La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Il fachiro di via Ormea (prima parte)

Nel mattino di sabato 13 febbraio 1954, in via Campana 15, sede della Trama, ditta per accessori d’auto, il proprietario signor Trambusti rileva con sorpresa che l’anziano fattorino Pietro Gatti non si è presentato in ufficio.

Il signor Trambusti sa che l’uomo, di 68 anni, lavora con diligenza per la sua ditta da ben dodici anni, anche se non ignora che ha avuto una vita avventurosa. Fin dalla prima giovinezza, per molti anni, Gatti ha lavorato come fachiro: si è esibito nelle piazze e negli avanspettacoli in Torino e in provincia, attività di cui parlava volentieri e con orgoglio. Ma, soprattutto, Gatti ha una posizione matrimoniale che in quegli anni è ancora considerata riprovevole. Vive infatti da ormai quindici anni separato dalla moglie, fruttivendola ambulante al mercato di piazza Madama Cristina, e, dal 1939, convive con Giuseppina Salvai, di 52 anni, nativa di Pinerolo, che lavorava anche lei alla Trama. Lei era vedova dall’anno precedente e abitava in una modesta stanza al primo piano in fondo al cortile nella casa di via Ormea 12, dove Gatti ha preso domicilio.

Ma tutto questo non gli impedisce di svolgere bene le sue mansioni di fattorino, con soddisfazione dei suoi datori di lavoro.

Nelle prime ore del pomeriggio arriva alla Trama la convivente di Gatti, Giuseppina Salvai, calma e tranquilla. Spiega: «Sono venuta per giustificare l’assenza di Pietro. È a casa, non si sente troppo bene. Una cosa da poco, credo».

Trascorre la domenica e, alle 17:00 del successivo lunedì, 15 febbraio, con la posta del pomeriggio, il signor Trambusti, riceve una lettera che lo fa sussultare: non è firmata e porta scritto «Se volete Pierino, venite a casa e lo troverete morto. L’ho ucciso io alle 6 di stamattina». La missiva è stata imbucata sabato pomeriggio e Trambusti riconosce subito la calligrafia di Giuseppina Salvai, in passato sua dipendente. Manda a chiamare un nipote della donna, Giuseppe Salvai di 18 anni, che lavora alla Trama, e lo spedisce in via Ormea 12 a controllare. Poco dopo il giovane ritorna e spiega: «Guardi che nell’alloggio di mia zia non c’è nessuno...».

A questo punto Trambusti decide di telefonare al Commissariato di Polizia San Salvario e avverte il funzionario, dottor Benigni. Questi si reca subito sul posto con due sottufficiali. La portinaia dichiara: «Sono due giorni che non vedo il Gatti. La Salvai è uscita stamattina alle 7:00 e da quel momento non è più tornata: vestiva di nero, pareva in lutto... A proposito: deve aver perso le chiavi per le scale. Le ha trovate un inquilino e me le ha consegnate... Eccole qui».

I poliziotti salgono, aprono la porta, entrano nella misera cameretta. Sul letto matrimoniale si intravede una figura umana distesa, coperta da un lenzuolo inzuppato di sangue. Spruzzi di sangue e di materia cerebrale sono appiccicati al muro e imbrattano le fotografie incorniciate che ritraggono Gatti nelle sue passate performances da fachiro, appese alla parete sopra il letto.

Il dottor Benigni solleva il lenzuolo e non trattiene un gesto di raccapriccio. Il cadavere, vestito della sola canottiera, ha il viso maciullato da violenti colpi: il cranio è spaccato, la bocca devastata, la gola squarciata da uno o più colpi di rasoio. Il sangue defluito ha inondato il letto e il materasso.

L’uomo è stato sorpreso nel sonno e, delle armi del delitto, viene subito trovato il martello, macchiato di sangue, mentre il rasoio è stato portato via dall’assassina.

Già perché non ci sono dubbi che il morto sia Pietro Gatti e che sia stato ucciso dalla convivente Giuseppina Salvai, che ha confessato per lettera il suo delitto.

Gli inquirenti rinvengono nella stanza quattro scritti della Salvai. Il primo è una lunga lettera che la donna ha indirizzato alla sua vittima, scritta nel modo disordinato e sconnesso degli alienati: la Salvai vi scrive di essere stanca, di non essere più quella di un tempo e di aver preso, finalmente, la determinazione di troncare una vita diventata intollerabile: «Tu volevi che io facessi un bel colpo, ebbene ti ho accontentato, adesso sei servito». Il secondo scritto, tracciato sul retro di una ricevuta, dice: «Meno male che la polizia non si accorge di nulla!». Il terzo contiene un grido disperato e torvo: «Meglio farla finita, non voglio andare in manicomio!» e infine il quarto: «La sola responsabile sono io, l’ho ucciso io sola alle sei del mattino».

