La terza rivoluzione industriale? È soft ma è in corso

Per la nuove generazioni le stampanti 3D saranno equivalenti all'introduzione del motore a scoppio

Fonte: Linkiesta.it

Non è un tessificio della Manchester ottocentesca, la Hsl. O un’acciaieria della Pittsburgh anni Venti. O un laboratorio nella Silicon Valley di Ronald Reagan.Ma visitando l’officina dell’ingegner Ignazio Pomini, alla periferia nord di Trento, si ha la sensazione di assistere all’alba di una rivoluzione. La Terza Rivoluzione Industriale, per l’esattezza. Perché come ha spiegato Abe Reichental, CEO di 3D Systems, «il 3D è la prossima grande cosa [the next big thing], alla stregua del motore a vapore e del computer».

Certo, il sottile raggio laser che fonde uno strato di plastica non ha la potenza evocativa del ferro incandescente, né lo scintillio seducente dello schermo coloratissimo di un Pc. Però rappresenta un esile filo di speranza per il manifatturiero italiano, e per i nostri artigiani in difficoltà. La stampa 3D può contribuire a rivitalizzare un settore in crisi, non solo nel nostro Paese, ma in tutto l’Occidente. Gli americani se ne sono già resi conto: come riporta il Financial Times, citando un rapporto del National Intelligence Council, «i progressi nelle nuove tecnologie, ad esempio nella robotica e nella stampa 3D, potrebbero avere un enorme impatto sul manifatturiero, spingendo la produttività e riducendo parte della necessità di delocalizzare la produzione».

Si sente un po’ pioniere, Pomini. Affabile e alla mano, ha i modi del tipico imprenditore veronese, pur essendo cresciuto tra Milano e Trento. Dopo la laurea al Politecnico di Milano, e dodici anni in un’azienda chimica, nel 1989 ha fondato, con un socio, quella che poi sarebbe diventata la Hsl. «Abbiamo iniziato con la prototipazione rapida, un misto di elettronica, informatica, ottica… La vedevamo come un grande strumento per soddisfare la creatività, e costruire oggetti unici. Con un atto d’incoscienza che ci portò a fare debiti, fummo i primi in Europa a comprare delle macchine a prototipazione rapida installate negli Stati Uniti l’anno prima. – racconta a Linkiesta. La tecnologia di allora si chiamava stereolitografia. Oggi si parla di 3D printing, ma le basi sono le stesse».

 

Pomini ha studiato al liceo classico («Tragicamente». precisa ridendo), e si vede. «Sa perché la mia azienda porta questo nome, Hsl ? È l’acronimo di “Hic Sunt Leones”, una locuzione che i romani utilizzavano per segnalare sulle mappe i territori inesplorati, di cui non si sapeva nulla, tranne che c’erano dei pericoli. Il deserto della Libia ? Hic sunt leones… Alla Hsl cerchiamo di essere pionieri nei territori inesplorati delle tecnologie, dell’innovazione, di un nuovo artigianato. E di mercati nuovi. Tradizionalmente, infatti, i nostri clienti sono stati le aziende del settore automobilistico e dell’elettrodomestico, per le quali realizziamo appunto prototipi. Con la crisi, però, abbiamo deciso di produrre con la stampa 3D lampade, vasi, vassoi, gioielli; il tutto molto orientato al design. Il salto è evidente: dal B2B al B2C».

La Hsl è solo delle una delle tantissime Pmi che la Terza Rivoluzione Industriale genererà nei prossimi anni, rendendo possibile la produzione di quelli che Pomini chiama «oggetti impossibili». Naturalmente gli ostacoli sul cammino saranno molti, dato che l’innovazione costa fatica, e non sempre premia subito. Tuttavia osservando i prodotti di questa piccola azienda del Nordest (le lampade fatte in nylon speciale, i bracciali, le palle di Natale simili a ricci di mare) appare chiaro che gli imprenditori italiani non hanno ancora gettato la spugna. Come recita il titolo del libro citato più volte da Pomini, dell’economista Stefano Micelli, uno dei principali collaboratori de Linkiesta, «il futuro è artigiano».

