Anche il Pd festeggia Carnevale

Resa dei conti tragicomica per il partito di centrosinistra.

Quando Veltroni, Bersani, Fassino, D’alema, Gentiloni e un plotone di parlamentari di centrosinistra nel maggio 2007 decisero di fondare il Pd sciogliendo al suo interno la Margherita, i Democratici di Sinistra e vari altri partiti legati al mondo “rosso”, l’obiettivo comune era quello di creare un grande movimento capace di raccogliere le varie anime del centro sinistra, fin li sempre spezzettate tra correnti, correntine, fazioni, minoranze, gruppi e gruppetti.

Questa nuova formazione,  laica e progressista, sarebbe dovuto diventare il faro della sinistra europea, una specie di socialdemocrazia 2.0 coesa ed in grado di capire e confrontarsi con le nuove sfide avanzate nel futuro, quali immigrazione, globalizzazione, economia, tecnlologia, e via dicendo.

A distanza di dieci anni si può tranquillamente dire che il progetto è del tutto naufragato, e di questo se n’è avuto una certificazione domenica scorsa, durante l’assemblea del Partito.

Un Pd diviso da mesi in Bersaniani, Dalemiani, Epifaniani (si usa?) Giovani turchi, falchi, colombe, e chiunque non condividesse la linea imposta da Renzi, ognuno pronto a smarcarsi al momento opportuno.
Che è, appunto, questo.

Non che nei mesi precedenti andassero tutti d’amore e d’accordo: chi non ricorda le bordate di D’Alema alla Riforma Costituzionale? O i tentennamenti dei Prodi o dei Cuperlo all’agognata causa del SI?
Tuttavia le spinte centrifughe erano contenute dalla leadership renziana.
Venuta meno quella, è imploso tutto.

Ora i grattacapi per l’ex Primo ministro vengono dai “tre tenori” Speranza, Rossi e Emiliano.
Il primo, bersaniano e da parecchio tempo lontano dalle posizioni di Renzi, sembra ormai un pesce fuor d’acqua, pronto a prender nuove vie; l’ex governatore della toscana, Rossi di nome e di fatto, ha dichiarato di pensare di restituire la tessera del Partito.
Il terzo, portavoce del trio, è la vera alternativa al fiorentino.
Popolare e amato nella sua Puglia, dov’è attualmente presidente di Regione, da molti viene considerato come il vero antagonista di Renzi, anche se domenica ha preferito giocare a nascondino, evitando la rottura ufficiale che comunque continua ad aleggiare sul Pd: a fine intervento c’è stato perfino spazio per una (gelida) stretta di mano col suo nemico.

Per ora più che una scissione è sembrata una commedia: lo scopo di una parte è far sembrare più cretina l’altra.
Gli scissionisti non hanno ancora avuto il coraggio di recidere l’ultimo filo che li lega al Partito, il toscano non li ha ancora cacciati.
Quindi? Stallo.

Domani o dopodomani potrebbero esserci nuovi capitoli della saga.
Ci si chiede quanto potrebbe avere una formazione degli scissionisti, magari guidata da Emiliano, con all’interno gli scontenti come Bersani, D’alema e Cuperlo.
Vari sondaggi li danno intorno al 9-10,5%.
Una cifra capace di far precipitare il Pd sotto il 20% e, d’altro canto, di essere poco rilevante ai fini governativi.

La scissione, inoltre, sarebbe la terza per il giovane Pd: un partito che ha visto allontanare dalle sue sponde prima Possibile di Civati (a proposito, che fine ha fatto?) e poi Sinistra Italiana guidata prima da Fassina e ora da Fratoianni. Loro vengono dati al 3,8%.

La balcanizzazione della sinistra è vicina.

E Renzi che fa? Nell’assemblea di domenica è apparso abbastanza dimesso.
Ha evitato battutine e aut aut, e nel suo brevissimo intervento si è limitato a sottolineare che non ci sta a cedere ai ricatti (“no ai veti si ai voti”).

Nel frattempo Orlando, uno che si autodefinisce l’ultimo togliattiano, ha annunciato trionfalistico “se impedisse la scissione mi candiderei”.
Stai tranquillo Orlando non sei così importante, sembrano pensare più o meno tutti gli iscritti Pd

 

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 21/02/2017