Su di un tavolino accanto al letto è stato collocato un lumino, di quelli che si usano porre sulle tombe.

Partono le ricerche della Salvai. Un conoscente della coppia si presenta agli inquirenti per dichiarare di aver scorto la donna presso il ponte Umberto I, dopo il mezzogiorno di quel lunedì: pareva diretta al Po. Si ipotizza così che si sia suicidata.

Alle 22:30, però, una camionetta della Polizia, in perlustrazione al Valentino, nota, tra il ponte Umberto I e il Monumento dell’Artigliere, una donna anziana, vestita di nero, che procede lentamente con gli occhi sbarrati e il viso molto pallido. Quando scorge i poliziotti, la donna tenta di fuggire, ma è subito bloccata. Le chiedono il nome, lei dice di essere Giuseppina Salvai. Quando la invitano a salire in macchina, dice: «Lo so che mi sareste venuti a prendere. So il perché. Sì, l’ho ammazzato io. Andiamo pure».

Al Commissariato San Salvario, la Salvai viene interrogata dagli inquirenti. Risponde con calma e una certa precisione, senza mostrarsi troppo turbata: «Venerdì sera siamo stati al solito caffè a giocare a carte e a bere. Siamo rientrati litigando. Abbiamo continuato a litigare. Ad un tratto Pietro s’è scagliato su di me e m’ha battuta duramente, secondo le sue abitudini. Terminata la lite, ci siamo coricati. All’alba mi son svegliata. Pietro, accanto a me, russava. Mi è venuta una rabbia terribile. Ho pensato a tutti i maltrattamenti che m’ha sempre inflitto. Ho afferrato il martello e l’ho colpito. Poi ho temuto che riprendesse i sensi e l’ho finito tagliandogli la gola col rasoio...».

Il suo racconto-confessione prosegue: sabato mattina, la Salvai è uscita e ha girovagato per la città. Al pomeriggio si è recata alla ditta Trama, dove ha comunicato che il convivente «non stava troppo bene». Poi è andata al caffè, ha bevuto, ha giocato tranquillamente a carte ed è rientrata a casa alle 2:00. Ha trascorso la notte col cadavere sfigurato e domenica mattina è ancora uscita. Alla padrona di una osteria ha detto di non sentirsi bene.

Nella notte fra domenica e lunedì, poiché non resisteva alla vista dell’amante morto, è salita al quarto piano, per gettarsi in cortile: ha ripetuto due volte il tentativo, alle 2 e alle 4, ma la presenza di un inquilino, uscito sul ballatoio, le ha impedito di realizzare il suo proposito. Lunedì mattina, dopo aver acceso un lumino vicino al cadavere, si è vestita a lutto e se ne è andata. Chiusa la porta, ha gettato le chiavi in un angolo delle scale.

La Salvai conclude la sua confessione dicendo di avere scritto anche al proprio fratello, residente a Pinerolo, per avvertirlo. Poi, estrae dalla borsetta e depone sulla scrivania del commissario il rasoio ancora macchiato di sangue. È sempre calmissima, come se la cosa non la riguardasse. Dopo aver confessato e firmato le sue dichiarazioni, viene condotta sul luogo del delitto, dove ricostruisce la scena davanti ai funzionari e infine è ricondotta al Commissariato.  Nella mattina del 16 febbraio è trasferita in Questura e poi nelle Carceri Nuove. Sarà sottoposta a perizia psichiatrica, tanto più che è emerso come sia nota per le sue stranezze da squilibrata. Già due volte è stata internata in manicomio dove era rimasta, ogni volta, dai sei ai sette mesi. A causa delle sue condizioni psichiche, da tempo non lavorava più e a casa sbrigava le faccende domestiche. Ultimamente aveva anche iniziato a bere.

Il Commissariato di San Salvario completa le indagini, interrogando anche la moglie dell’ucciso.

Domenica 6 giugno 1954, i quotidiani torinesi spiegano che la Salvai è stata ritenuta totalmente pazza dallo psichiatra che per tre mesi l’ha tenuta sotto controllo. Il Pubblico Ministero chiede quindi al giudice istruttore di rinchiuderla in manicomio criminale senza processo e, a quanto pare, questa soluzione è stata adottata.

Il caso è così risolto. Resta però il desiderio di approfondire la conoscenza dei protagonisti della vicenda per tentare di meglio comprendere le motivazioni che hanno spinto la donna a massacrare il suo compagno. Così prenderemo in esame quanto riportano, a proposito della personalità di entrambi, tre giornali torinesi dell’epoca: La Stampa, la Gazzetta del Popolo e l’Unità edizione piemontese.

Fine della prima parte - continua

 

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Articolo pubblicato il 15/12/2023