 

Ingegnere, nella sua azienda usate stampanti 3D. Può spiegare ai lettori de Linkiesta come funzionano?
Una stampante 3D funziona in modo del tutto opposto a una macchina utensile tradizionale. Quest’ultima parte da un blocco di materiale e scava, prevalentemente per effetto di asportazione di truciolo. Pensiamo a una fresatrice, a un tornio o simili. Però una macchina tradizionale incontra molti limiti tecnici, non riesce a fare qualsiasi cosa, ed è raro pensare di utilizzarla per fare prodotti. Il 3D printing lavora in modo opposto, invece di scavare aggiunge materiale, lavorando a strati. È una tecnologia additiva, costruisce strato su strato; è come se noi tagliassimo un foglio di carta seguendo un disegno di un certo tipo, lo mettessimo sul tavolo, poi ne tagliassimo un altro con un disegno simile, contiguo, lo appoggiassimo sul secondo e così via…

Con il 3D printing si può lavorare su materiali di diverso tipo. Sono passati oltre vent’anni da quando sono nate queste tecnologie, e mentre all’inizio si lavorava soltanto sulla plastica, oggi si lavora anche su materiali incoerenti come le sabbie miscelate con resine, sul bronzo, l’alluminio, l’acciaio inossidabile, il titanio... Il 3D printing permette di realizzare oggetti impossibili da produrre con sistemi tradizionali (oppure possibili, ma solo a patto di farli a pezzi e poi assemblarli). Con la stampa 3D si può creare un pezzo unico dalla complessità più spinta. Per esempio una cipolla, che si sa è fatta a strati; oppure un cavolo cappuccio. Si può ricostruire un cavolo cappuccio alla perfezione, usando il 3D printing, ammesso che ci sia qualcuno che abbia voglia di realizzare in CAD il file 3D alla base di un oggetto bizzarro come questo.

Può parlarci della sua azienda?
Nel 1989, quando io e un socio l’abbiamo fondata, si chiamava Stelit. Nel 2008, dopo diverse evoluzioni societarie, è diventata Hsl. Proprio in quel periodo, con il crollo di Lehman Brothers, è scoppiata la crisi. Il 2009 è stato un anno terribile, e il 2010 ancora peggio. Una perdita di lavoro pari al 60%, tagli e riduzione del personale, una cura drastica insomma. Il 2008 tuttavia non è stato solo un anno di grande panico, ma anche di fermento intellettuale. Abbiamo preso decisioni importanti, puntando su una forte specializzazione, e sulla necessità di riqualificarci. Un anno e mezzo fa sono arrivati i primi risultati.Oggi il nostro fatturato supera i 6 milioni, e lavorano con noi 32 persone.Facciamo prototipazione per l’industria e, con le stesse attrezzature, 3D printing. Pensiamo di fare qualche assunzione l’anno prossimo: profili medio-alti, perché cerchiamo competenze, gente molto qualificata.

Cosa si può produrre con queste stampanti 3D?
Si può produrre di tutto, potenzialmente. In realtà ci sono delle limitazioni, tipiche di tutte le tecnologie giovani. Limiti di qualità, talvolta; limiti dei materiali; limiti dimensionali; limiti economico-gestionali… In vent’anni però lo sviluppo della tecnologia è stato elevatissimo, la produttività è cresciuta in modo significativo, i costi sono calati parecchio. Non ci vorrà molto tempo perché anche questo settore entri in una fase di maturità…

Come le ho detto noi lavoriamo per l’industria con la prototipazione, e in proprio con il 3D printing. Servizio e prodotto, dunque. Questo ci consente di portare sul mercato un certo tipo di qualità, perché le macchine che usiamo sono macchine professionali, con dei costi. Il 3D printing che si sta promuovendo oggi a livello mondiale, sul web ma non solo, è invece un 3D printing molto orientato a stampanti domestiche, da scrivania di casa. Questo nuovo modo di produrre è legato a un nuovo modello produttivo, quello dell’autoproduzione, dove una persona progetta l’oggetto in CAD, lo costruisce con la sua stampante, e poi lo vernicia e rifinisce… Ecco, in merito noi nutriamo dei dubbi. Dubbi soprattutto su quello che viene promosso: c’è una sovraesposizione mediatica a riguardo, il 3D printing è diventato una buzzword, e secondo me tutto ciò non fa bene né al mercato né al modello che si vuole rappresentare. Sta passando un messaggio che fa pensare che con questo modello «si fa tutto, subito, gratis e bene». Questo messaggio arriva sia ai tecnici, sia a coloro che tecnici non sono, e sta già causando qualche delusione, perché fare tutto subito, gratis e bene… Per far costare una stampante da desktop 700-800 euro l’una bisogna fare dei compromessi, sia tecnici che economici.

