La riforma della riforma…
Elsa Fornero

E' il quarto punto il nodo dolente dell’intera riforma.

Tra le “grandi riforme” recentemente varate, un’attenzione particolare merita la legge 92 del 2012, anche nota come legge Fornero.

Già durante il periodo di conversione in legge di ciò che è stato emanato per decreto, abbiamo sottolineato le contraddizioni interne alla legge stessa, soprattutto in merito a:

1. rito processuale “veloce”;

2. procedura di istituzione dei fondi di solidarietà per i settori non coperti dalla Cassa Integrazione Guadagni;

3. obiettivi di concerto tra Stato e Regione;

4. modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (legge 300/1970);

per i primi tre punti abbiamo già a suo tempo rilevato come l’ipotesi di legge rinviasse la definizione degli interventi al governo, ai soliti aleatori decreti attuativi o ad altri enti istituzionali.

A nostro avviso soprattutto su un tema così “delicato” come il lavoro, occorre prima creare i presupposti per l’applicabilità delle riforme e quindi subordinare a questi l’operatività delle nuove leggi, onde evitare come spesso accade periodi di difficile applicazione di quanto prescritto, come spesso accade.

Ma è il quarto punto il nodo dolente dell’intera riforma.

Innanzitutto occorre precisare che la percentuale di cause per licenziamento illegittimo in Italia è sempre stata un numero molto basso.

Tale considerazione, a nostro avviso, rafforza la correttezza e l’attualità del dettato della norma preesistente (Statuto dei Lavoratori) che fungeva da giusto deterrente agli abusi.

La giusta manutenzione dell’ articolo 18 quindi, non avrebbe dovuto incidere sulle tutele in essere, ma eventualmente adeguare la norma alle attuali esigenze di giustizia giuslavoristica, migliorando la tempestività nella determinazione delle liti e specializzando i tribunali competenti.

Occorre aggiungere che l’introduzione di elementi giuridici mutuati dal cosiddetto “modello tedesco” (come nelle intenzioni e nelle dichiarazioni dei principi ispiratori della legge) avrebbero dovuto trovare riscontro in appositi correttivi e adattamenti alla nostra realtà nazionale.

Questo perché nel recepire in Italia un modello estero, non sono stati considerati i contrappesi che di fatto ne caratterizzano l’equilibrio nel paese d’origine.

Riportiamo brevemente alcuni esempi.

  • il sistema dei controlli sulle aziende: decisamente pervasivo in Germania, estremamente blando in Italia in cui è quasi assente il reato di falso in bilancio;

  • la compartecipazione dei dipendenti alla gestione aziendale: in alcuni stati del Nord Europa è tutelata la rappresentanza dei dipendenti nella gestione aziendale;

  • la concertazione degli interventi nei momenti di difficoltà; il modello di cogestione delle crisi è la norma e non l’eccezione;

senza dimenticare tutti gli aspetti normativi a favore della patrimonializzazione delle aziende che si sono consolidati negli ultimi due secoli in Germania e altri paesi del nord Europa: un requisito fondamentale per affrontare con adeguati mezzi finanziari eventuali carenze momentanee di liquidità.

Volendo poi analizzare gli effetti reali, l’esperienza diretta di questi mesi ci permette di affermare che la legge 92/2012:

  • non serve agli occupati che stanno perdendo i diritti faticosamente acquisiti negli anni.

  • non serve ai non occupati, in quanto la crisi sta vanificando gli effetti della stabilizzazione dei posti dei precari, obiettivo dichiarato della riforma.

  • usando termini politicamente corretti (flessibilità), legittima la possibilità di licenziare (indiscriminatamente?).

Di sicuro la giustificazione di voler agevolare gli investitori e gli investimenti dall’estero è un alibi che alla luce dei dati economici sinora riscontrati non convince.

L’obiettivo di stabilizzare il lavoro precario, non ha dato i risultati sperati, al contempo la concomitanza della crisi ha indirizzato l’imprenditoria verso la riduzione ulteriore degli organici.

Quindi la riforma non solo non contrasta la recessione e non aggancia una ripresa che non c’è, ma ulteriormente non stabilizza il precariato, smentendo le intenzioni dichiarate da chi l’ha progettata.

Al di fuori delle aule universitarie la realtà si dimostra più complessa ed articolata; la riuscita o meno di una riforma si fonda sul consenso di chi la deve attuare e di chi ha avuto la possibilità di partecipare al progetto. Quindi più che un decreto legge, per puntare al cambiamento occorre recuperare lo spirito del modello di concertazione che già nel 1993 fu un volano dell’uscita dalla crisi del Paese. Senza dimenticare i ruoli tradizionali di tutela e solidarietà, occorre rivalutare il ruolo del sindacato come interlocutore e proponente di una nuova visione complessiva dell’economia del paese.

A nostro avviso gli interventi prioritari, e necessari, per incrementare sviluppo e occupazione, sono:

  • la riduzione complessiva del cuneo fiscale e del costo del lavoro;

  • l’eliminazione dell’Irap (imposta che utilizza come base imponibile il costo del lavoro);

  • una minore burocrazia e l’abbattimento dei costi ad essa correlati;

  • una chiara politica industriale nazionale con particolare attenzione allo sviluppo della green economy;

  • nuovi investimenti in infrastrutture

  • promozione in ricerca e sviluppo di nuovi brevetti.

Il raggiungimento degli obiettivi di crescita economica devono essere perseguiti senza compromettere le garanzie acquisite nel passato: dobbiamo puntare ad innovare ed investire per creare nuova ricchezza e nuovi posti di lavoro, per tutte le categorie e indipendentemente dall’età. In difetto andremo a creare i presupposti per una guerra tra poveri, tra generazioni che già adesso cominciano a disputarsi le poche risorse sempre più scarse…

 

Gianfranco Lembo

Arnaldo Patron

Michele Paolo Pastore

 

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Articolo pubblicato il 16/02/2013