Fuga dall’Università: quando l’alloro non è più un sogno.

Numeri e ragioni che hanno portato a un calo delle immatricolazioni in tutta la penisola.

Hai appena concluso l’esame di maturità.
Finalmente sei scappato al mare per rilassarti dopo mesi di stress e interrogazioni.
Tra un ghiacciolo e una partita a racchettoni sfogli distrattamente il manuale che ti han comprato i genitori con le descrizioni di tutta l’offerta universitaria presente nel raggio di cento chilometri.
Ne scarti qualcuna, la cui materia principale al sol nominarla ti fa venire il mal di stomaco.
Altre le circoletti mentalmente, sembrano interessanti.

Come dimenarsi tra tutte quelle proposte?
Non era ancora concluso l’orale che i tuoi zii ti han chiesto che ne sarebbe stato della tua vita, indicandoti quali facoltà scegliere e quali evitare come la peste.
Perché continui con gli studi, no?
Pare lo diano per scontato, loro.
Non sanno che nemmeno un ragazzo su due, attualmente, decide di proseguire il suo percorso accademico iscrivendosi a un corso di laurea: i tempi sono cambiati.

L’università non tira più.
A leggere i dati annuali pubblicati dalla Fondazione Res c’è poco da commentare.
Gli studenti immatricolati in un decennio sono  crollati del 20%.
Si è passati dalle 63 000 matricole del 2004-2005 alle 51 000 unità del biennio 2014-2015.
Una volta chi si diplomava nel 73% dei casi si iscriveva in un ateneo italiano, oggi non è più così.

Un calo vertiginoso, se si pensa che l’obiettivo dichiarato dai Ministeri dell’istruzione che si sono susseguiti era quello di portare la fascia d’età compresa tra i 30-40 anni nel 2020 a un tasso di laurea del 40%.
Il dato, ovviamente, rimarrà un’utopia, anche perché attualmente ci attestiamo al poco confortante 24%, contro il 33% dei tedeschi e il 44% dei francesi.

Leggendo qua e là tra le dichiarazioni dei soloni della cultura, il dato, allarmante, è attribuibile ai tagli che lo Stato avrebbe optato nei confronti del personale, ai pochi incentivi in termini di borse di studio e alle tasse alte.
Tutte spiegazioni valide, certo, anche se definire elevato il carico economico in capo alle famiglie per la spesa universitaria non mi pare così corretto: se si osservano le rette di qualsiasi istituto universitario americano o inglese, si noteranno come queste siano enormemente più alte rispetto  a quelle nostrane.
La pecca italiana, semmai, risiede in un particolare che alcuni tendono a definire insignificante, ma che è, a ben vedere, macroscopico, ossia, la difficile spendibilità sul mercato del lavoro del sudato “pezzo di carta”.
Andando ad analizzare i dati scopriamo che a distanza di tre anni solo  il 52, 9% dei laureati risulta occupato. Un dato, questo, scoraggiante, se consideriamo che la media europea si aggira intorno al 80%.
Anche per ciò che riguarda i guadagni mensili, laurearsi conviene sempre meno: si va da una somma vicina ai 962 Euro per gli psicologi e i “letterati”, a quelle ben più alte per medici e veterinari.
Cifre molto distanti dai Paesi “traino” dell’Europa.
Ovviamente il guadagno è maggiore rispetto a quello dei diplomati, tuttavia per molti corsi il gioco non vale la candela, se si considera l’investimento in termini di tempo, tasse,libri, trasporti, e guadagni mancati per ottenere una laurea.

A subire maggiormente questa crisi sono soprattutto le facoltà umanistiche: Filosofia, Lettere, Storia,Giurisprudenza, Sociologia, Scienze Politiche, ma anche Economia registrano i cali più notevoli.
Le voci di disoccupazione certa, il pessimismo, e la persuasione utilizzata dai genitori per spingere i propri figli verso le facoltà più scientifiche han dato i suoi frutti: piuttosto che perdere anni e soldi dietro il pezzo di carta che non aggiungerà molto al tuo cv, meglio darsi da fare sin da subito nel mondo lavorativo, o fare esperienze all’estero:  strada che risulta particolarmente battuta tra i giovani d’oggi.

Certo, se ci mettiamo anche le dichiarazioni dell’allora Ministro dell’Istruzione Gelmini, che all’epoca definì la laurea in Comunicazione come inutile, o le esternazioni di Poletti, che condannò i laureati fuori corso, il risultato non può che essere questo.
Si badi bene: l’affermazione del Ministro del Lavoro può anche essere condivisibile, tuttavia risulta un po’ stiracchiata alla luce del fatto che lo stesso Poletti è un semplice perito agrario.

A dare una mano a questa ritirata dalle facoltà pare ci siano i test d’ingresso che bloccano le ambizioni di migliaia di aspiranti medici, veterinari e farmacisti. Sul tema ci sono stati molti dibattiti, ma è evidente come, per determinati corsi di laurea che includono tirocini e strumenti tecnici, sia necessaria la regolamentazione del numero degli studenti, e non, quindi, un via libera incondizionato.

Per evitare di perdere ulteriori studenti, il rettore dell’Università di Bari, Antonio Uricchio è corso ai ripari, abolendo il numero chiuso per molte facoltà.
Vedremo se solo questa è la causa.
Proprio al Sud la situazione sembra la più tragica: a Catania ci sono facoltà che hanno perso sino all’81% di iscritti rispetto ai primi anni del 2000; un numero mostruoso, attribuibile alla crisi, ai disservizi e al pessimismo verso il futuro.
Tale differenza, fanno notare dal Ministero, non potrà che accentuare il divario tra Nord e Sud, già di per se evidente.

I responsabili di Almalaurea (consorzio interuniversitario cui aderiscono quasi tutte le facoltà nostrane) rispondono che avere una generazione di laureati è utile per una società migliore: dal combattere l’analfabetismo funzionale al capire a fondo un telegiornale, il titolo serve eccome.

Resto convinto che anche tu, sdraiato in spiaggia a sfogliare mentalmente l’elenco delle università cui potresti iscriverti, non ti reputi un analfabeta funzionale e i servizi del tg li capisci, e magari li critichi.
Tuttavia vorresti scegliete un corso che ripaghi i tuoi sforzi economici e mentali fatti.
Perche è vero che l’università non può essere considerata un’agenzia del lavoro, ma è altrettanto vero che per fare il cassiere o friggere patatine in un fast food, avere la corona d’alloro appesa in camera è piuttosto superfluo.

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Articolo pubblicato il 07/07/2016