Il referendum che fa tremare l’Europa.

Should the United Kingdom remain a member of the European Union or leave the European Union? Marco Zaia per "Civico20"

Questo il quesito che il prossimo 23 giugno si troveranno di fronte milioni di cittadini di Sua Maestà.
Lasciare o rimanere, l’amletico dubbio  che sta affliggendo migliaia di famiglie britanniche e che cambierà sostanzialmente la storia d’Europa, troverà finalmente un epilogo tra meno di un mese, quando si riuscirà a capire se il progetto di un’Europa federale sul modello Stati Uniti potrà avere un futuro, o si sarà sciolto come neve al sole (di giugno).

I sondaggi commissionati da vari istituiti danno la permanenza all’interno dell’Unione in vantaggio, ma non di molto. Cinque- Sei punti facilmente ribaltabili da una serie di fattori, come l’alto numero di indecisi che si attesta intorno al 20%.

Cameron, negli ultimi mesi, si è molto speso per il “Remain”, riuscendo a trattare con la UE un accordo più conveniente che il leader della destra populista Farage si è affrettato a definire “patetico”.
Questo accordo riguarda principalmente i sussidi, la politica estera e i migranti: non è un mistero che tra i motivi che hanno spinto molti inglesi a battersi per l’uscita dall’Unione Europea ci sia la voglia di separarsi da una dittatura legislativa che considerano troppo asfissiante.
Questi patti, negoziati in novembre da Cameron e trionfalmente celebrati dallo stesso Premier, assicurano maggiore libertà d’azione all’Uk, limitando ancora di più l’ingerenza europea negli affari britannici: un compromesso che, però, non piace a tutti.

C’è chi dice Remain.
Come detto, a favore della permanenza del Regno Unito in Europa c’è Cameron e alcuni suoi ministri , come il Cancelliere George Osborne e il Ministro degli interni Theresa May; vi è poi l’intero partito Labour, il Partito Nazionale Scozzese e quello Gallese. Di recente si è anche unito  Sadiq Khan, neo sindaco londinese, musulmano e laburista.
Hanno remato in questa direzione anche il presidente francese Hollande e la Cancelliera tedesca Merkel, e dall’altra parte dell’Atlantico sono entrati a gamba tesa nella partita sia Obama che Hilary Clinton, che rivolgendosi direttamente ai sudditi della Regina han detto senza troppi giri di parole “Cari britannici, rimanete nell’Ue, vogliamo un forte Regno Unito in una forte Unione europea”. Parole che ebbero la forza di far sussultare il precedente primo cittadino londinese, Johnson, euroscettico, che bollò il Presidente USA come “mezzo keniano”.

C’è poi la City, compatta verso una permanenza europea: diverse compagnie hanno fatto notare come un’uscita porterebbe a gravi conseguenze per i loro business e molte di loro si sono rese disponibili a spostare gli uffici a Parigi o in altre capitali europee qualora si verificasse la Brexit.
In generale, è tutta la finanza a spingere per restare in Europa: secondo Goldman Sachs, in caso di uscita, la sterlina perderebbe fino al 20% del suo valore, rendendo più care tutte le importazioni, a partire dal petrolio.
C’è poi uno studio Ocse che evidenzia come per diversi anni la Gran Bretagna potrebbe perdere fino a 7-10 punti di Pil: tutte conseguenze che porterebbero a un generale impoverimento delle famiglie inglesi.

Si può dire che, da un punto di vista politico ed economico, si sta assistendo alla stessa campagna di demonizzazione che avvenne per la possibile uscita dall’Europa della Grecia e per la separazione della Scozia dall’Inghilterra, con tutti i poteri forti decisamente schierati per lo status quo, impegnati a difendere posizioni che garantiscano stabilità all’economia del paese toccato.

