“La Torino noir” vista e narrata da Milo Julini
Spettro rosso

Uno spettro vestito di rosso: amore, gelosia, assassinio in Borgo San Donato

È la notte di domenica 10 agosto1862. Siamo a Torino, nel Borgo San Donato, in una casa di via Balbis. Tra le dieci e le dieci e mezza della sera, gli abitanti della soffitta contigua alla soffitta n. 4 sentono qualcuno che entra e chiude la porta. Poco dopo si ode un fracasso come se la soffitta n. 4 fosse messa sottosopra, poi di nuovo la porta si apre ed esce una persona. Torna il silenzio.

 

Ma, dopo pochi istanti, qualcuno batte alla porta della loro soffitta. Gli inquilini chiedono “Chi è?” ma si sentono rispondere con un suono gutturale e non aprono. Odono il rumore di passi di qualcuno che si allontana e poi più nulla.

Poco dopo qualcuno bussa ad una porta al piano inferiore. La signora corre ad aprire ma, quando vede dalla parte opposta del buio pianerottolo una persona coricata a terra, subito si ritira impaurita.

 

Intanto una inquilina del piano inferiore, che ha già udito il rumore nella soffitta, i passi di qualcuno che scendeva le scale di corsa ed ora questo bussare insistente alle porte dei vicini, esce e resta spaventata: vede quello che a lei, a prima vista, appare come uno spettro vestito di rosso che le fa cenno di avvicinarsi.

 

La donna corre da una vicina e si rifugia in casa di questa. Le due donne si affacciano poi alla finestra e chiedono aiuto, dicendo che sulla scala c’è un ferito. Alle loro grida, il portinaio accorre dalla vicina osteria, va in cortile con la moglie e con una vicina. Ai piedi della scala, trovano una donna, che indossa soltanto una corta camicia tutta intrisa di sangue, e che cade a terra appena li vede. Riconoscono l’inquilina della soffitta n. 4, con gli occhi fuori dalle orbite, con la bocca aperta, col capo reclinato su una spalla, rantolante e priva di voce per un profondo taglio al collo.

 

Arrivano i Carabinieri, avvolgono la donna ferita in un lenzuolo e, con la massima velocità, la portano all’ospedale Mauriziano dove i medici non possono più fare nulla e un frate la benedice prima che muoia.

 

La giovane donna morta, Lucia Botto, verso la metà di luglio 1862, è andata ad abitare nella soffitta di via Balbis insieme al ferroviere Antonio Seita. I vicini non la conoscevano e non le prestavano grande attenzione. Quella domenica, 10 agosto, i vicini hanno notato che la donna è uscita e, senza accorgersene, ha lasciato la porta della sua soffitta aperta: il vento l’ha sbattuta per tutto il giorno.

 

Nella casa di via Balbis, gli inquirenti repertano molto sangue coagulato in cortile, impronte di sangue di piedi nudi sulle scale a partire dalla porta della soffitta n. 4, dove si vedono spruzzi ematici sui vestiti e sul muro, mentre la porta, all’interno, presenta l’impronta di una mano insanguinata.

 

Lucia è stata aggredita dopo che si è spogliata, da qualcuno che è entrato inosservato nella soffitta rimasta aperta e si è nascosto dietro al letto in agguato. Quando Lucia, svestita, stava per coricarsi, questi l’ha aggredita di sorpresa, favorito anche dal fatto che lei non ha acceso la candela, e le ha tagliato la gola. Il rumore udito dai vicini nella soffitta era causato dalla lotta tra l’aggressore e Lucia. L’assassino si è allontanato di corsa mentre la sua vittima ha cercato l’aiuto dei vicini che, terrorizzati, l’hanno inizialmente respinta.

 

All’autopsia, si accerta che morte di Lucia è stata causata da una larga ferita al collo, fatta con un coltello affilato che ha tagliato la muscolatura, la trachea e le arterie provocando una imponente emorragia che ha causato la morte dopo circa mezz’ora. Si rileva poi che Lucia era incinta da un mese.

 

Ma chi può essere l’assassino?

 

Lucia Botto era sposata ma separata dal marito, abitante a Vercelli. Lei lo aveva abbandonato, circa due anni prima, ed era andata a convivere a Torino con Carlo Zucca, di 45 anni, nato a Castelnuovo d’Asti, sergente veterano d’artiglieria addetto come usciere alla Biblioteca dell’Arsenale Militare di Torino, col quale aveva già avuto una relazione a Vercelli.

 

Ma Lucia aveva presto abbandonato anche Zucca ed era andata ad abitare con un altro; era poi tornata con Zucca ma lo aveva di nuovo lasciato, il 5 luglio, per l’ultima volta. Aveva passato qualche giorno presso una sua amica, Olimpia Grosso, poi si era messa col ferroviere Seita.

 

Escluso l’omicidio per rapina, si pensa ad una uccisione per gelosia o per vendetta amorosa.

