L’empatia è innata.

Studi la confermano come tale anche nei bambini.

Aree cerebrali coinvolte nell’interazione sociale e nel ragionamento morale si attivano automaticamente durante la visione di filmati relativi a azioni offensive intenzionali.

Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Chicago che hanno sfruttato la risonanza magnetica funzionale per studiare le risposte cerebrali all’osservazione del dolore nei bambini ha dimostrato che anche i  bambini fra i sette e i 12 anni sarebbero naturalmente inclini a provare empatia nei confronti della sofferenza degli altri.

Il prof. Jean Decety, direttore della ricerca con i suoi collaboratori Kalina Michalska e Yuko Aktsuki che hanno firmato l’articolo sullo studio pubblicato nella rivista Neuropsychologia , afferma: “Lo studio è il primo a esaminare la risposta neuronale al dolore degli altri in bambini di questa età”

Durante gli esperimenti di studio, ai bambini sono stati mostrati filmati di persone che provavano dolore in seguito a un incidente, (caduta di un oggetto scivolato dalle mani e finito sul piede) filmati dove veniva mostrata una situaizone nella quale ad una persona veniva fatto del male (l’atto di schiacciare intenzionalmente il piede e provocare dolore) e filmati in cui qualcuno si prendeva cura di un’altra persona dolorante.

“Coerentemente con le rilevazioni fMRI sull’empatia negli adulti, anche nei bambini la percezione della sofferenza di altre persone era associata a una maggiore attività neuronale nei circuiti deputati a elaborare la sensazione di dolore provata dal soggetto stesso, fra cui l’insula, la corteccia somatosensoriale, la corteccia del giro del cingolo anteriore e altre aree motorie”, ha scritto Decety.

Quando però i bambini osservavano i filmati relativi a un’offesa intenzionale venivano attivate automaticamente anche aree del cervello coinvolte nell’interazione sociale e nel ragionamento morale, fra cui la giunzione temporo-parietale, la corteccia orbitofrontale mediale e l’amigdala.

Il programma per l’empatia – ha concluso Decety – sembra dunque ‘cablato’ nel cervello del bambino, e non sarebbe il mero prodotto dell’educazione da parte dei genitori e dell’ambiente in cui si cresce.

La comprensione del ruolo del cervello nel rispondere al dolore potrebbe essere d’aiuto, osservano i ricercatori, per comprendere se malfunzionamenti cerebrali possano influenzare comportamenti antisociali come il bullismo.

Sergio Audasso - NeuroCounselor - Psicosomatista
Professionista disciplinato ai sensi della legge n.4/13 

 

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Articolo pubblicato il 23/04/2013