C’è chi dice Leave
Già senza andare in altri schieramenti politici, ci si rende conto di come lo stesso governo sia spaccato sulla questione: la BBC evidenzia come almeno cinque ministri siano favorevoli alla Brexit, tra cui Michael Gove, titolare alla Giustizia, ma anche Iain Duncan Smith (Lavoro) e John Whittingdale (Cultura).

Chiaramente il capofila della corrente è il leader dell’Ukip Nigel Farage, il vero artefice di questo referendum che da anni lotta per un’Inghilterra libera dalla gogna europea, incapace di far fronte alle emergenze dei migranti e di affrontare efficacemente la crisi del 2008.
Tuttavia, a dar manforte al piano del leader populista vi sono diversi esponenti politici di spicco, il partito nazionale del Nord Irlanda, ma, soprattutto buona parte dell’opinione pubblica: molte persone sono stanche dell’Europa, e , in fondo, lo spirito europeo non è che abbia mai attecchito da queste parti: se per ciò che riguarda l’Italia si può parlare di conquista capace di garantire stabilità e pace a un’area dilaniata per buona parte del 900 da guerre e conflitti, per molti britannici l’Europa è spesso vista come una fastidiosa zavorra, un vincolo in grado di garantire si buoni scambi commerciali, ma anche una riduzione dell’amata indipendenza.

A guardare con particolare interesse la partita c’è la Le Pen con il suo Front National, e l’Alternative fur Deutschland, terzo partito in Germania, di destra e euroscettico, che per voce del suo leader ammonisce "L'uscita della Gran Bretagna dall'Ue sarebbe fatale perché i britannici sono spesso la voce della ragione...e portano con sé correttivi salutari alla pazzia dell'espansione del progetto. Se la Gran Bretagna lascia, perderemo un contributo al bilancio e (la Germania) dovrebbe prendere sulle spalle le perdite finanziarie dell'Ue".

Dalle nostre parti il referendum sembra coinvolgere in modo particolare Salvini e il Movimento 5 Stelle: il leader leghista ha dichiarato apertamente che voterebbe a favore della Brexit dando vita a una serie di raccolta firme per far votare gli italiani lo stesso giorno del referendum.
Un po’ più cauto è stato Grillo, che però ha spesso criticato le posizioni europee e a Bruxelles ha stretto una solida alleanza con l’Ukip di Farage.

E noi cosa rischiamo?
Londra, si sa, è la quinta città per numero d’italiani, ed è impossibile che per loro non ci siano conseguenze. Certo, qualora vincesse il “leave” ci vorrebbero almeno un paio d’anni per concretizzare l’uscita dell’Uk, tuttavia le ripercussioni sui contratti di lavoro e il welfare di cui molti italiani stanno godendo vedrebbero complicazioni, se non altro burocratiche.

C’è poi da considerare tutto il comparto degli investimenti: colossi come Eni , Ferrero, Pirelli, Fca investono da anni in Uk, così come case di moda, design, ristorazione e molto altro. L’aumento delle barriere d’accesso al mercato anglosassone costituirebbe una perdita notevole per gli imprenditori italiani; ovviamente sussisterebbe anche il problema inverso, ossia tutti gli investimenti, specie finanziari, inglesi sul nostro territorio che, leggendo dalle colonne del Sole 24 ore, inciderebbero più dal punto di vista dei volumi d’affari che non dell’occupazione.

Insomma, consultando i maggiori esperti la Brexit costituirebbe una no-win situation, con un isolamento da parte dei sudditi della Corona, e un’ingente perdita economica da parte di tutti i Paesi che hanno stretto accordi commerciali con essa.

Ed è per questo che molto probabilmente si verificherà un nulla di fatto, l’ennesima montagna che partorisce il topolino; infatti la paura, per certi versi il terrore finanziario,  portato avanti dal Fondo Monetario Internazionale, la Fed, la Ue e le grandi multinazionali sembra spingere il libero popolo inglese a un razionale Remain.
Come nei recenti casi ellenici e scozzesi, tanto rumore per nulla.
E vissero tutti felici e (s)contenti.

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Articolo pubblicato il 26/05/2016