Lucia, nel cortile e nell’ospedale, facendo dei segni con le mani ha negato che l’assassino fosse Seita ed è sembrato che volesse dire di essere stata assassinata da uno dei suoi amanti, un militare di alta statura.

 

Subito si sospetta di Zucca e rapidamente su di lui si accumulano gravissimi elementi.

Quando la polizia va a prelevarlo nella biblioteca dell’Arsenale Militare, si nota che ha le dita ferite e la camicia insanguinata e che i suoi pantaloni sono stati lavati di recente per togliere macchie di sangue. In casa sua si trova un catino pieno d’acqua insanguinata, un fazzoletto intriso di sangue, molti stracci mezzo bruciati e sporchi di sangue. Poi si sequestra una giacca nera macchiata di sangue, anche se lavata. Nella latrina si trovano un panciotto ed una camicia in parte bruciata, con numerose ed evidenti macchie di sangue.

 

Zucca al mattino del 10 agosto è andato a cercare Lucia poi, dopo mezzogiorno, è rimasto in compagnia di due amici al Borgo Dora, dove ha tagliato un melone con un coltello che poi ha messo in tasca: Zucca ha parlato a lungo di Lucia con questi amici poi  li ha lasciati verso le sei del pomeriggio.

 

È andato a casa di Lucia e l’ha uccisa? Gli inquirenti ne sono convinti e ritengono che Zucca si sia ferito alla mano mentre vibrava il colpo mortale.

 

È accertato che verso le undici della sera, Antonio Corte - che divide l’abitazione con Zucca - è tornato a casa ed ha trovato un gran disordine e Zucca con pantaloni e camicia spruzzati di sangue. Zucca gli ha spiegato che in Borgo Dora ha cercato di separare degli uomini intenti ad una rissa e così è rimasto ferito; per il resto della serata e della notte è apparso stravolto e agitato.

 

Vengono anche accertate le manifestazioni di gelosia di Zucca. Dopo essere stato lasciato per la seconda volta da Lucia, spesso si lamentava con amici e conoscenti e con la stessa Lucia, quando la incontrava. Lei lo sfuggiva, dicendogli che fra loro era tutto finito.

 

Quando Lucia è stata ospitata dall’amica Olimpia Grosso, Zucca ha detto al portinaio della casa di non alloggiare la donna, perché di cattiva vita e che un giorno o l’altro sarebbe stata uccisa, così Lucia è stata mandata via.

 

Quando Lucia è andata ad abitare col ferroviere Seita in via Balbis, Zucca è stato visto per almeno sette o otto volte mentre gironzolava da quelle parti e domandava notizie di Lucia al portinaio e nella vicina locanda, lamentandosi del comportamento della donna.

 

Zucca era diventato così seccante che Lucia spesso si lamentava con le amiche, diceva di vivere in continua apprensione, di avere tristi presentimenti per questa continua persecuzione. Lucia ha raccontato a due amiche che sabato sera, 9 agosto, e la mattina di domenica 10, Zucca l’aveva cercata per invitarla a tornare con lui: al suo rifiuto, battendole sulla spalla, le aveva detto, in tono misterioso, “Ci vedremo ancora una volta”.

 

Zucca e i suoi contemporanei non lo sanno ma questo è il comportamento di uno stalker, l’individuo che perseguita un’altra persona, le provoca stati di ansia e di paura fino a comprometterne il normale svolgimento della vita quotidiana, con un crescendo culminante in minacce che talvolta degenerano in aggressione fisica con ferimento o addirittura uccisione della vittima.

 

Malgrado tutto, Zucca nega di aver minacciato Lucia, di averla incontrata domenica 10 agosto e di averla colpita a morte. Insiste a dire che è stato ferito nella rissa al Borgo Dora e tenta di trovare spiegazioni - tutte zoppicanti o smentite - per le macchie di sangue sui suoi vestiti.

 

Nel gennaio del 1863, Zucca viene processato dalla Corte di Assise di Torino, accusato di assassinio, un reato più grave dell’omicidio e punito con la pena di morte.

 

È un processo clamoroso e i Torinesi che non possono assistervi, leggono i resoconti venduti per le vie.

Zucca persiste a dichiararsi innocente. La Pubblica Accusa e l’avvocato difensore si scontrano in modo accanito, ma il difensore riesce soltanto a strappare ai giurati le circostanze attenuanti, anche se Zucca è giudicato colpevole di assassinio.

 

Più che all’arringa del difensore, forse, i giurati maschi e benpensanti sono sensibili alla disapprovazione per la condotta troppo volubile e disinibita della vittima ed concedono le attenuanti che salvano Zucca dalla forca. Così, con sentenza del 22 gennaio 1863, la Corte di Assise di Torino condanna Zucca ai lavori forzati a vita.

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Articolo pubblicato il 13/05/2013