“La Torino noir” vista e narrata da Milo Julini
Topinambour

Due cuochi litigiosi: un topinambour come pomo della discordia

Le polemiche scatenate sul Web a proposito della concorrente risultata vincitrice della seconda edizione di “MasterChef d’Italia”, accusata di una serie di comportamenti scorretti nel corso della gara a danno degli altri concorrenti, polemiche che delineano uno scontro tra cuochi, mi hanno fatto venire alla mente un episodio di cronaca nera torinese dell’Ottocento, una “guerra” che si scatena in una cucina per un tubero di topinambour, al tempo chiamato anche “tartufo bianco”, e che finisce con mortali coltellate inferte da una persona irreprensibile.

 

Questa incredibile storia si svolge nel Borgo Nuovo di Torino, la cui costruzione è iniziata nel 1832, durante il regno del Re Carlo Alberto. Pare opportuno chiarire la location di questa storia, e ricordare che, nella Torino dell’Ottocento, il Borgo Nuovo si colloca al di sotto della Sezione Po, da cui è diviso dal Giardino dei Ripari, che dopo il 1871 viene in parte demolito e sostituito dalla Aiuola Balbo e dai giardini detti delle “Montagnole” di piazza Camillo Cavour.

 

Borgo Nuovo ha la forma di un pentagono irregolare ed ha come limiti:

 

il Giardino dei Ripari cioè in termini moderni: via Andrea Doria, l’Aiuola Balbo, la piazza Cavour;

il tratto finale della via Giovanni Giolitti;

il fiume Po, impiegando i nomi delle attuali vie, il corso Cairoli e il lungo Po Armando Diaz;

il corso Vittorio Emanuele II fino a via Carlo Alberto;

la via Carlo Alberto, dal corso Vittorio Emanuele II alla via Andrea Doria.

L’asse centrale del borgo è la via Borgo Nuovo, oggi via Giuseppe Mazzini. Nel 1858 si è proposto di dedicarla a Daniele Manin ma la proposta non ha avuto seguito.

 

Nel 1851, scrive il geografo Goffredo Casalis, Borgo Nuovo conta già più di 15.000 abitanti ed è stato costruito con criteri di eleganza: le case hanno una architettura moderna e funzionale, l’aria del Borgo è molto salubre, si trovano negozi e botteghe artigiane d’ogni genere e quindi non è necessario allontanarsi per gli acquisti.

 

In questa location, la storia inizia in vicinanza del Natale dell’anno 1876, quando Agostino Candellone, cuoco nella trattoria del Varo, si porta nella cucina un topinambur di cui è ghiotto, per mangiarselo con olio e sale. Ma il tubero viene visto da Carlo Deltetto, aiutante di cucina nella stessa trattoria, il quale lo sottrae di nascosto al suo proprietario e, senza metterci né olio né sale, se lo divora.

 

Il cronista giudiziario della «Gazzetta Piemontese», che si firma Basilius, racconta le liti che nascono da questo dispetto di Carlo Deltetto al cuoco Candellone con molto brio e dotti giochi di parole:

 

«Questo piccolo tubero fu il pomo (prevedo che qualcuno mi farà la burletta per questo topinambur cambiato in pomo) della discordia fra il cuoco e il suo aiutante, e per parecchi giorni i due sacerdoti di Apicio [Mitico ghiottone e cuoco dell’antica Roma, n.d.a.] si ricambiarono ingiurie accompagnate da minacce a mano armata di... casseruole, padellini e tegami» («Gazzetta Piemontese», 25 marzo 1877).

 

Con i debiti cambiamenti, tutto questo potrebbe ricordare un episodio del film «I nuovi mostri», del 1977, diretto da Dino Risi, Mario Monticelli ed Ettore Scola, suddiviso in 14 episodi.

 

L’episodio in questione è quello intitolato «Hostaria!» dove il cameriere Gassman e il cuoco Tognazzi si azzuffano nella cucina dell’osteria contadinesca dove lavorano, tirandosi addosso le vivande.

 

Ma, nella notte dal 20 al 21 dicembre 1876, la commedia si trasforma inaspettatamente in tragedia e le discordie fra Candellone e Deltetto finiscono in modo luttuoso.

 

Candellone abita a Porta Palazzo e Deltetto in via Andrea Provana, nel Borgo Nuovo, di modo che uscendo dalla trattoria del Varo per recarsi alle rispettive abitazioni devono seguire una via opposta. Poco dopo la mezzanotte del 20 dicembre,

 

Deltetto esce dalla trattoria in compagnia di altri due camerieri per andarsene a casa a dormire. Sta avvicinando la chiave alla toppa del portone di strada della sua abitazione, quando vede Candellone che esce dalla trattoria e si avvia tranquillamente verso via Po, passando per via San Massimo.

 

A quella vista, Deltetto ritrae la sua chiave dalla serratura e, rivolto ai suoi compagni, dice:

 

"Cristo! Quand i veuj dé, i tramolo (Quando voglio menare le mani, io mi metto a tremare)".

 

E, senza aggiungere altro, si mette ad inseguire Candellone: non tarda a raggiungerlo, lo prende per il collo e, con la pesante chiave, gli dà due colpi sulla testa.

 

A questo punto Candellone estrae rapidamente un coltello da cucina e lo pianta nel petto del suo aggressore, mandandolo ruzzoloni a terra. Poi fugge. Arrivano i due camerieri compagni di Deltetto, lo rialzano, lo chiamano. Nessuna risposta.

 

Deltetto è morto.

 

Poche ore dopo Candellone viene arrestato in casa sua e confessa il misfatto. Appare però evidente che Candellone ha soltanto ecceduto nella legittima difesa e che le conseguenze del suo gesto avevano superato la sua intenzione, cosicché il Tribunale si accontenta di condannarlo ad un mese di carcere.

 

Questa vicenda è certamente curiosa ed ha un esito tragico ma non è a forti tinte: nessun giallista penserebbe a una trama del genere per un suo libro! L’abbiamo tratta dall’oblio e dalla polvere degli archivi anche per ricordare le origini di una elegante zona di Torino, oggi considerata come centro storico, e che è stata la location di altri delitti che racconteremo un’altra volta.

 

 

 

 

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Articolo pubblicato il 10/06/2013