La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

Storie della Barriera di Nizza: la via Valtorta e due fratelli «assetati di sangue umano»

Quella che oggi si chiama piazza Giosuè Carducci è l’antica Barriera di Nizza definita dalla Cinta daziaria del 1853: sul corso Bramante corre il muraglione col fossato e la strada di circonvallazione e, più o meno in corrispondenza dell’attuale cavalca-ferrovia, si trova la Barriera di Genova.

 

Della antica Barriera, piazza Carducci mantiene la pianta “a imbuto”, anche se sono scomparsi gli edifici porticati per gli uffici del Dazio e l’alloggio delle Guardie.

 

Chi scrive, spende sempre volentieri qualche parola sul Borgo San Salvario e sulla relativa Barriera di Nizza, non soltanto per ragioni emotive, visto che dal 1969 al 2000 vi ha trascorso buona parte della sua vita lavorativa, ma soprattutto perché Borgo e Barriera rivestono indubbia rilevanza nella “Torino noir”.

 

Nella Torino degli anni Settanta dell’Ottocento, nella Cinta Daziaria sono comprese vaste aree prive di costruzioni: per il Borgo San Salvario questa affermazione assume particolare significato.

 

Lungo la via Nizza, le case del Borgo San Salvario non superano l’attuale corso Raffaello, tranne le casette che fronteggiano la Scuola Veterinaria e la chiesa del Sacro Cuore (la Pertusa): non sono quelle che vediamo oggi, perché costituiscono un blocco unico, non ancora attraversato dall’attuale via traversa Petrarca.

 

Lungo il percorso di via Nizza, si trovano alcune grosse cascine: il Maggiordomo, il Fessia, la Passerona, e alcuni stabilimenti.

 

Nella vasta area quadrangolare che possiamo circoscrivere tra via Nizza, corso Raffaello, il fiume Po e la Cinta Daziaria (corso Bramante) vi sono pochissime costruzioni sparse, tra queste l’Ergastolo col Correzionale delle Prostitute (nella zona del Liceo Alfieri, in corso Dante angolo via Ormea), e il canale dell’Ergastolo che si apre nel Po con due rami.

La Molinetta è un soltanto un mulino.

 

Dalla via Nizza, all’altezza di via Bidone, parte la via Valtorta, sorta lungo il percorso di uno dei tanti rivi e fossi che, in passato, solcavano la campagna pianeggiante per scaricarsi nel Po: la via Valtorta ha un andamento obliquo che raggiunge all’incirca il punto dove oggi il corso Bramante si immette oggi sul ponte Franco Balbis.

 

In questo punto nel Po si trova l’isola di Armida, un piccolo isolotto dove si trova una osteria: l’isola darà il nome a una società di canottieri.

 

Nel suo decorso, la via Valtorta passa lungo un lato del Correzionale delle Prostitute.

 

Oggi la via Valtorta è scomparsa per l’ordinata costruzione delle case nel rettangolo delimitato da corso Raffaello, corso Massimo D’Azeglio, via Nizza e corso Bramante; rimane soltanto il vicolo Valtorta in via Donizetti, un passaggio che collegava la vie Donizetti e Petrarca, nell’isolato tra le vie Madama Cristina e Ormea.

 

Queste premesse sono necessarie per comprendere le varie location della storia di sangue che raccontiamo, storia che inizia in Torino ancora capitale del Regno Sardo, nel 1860, dove i fratelli Luigi e Domenico Traversa avevano organizzato una banda specializzata per rubare nelle cantine: ne vuotano più di cento in un anno circa.

 

Il covo era situato in via Santa Chiara, dove la polizia arresta cinque componenti della banda e sequestra molte chiavi false, grimaldelli, leve, bottiglie, fusti di vino ed altre merci in così gran quantità che, quando sono trasportate nella sala delle udienze giudiziarie come corpi di reato, danno al tribunale l’aspetto di un bazar.

 

I cinque accusati, fra i quali vi sono i fratelli Luigi e Domenico Traversa, negano di essere ladri ma la Corte li condanna tutti alla reclusione chi per cinque, chi per sette e chi per dieci anni.

 

Nel penitenziario di Alessandria i fratelli Traversa non si emendano, anzi diventano peggiori di prima. Prima della loro condanna si accontentavano di attaccar briga, di dare qualche pugno, di rubare, dopo diventano brutali, feroci e “assetati di sangue umano”.

 

Scontata la pena, la sera del 12 settembre 1869, nell’isola di Armida del fiume Po Luigi si mette a discutere con Emanuele Reibaudi. Michele Tonda, a richiesta di un amico, si intromette fra i due che bisticciano e, con bei modi e gentili parole, li convince a smettere e a rappacificarsi.

 

Luigi Traversa ha fatto la pace con Reibaudi, ma quella sera aveva voglia di sangue.

 

Non sapeva contro chi sfogare il suo animo perverso, chiama suo fratello Domenico e con lui insegue il paciere Michele Tonda che poco prima è partito dall’isoletta.

 

Lo raggiungono in via Valtorta in prossimità dell’Ergastolo, lo fermano, lo gettano contro un muro e, mentre Domenico lo tiene fermo, Luigi con un lungo coltello gli vibra, quasi come per divertimento, sette lenti colpi in varie parti del corpo.

 

Il povero Tonda grida, ma invano, perché nessuno accorre in suo aiuto.

 

Allora fa finta di essere morto e, appena i suoi assassini si allontanano, riesce a trascinarsi carponi alla prima casa che trova. Racconta il doloroso fatto e poi viene trasportato all’ospedale dove muore fra atroci dolori.

 

I fratelli Traversa vengono arrestati e portati davanti alla Corte di Assise di Torino nel maggio del 1870. I loro avvocati difensori fanno ogni sforzo possibile per scagionarli dall’accusa o almeno per mitigare la loro pena, ma i giurati, convinti dalla requisitoria del barone Bichi, Pubblico Ministero, e pronunciano un verdetto in base al quale la Corte condanna Domenico alla pena dei lavori forzati a vita e Luigi alla pena di morte.

 

I due fratelli ascoltano con freddezza la lettura di questa sentenza.

Il cronista giudiziario della “Gazzetta Piemontese” commenta: “Così i giurati di Torino rispondono agli abolizionisti della pena di morte”.

 

Nei giorni successivi la redazione del giornale rincara la dose: i fratelli Traversa hanno commesso “il più barbaro assassinio che dir si possa” e quindi il verdetto dei giurati è stato severo ma la pena doveva essere quella di morte, visto che non è stata ancora cancellata dal Codice penale.

 

Ma per Luigi Traversa arriva la grazia del Re che lo salva dal patibolo.

 

 

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 09/07/2013