 

Tuttavia questa frenesia alimenta l’innovazione, è una corsa alle idee...
Certo, diffonde il concetto di 3D printing e quanto ci sta dietro. In futuro la stampa 3D sarà foriera di moltissime innovazioni. Ci saranno nuovi progettisti di macchine e materiali, e alcuni di loro saranno geniali… La diffusione di questa tecnologia in Asia e Africa metterà molte persone in condizione di realizzare le loro idee. In realtà questo sta già succedendo, all’ultima fiera della prototipazione industriale c’erano diversi neoproduttori europei di 3D printer, ma anche uno cinese. E i cinesi non si limitano a copiare, ma migliorano.

A suo parere siamo agli albori di una Terza Rivoluzione industriale guidata dal 3D?
Assolutamente. Dopo il motore a vapore, dopo la produzione di massa, ecco il 3D. Si tratta però di una rivoluzione soft, dolce. Non fa il suo ingresso nel mondo brutalmente, bensì in modo delicato, per nulla dirompente. È una rivoluzione dolce perché non sostituisce altri tipi di attività: al momento con il 3D printing è impensabile fare produzioni di massa. Noi, per esempio, facciamo piccole produzioni di eccellenza, perché è tutto alquanto costoso, e poi le vendiamo attraverso un nostro sito, e alcuni rivenditori. Facciamo lampade, gioielli, vassoi, rivolgendoci a una nicchia di persone che vogliono un prodotto unico. Noi non usiamo stampi, non abbiamo neanche un magazzino: facciamo tutto on demand, quando un cliente chiede noi produciamo. Insomma, è veralean production, una rivoluzione industriale che però avviene sottotraccia.

Il modello poi deve essere approfondito, non è facile. Un progettista abituato a progettare in modo tradizionale qui deve cambiare paradigma, imparando a usare il computer (e non tutti sanno usarlo, o vogliono usarlo). Il fatto poi che con questa tecnologia si possa realizzare qualunque cosa implica che si debba acquisire una nuova mentalità, e un progettista privo di essa non può lavorare, perché questo è il modello produttivo degli oggetti impossibili.

 

Quale può essere l’impatto del 3D sull’artigianato italiano, sulle Pmi?
Noi siamo una piccola impresa. Sì, per rispondere alla sua domanda, l’impatto può essere significativo. Si deve capire che tecnologia e manualità devono andare di pari in passo. Certo, si tratta di una tecnologia impegnativa: la macchina che vede lì costa 350mila euro, per esempio. Pure i materiali hanno un’incidenza terribile: un litro di una delle nostre resine speciali costa 400 euro, e quella plastica là costa 60 euro al chilo. In futuro il 3D printing potrà essere molto utile per reinventare una serie di prodotti che già si fanno. Perché la stampa 3D rende possibili gli «oggetti impossibili», cose da realizzare in modo nuovo, reinterprentandole grazie al valore aggiunto della creatività e della manualità. Tornando a una lavorazione artigianale che restituisca valore alle cose, alla cura del dettaglio, all’amore per i particolari…

Bisogna valorizzare l’artigianato italiano, dunque, ma riorientandolo verso la tecnologia. Un artigianato innovativo, insomma. Perché il 3D può davvero rivitalizzare tutto il settore, ed è internet a raccontarlo: in America, per esempio, si sta diffondendo la cultura dei Makers. Ecco, è paradossale che si punti sul nuovo artigianato proprio negli Usa, e non in Italia, la terra che lo ha creato. Pensiamo solo ai prodotti di Gucci o di Prada, alla loro qualità straordinaria…

In che modo il pubblico può sostenere questo settore?
Il pubblico può dare un sostegno, più che finanziario, culturale. Bisogna fare alcuni passi avanti che sono anche dei mezzi passi indietro. I genitori, ad esempio, devono capire che i loro figli non hanno sempre bisogno di una laurea in ingegneria, nella vita si può avere un discreto successo anche facendo artigianato.

Lei si sente un artigiano?
Sì, anche se con le mani non faccio più niente, ormai. Quando facevo ingegneria meccanica al Politecnico, al quarto anno, ho capito che il mio sogno era diventare falegname. Creare belle cose. Per fortuna la vita mi ha offerto la possibilità di dedicarmi a questa piccola attività industriale che ha un importantissimo complemento di artigianato. Realizzare oggetti come quelli che facciamo richiede una quantità di ore inimmaginabile. Quando escono dalla macchina sono orrendi. Bisogna poi accarezzarli, rifinirli, con cura, e questo richiede una gran quantità di tempo. C’è dunque un contributo tecnologico, ma anche un contributo artigianale.

 

 

 

 

 

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Articolo pubblicato il 02/01/2013