Sanzioni alla Russia: bruciati 7,5 miliardi in due anni

La cecità dei governanti che ci condanna.

Una scelta masochistica, quella adottata dal governo italiano non più di due anni fa, con la quale si accettavano di buon grado le sanzioni comminate dall’Unione Europea alla Russia in risposta alla politica estera troppo aggressiva da parte di Mosca in Crimea.

Questo verrebbe da pensare guardando il rapporto Coldiretti pubblicato qualche giorno fa che stima in 7,5 miliardi la perdita d’affari che i nostri imprenditori, specie quelli del ramo agroalimentare, han dovuto far fronte a causa dell’embargo avvenuto con decreto n.778 il 14 agosto 2014 che ha di fatto bloccato verso la Russia la vendita di moltissimi prodotti nostrani, tra cui frutta, verdura, formaggi e carne.

A pagare il prezzo di queste scelte politiche ci sono anche il settore del tessile, dell’auto e dei trasporti: tutti ambiti in cui la presenza italiana era molto forte.

A rendere ancor di più l’idea di quanto madornale sia stato questo errore vi è il fatto che i rapporti commerciali con la Russia da parte dell’Italia erano costantemente in crescita e avevano  registrato un mostruoso + 122% negli ultimi cinque anni antecedenti il blocco: Mosca era diventata per il Belpaese l’ottavo paese per export, ora è scivolata al tredicesimo posto, dietro la Polonia.

Presto l’embargo, a sentire le indiscrezioni provenienti dei vertici UE, sarà allentato: tutto come prima, quindi?
Niente affatto!
Questo blocco che, occorre ricordarlo, oltre a riguardare tutti i paesi dell’Unione europea, ha visto coinvolti gli Usa, il Canada, la Norvegia e l’Australia, ha si, in un primo momento indebolito il rublo, ma poi ha portato la stessa Russia a puntare sulle sue enormi risorse: migliaia di ettari di terreno sono stati riconvertiti e coltivati a grano, così come hanno iniziato a svilupparsi veri e propri distretti della moda e del lusso, di cui un tempo eravamo i primi “venditori”.

Parallelamente, a sopperire la carenza di made in Italy sul suolo russo, sono spuntate come funghi aziende che spacciano come italiani prodotti locali: proliferano marchi denominati “Bella italia”, “parmisan”, mortadella bolognese o pesto ligure “Belpaese”, “delizie tricolori”, e via dicendo: ovviamente tutto di fattura (e qualità) locali.
Questo, comporta un duplice fattore negativo, perché oltre alla beffa del mancato guadagno derivante dalle esportazioni, il nostro marchio subisce anche l’onta di essere associato a prodotti scadenti.

A rimetterci, poi, c’è stato anche il mondo della ristorazione: moltissimi italiani che avevano deciso di far fortuna nel paese di Putin approfittando del boom di richiesta dei piatti tipici nostrani han visto sparire dal paniere i prodotti cui si rifornivano, ripiegando su prodotti russi.

Insomma, una scelta di cui si è parlato poco nei telegiornali nazionali, ma che ha portato a ingentissime perdite in settori chiave; una scelta poco lungimirante, se non addirittura tafazziana, per citare quel personaggio televisivo reso celebre da Giacomo Poretti che provava piacere nel prendersi a martellate sui gioielli.

 

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Articolo pubblicato il 25/10/2016