Antonio Bruno detto Ël cit ëd Vanchija, ladro imprendibile
Borgo Rossini

Il più celebre, il più bello, il più leale e, forse, il più calunniato dei grandi malfattori torinesi.

  

In corso Regina Margherita, all’altezza di via Rossini, i due caseggiati posti ai lati dell’imboccatura del ponte Rossini evocano il ricordo del Cit ëd Vanchija (il Piccolo di Vanchiglia), il più celebre, il più bello, il più leale e, forse, il più calunniato dei grandi malfattori torinesi.

Questi caseggiati, costruiti nel 1890, erano detti dalla gente le “Fortezze di Vanchiglia” perché, come ci spiega il giornalista Pietro Abate Daga: «Il popolino torinese […] ricordando le vicende e le gesta del Cit ëd Vanchija ingigantite dalla sua fantasia, aveva chiamato “Fortezze di Vanchiglia” le prime due grosse case, che erano state costruite ai lati dell’ingresso del ponte Rossini». Così scriveva Abate Daga nel 1926 nel suo libro “Alle porte di Torino” dove erano raccolti i suoi articoli sui quartieri periferici torinesi apparsi sulla “Gazzetta del Popolo” negli anni precedenti.

 

Il borgo Vanchiglia ha legato il suo nome non soltanto ai capolavori dell'architetto Alessandro Antonelli ma anche ad un imprendibile ladro, Antonio Bruno detto Cit ëd Vanchija, assai celebre nel passato come un vero bandito popolare, di quelli che come Robin Hood “rubano ai ricchi per dare ai poveri”. Nella realtà, il Cit ëd Vanchija veniva dalla provincia di Cuneo, dalla provincia “granda” e precisamente da Canale nel Roero. Era un bel giovanotto biondo che arrivò a Torino umiliata e offesa dopo il traumatico trasferimento nel 1865 della capitale a Firenze che aveva indotto delusione, rabbia, scoraggiamento e soprattutto una grande miseria. Lavorò come calzolaio o sellaio, fece per un poco il venditore ambulante di frutta, poi si mise a rubare. Arrestato e condannato ad una breve detenzione nel 1865, entrò o forse costituì una associazione di malfattori, indicata come gli Amici del borgo Po. Questa banda, tra il 1865 ed il 1868, attuò una serie di furti in alloggi, in alberghi, nella sede centrale delle Poste (oggi Palazzo Campana), in negozi, sempre a Torino. Soltanto una volta, Antonio Bruno partì con un complice per rubare in un magazzino della stazione ferroviaria di Novara.

Gli anni della attività della banda a Torino sono contrassegnati da un enorme numero di reati contro la proprietà. I giornali strombazzavano contro la questura invitandola a darsi da fare. La popolazione era spaventata, anche perché alcune persone erano state aggredite di giorno, per strada, come il cambiavalute Treves. Al cambiavalute Guastalla, invece, avevano portato via la cassaforte con centomila lire mentre lui dormiva nella stanza accanto. Ad una coppia di sposi, venuti a Torino per assistere al matrimonio di Umberto e Margherita, i futuri re d’Italia, avevano rubato una fortuna in gioielli d’oro e corallo.

Erano entrati a “visitare” alloggi di persone in vista di Torino: il professor Tancredi Canonico, i Perrone di San Martino, i Maineri, il senatore Sella. Era un po’ troppo.

La questura mobilitò tutte le sue spie e nel 1868 cominciarono gli arresti. Nottetempo un drappello di poliziotti si recò a Moncalieri, dove, all’osteria del Pesce d’oro, secondo un informatore, pernottavano alcuni membri della banda.

Arrestarono due uomini e due donne, ma Antonio Bruno riuscì a scampare all’arresto, saltando nel cortile dell’osteria dal balcone del primo piano. Dileguatosi nella notte, riuscì poi anche ad evitare una nuova trappola che la polizia gli tese dopo alcune settimane alla stazione ferroviaria di Vaglieranno, sulla linea Torino-Genova. Poi scomparve nel nulla. Si disse che si era rifugiato in Francia o in Svizzera, o che si teneva ben nascosto dalle sue parti, presso Canale. Si disse anche che era tornato a Torino per presenziare, dalla parte del pubblico, al processo dei suoi complici, negli anni 1871 e 1872. Si trattava di un vero e proprio maxi-processo, con più di cinquanta imputati: la giustizia aveva arrestato anche complici minori, manutengoli e ricettatori della banda.

Dopo l’istruttoria di due anni e mezzo, il gran numero di imputati aveva anche lo scopo di enfatizzare l’attività delle forze di polizia e l’operato della magistratura. I capi di accusa si erano concentrati su una ventina di furti ed un omicidio, al quale però Antonio Bruno sicuramente non aveva partecipato. Il panorama degli imputati era piuttosto variegato e solo alcuni, oggi, ci appaiono come verosimili colpevoli. Le prove di accusa spesso erano poco più che indizi. Tutta l’istruttoria si basava sulle accuse di tre pentiti ex fiancheggiatori della banda. Oggi si ha l’impressione che il processo si reggesse su qualche forzatura. L’opinione pubblica del tempo fu soprattutto colpita dalla figura del latitante Cit ëd Vanchija: giovane, bello ed imprendibile.

