolo. Naturalmente, per la maggioranza di noi, l’immagine che scaturisce è quella di un essere che, prima o poi, finisce per porsi in conflitto con l’uomo del quale dovrebbe essere docile servitore.

Nell’opera di Capek gli automi sono però destinati a scomparire con il loro inventore: infatti, quando il professore morirà l’isola salterà in aria, solo dopo aver messo in salvo gli operai umani. Non rimarrà così traccia di quel mondo straordinariamente innovativo che gli uomini, quelli in carne e ossa, forse non sarebbero stati in grado comprendere.

La visione fortemente distopica di Capek ha posto in rilievo – un secolo fa ! – le paure che agitano l’uomo al cospetto delle macchine fuori controllo, destinate trasformarsi da robota – che come abbiamo visto significa schiavitù o lavori forzati – in padrone assolute della nostra specie che diviene subalterna e destinata a soccombere al potere degli automi e forse anche a scomparire.

In R.U.R. – come abbiamo visto – ad attivare la rivolta ha contribuito il comportamento degli uomini, che hanno perduto di vista i valori etici e morali che dovrebbero essere dominanti in una società civile.

La rivolta delle macchine può anche essere intesa come una sorta di punizione per gli esseri fatti a immagine e somiglianza del loro dio al quale, per alcuni aspetti, hanno forse pensato di sostituirsi.

Anche se su un piano diverso, i primi vagiti di questa rivolta possono essere scorsi nel Frankenstein (1818) di Mary Shelley (1797-1851), trovando in seguito una sempre più ampia diffusione nella fantascienza moderna, in cui ha raggiunto alcune espressioni di alto livello narrativo: per esempio con il romanzo di Philip Dick (1928-1982) Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (1968), divenuto un cult nel cinema di genere con Blade Runner (1982); il cinema ha infatti dato ampio spazio al tema della rivolta delle macchine: basti ricordare 2001: Odissea nello spazio (1968), o il più recente Io robot, tratto dai lavori di Isaac Asimov (1920-1982) e ancora, anche se meno noto dei precedenti Il mondo dei robot (1973), girato partendo dal libro di John Michael Crichton (1942-2008).

 

Massimo Centini

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 04/04/2020