La convinzione della colpevolezza era stata confermata nella giuria popolare della Corte di Assise di Torino da una clamorosa fuga dalle carceri senatorie torinesi che nove elementi di spicco attuarono dopo lunga e minuziosa preparazione al Capodanno del 1872. Ne vennero catturati solo più sei. Antonio Bruno venne condannato in contumacia ai lavori forzati a vita per furto e ribellione alla forza pubblica. La condanna andò poi in prescrizione: nessun poliziotto fu infatti così furbo o così fortunato da catturarlo.

Antonio Bruno era destinato ad una intensa vita letteraria e teatrale: nell’Ottocento, il Cit ëd Vanchija ha dato il titolo a quattro commedie ed a tre romanzi, uno dei quali scritto da Carolina Invernizio, con varie edizioni. Sul finire del Novecento, il docente torinese di letteratura italiana Giorgio De Rienzo ha pubblicato “Caccia al ladro in casa Savoia” (Mondadori, 1991), giallo a sfondo torinese dove si prospetta, di scorcio, la figura del Cit ëd Vanchija.

L’imponente produzione ottocentesca in buona parte ha imitato il protagonista e si è resa latitante. Nelle biblioteche è rimasto ben poco, ma è comunque possibile ricostruire l’immagine letteraria del Cit. Questi viene rappresentato come un ladro gentiluomo che vive una doppia vita. È capace di muoversi a suo perfetto agio, elegante, distinto, bello e seducente, nella buona società aristocratica torinese dove fa strage di cuori di dame e contemporaneamente, come genio del male, è a capo di una associazione di malfattori vasta e tentacolare con adepti anche all’estero. È un quadro molto lontano dalla realtà prima descritta, ma comunque interessante poiché così il Cit ëd Vanchija rappresenta l’Arsenio Lupin italiano.

Per molti anni la vicenda del Cit ëd Vanchija venne sporadicamente raccontata dai cronisti giudiziari dei quotidiani torinesi. E proprio l’apprezzato e carismatico cronista giudiziario de La Stampa, l’avvocato Lorenzo Cini Rosano (1876 - 1920) gettò nuova luce sulla fine del Cit, quando nel 1903, ricevette una lettera dalla Nuova Caledonia, datata 15 luglio 1903. L’aveva scritta un deportato italiano che affermava di conoscere la fine del Cit ëd Vanchija e voleva informarne Cini. Secondo l’autore della lettera, il Cit ëd Vanchija era fuggito in Francia dove, poco tempo dopo, era stato catturato sotto falso nome, condannato a dieci anni di lavori forzati e deportato in Nuova Caledonia. Qui era stato liberato nel 1879: rimasto nell’isola, aveva continuato a compiere dei furti. Era poi giunto a Sidney, in Australia, dove era stato internato in un manicomio. Su questa ultima parte della vicenda, però, l’informatore non forniva molti particolari.

Cini pubblicò questa lettera su La Stampa di domenica 20 settembre 1903, in prima pagina col titolo su due colonne Il brigante piemontese “’L Cit d’ Vanchija” in un manicomio d’Australia? Una lettera dalla Nuova Caledonia alla «Stampa». Questo lungo articolo di Cini si concludeva con questa condivisibile affermazione: «Ma se pure quanto narra il… lontano nostro informatore è verità storica, essa non varrà forse a sfatare tra il popolo, la leggenda che attorno al piccolo brigante piemontese predilige». 

In effetti, questa informazione, benché riportata da un prestigioso giornale torinese, a quanto pare non colpì la fantasia popolare. Poi, a Torino,  il Cit ëd Vanchija finì nel canton dla dësmentia, nel dimenticatoio. La sua vicenda avrebbe potuto costituire una buona trama per un film, magari ai tempi del cinema muto, con remake successivi… ma i Torinesi non sono come i Francesi, i Torinesi sono affetti da sudditanza psicologica verso personaggi, usi, tradizioni provenienti dall’estero, sono provinciali, disprezzano tutto ciò che è piemontese. E così  il Cit è stato dimenticato.

E dire che, coi brutti tempi che corrono, sarebbe augurabile che i criminali che agiscono oggi in Torino fossero della stoffa del Cit ëd Vanchija!

                                                                                                                                                                          Milo Julini 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In corso Regina Margherita, all’altezza di via Rossini, i due caseggiati posti ai lati dell’imboccatura del ponte Rossini evocano il ricordo del Cit ëd Vanchija (il Piccolo di Vanchiglia), il più celebre, il più bello, il più leale e, forse, il più calunniato dei grandi malfattori torinesi.

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Articolo pubblicato il 15/02/2013