Sabato 12 maggio 2012 Raggruppamento Nazionale Combattenti e Reduci RSI

Federazione Provinciale di Torino: " I Camerati della Provincia di Cuneo sono invitati alla cerimonia che si terrà presso il Cimitero Generale"

Riceviamo e pubblichiamo
 
 
 
“Cuneo brucia sempre”:

un caso grottesco di memoria negata

di Ernesto Zucconi

 

“Di che cosa brucia? Del ricordo dei morti fascisti, un mondo dimenticato, che l’intolleranza boriosa dei Gendarmi della Memoria ha sempre respinto nel buio. Al punto da convincersi che quel mondo non sia mai esistito”.

Giampaolo Pansa

 

Giampaolo Pansa, nel suo libro I Gendarmi della Memoria, dedica allo specifico caso di Cuneo un intero capitolo: “Cuneo brucia sempre”, con allusione ad un comitato sorto nel capoluogo sul finire degli anni Cinquanta. È utile, ai fini della nostra trattazione, riassumere le circostanze che portarono alla sua nascita.

Nel maggio del ’45, Partito d’Azione e PCI allontanarono in malo modo da Cuneo – col beneplacito della DC locale – il loro concorrente Enrico Martini (“Mauri”), filomonarchico, comandante delle formazioni Autonome operanti nelle Langhe, il quale, per la notevole parte avuta nella guerra partigiana, sarebbe dovuto risultare uno scontato riferimento in vista del riassetto politico provinciale. Nella suddivisione dei poteri il PdA, espressione partitica delle brigate Giustizia e Libertà, impose come “Sindaco della Liberazione” un proprio candidato, il geometra Ettore Rosa, grazie all’apparato organizzativo messo in luce nel corso della lotta clandestina e forte di un nome illustre da esibire, quello del caduto Tancredi Galimberti.

La prima verifica elettorale, tuttavia, dimostrò che la cosiddetta “guerra di popolo” era stata un’immagine, almeno per il Cuneese, assai distante dalla realtà; e se i voti premiarono soprattutto la Democrazia Cristiana, il cui apporto alla guerriglia era stato proporzionalmente insignificante, di fatto relegarono il Partito d’Azione agli ultimi posti (negli anni successivi il PdA scomparve del tutto). Ma nel maggio del 1958, in occasione di un ritorno alle urne, il partigianato “militante” ebbe modo di richiamarsi in primo piano; il motivo (o meglio, il pretesto), si ebbe con la candidatura del generale Emilio Battisti nelle liste del MSI. E non era solo questione, come si potrebbe pensare, di impedirne il comizio agitando il rituale spauracchio fascista: Battisti, comandante della Divisione Cuneense, era stato prigioniero in Russia – sino alla primavera del 1950 – e certamente avrebbe potuto aggiungere, parlando alla folla, personali esperienze alle voci che circolavano sul comunismo sovietico (i fatti d’Ungheria erano all’epoca tema quotidiano di discussione); notizie, dunque, che sarebbero suonate troppo sgradite a chi continuava a riconoscersi nella democrazia dell’URSS.

Ha scritto in proposito Aldo A. Mola (Storia di Cuneo 1700-2000, Editrice Artistica Piemontese, Savigliano, 2001):

Il sindaco democristiano di Cuneo, Mario Del Pozzo, e il comandante giellista Aldo Quaranta si recarono in Questura per sollecitare il rilascio immediato di dimostranti fermati nel corso di tafferugli verificatisi con le forze dell’ordine, impegnate a garantire l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito.

L’episodio dette origine al comitato “Cuneo brucia ancora”, formato da tutti i partiti già del CLN, con l’aggiunta di radicali e socialdemocratici. Esso rivendicò a Cuneo il rango di “culla” o “capitale” della resistenza, intesa quale valore costitutivo permanente della democrazia e fondamento “morale” della subordinazione dell’esercizio dei diritti politici al comitato stesso, ertosi a giudice della democraticità della vita politica cuneese e della correttezza dei pubblici funzionari, compresi prefetto e questore, quasi la città fosse una “zona libera” rispetto alla “Stato”, sospettato (e non solo) di tenere a balia i “neofascisti”.

Mola mette particolarmente in luce, analizzando tale mobilitazione contro un fascismo inesistente, l’opportunità colta dal PdA per una rivincita, grazie ad una riconquistata visibilità e conseguente rimessa in moto del proprio bagaglio ideologico. Comportò però anche – continua l’Autore – la sostituzione della realtà effettiva con un’altra, artificiosa e immaginaria: la fuoriuscita dal corso della storia e l’autoisolamento all’interno del Paese che s’era ormai lasciato alle spalle le lacerazioni del passato e concorreva a costruire l’Unione europea.

In primo tempo Democrazia cristiana e Partito liberale aderirono al “Cuneo brucia ancora”. La DC ne prese però le distanze quando esso pretese d’imporsi ai parlamentari locali, memori di essere espressione non di un “comitato” sibbene dell’elettorato: dal quale ricevevano il mandato e che lo confermava loro, malgrado le deplorazioni di quanti pretendevano di sottrarre il Cuneese alla legge comune e di farne una sorta di “isola” sottoposta alla speciale tutela di un nuovo CLN, tanto (e giustamente) severo contro ogni “rigurgito” della reazione quanto tacito sul totalitarismo sovietico sia all’interno dell’URSS sia nei Paesi satelliti.

Il 1968 diede adito ai nostalgici della guerra civile di fomentare nuovi disordini inalberando, tra i tanti slogan, quello della “Resistenza incompiuta”, che in pratica prevedeva di riprendere le armi, questa volta non contro una singola fazione, bensì contro l’intero apparato statale accusato di proteggere, anzi di nutrire, i “rigurgiti” del fascismo. Tra i soliti facinorosi ad accogliere l’invito alla lotta armata, non mancarono giovani idealisti smaniosi del cambiamento ma, ahimè, privi delle necessarie informazioni che avrebbero potuto fare aprir loro gli occhi su chi li stava usando: persone supponenti e ambiziose, le cui mire velleitarie erano state puntualmente frustrate dalla mancanza di consensi.

Nel 1970 a Cuneo fu annunciato uno sciopero contro lo “squadrismo fascista”: la stampa estremista rivolgeva chiare minacce (“I fascisti e chi li paga non devono più fare sogni tranquilli”) alla categoria imprenditoriale e persino al politico liberale Giovanni Malagodi, che evidentemente aveva avuto il grave torto di criticare il governo per l’inefficienza dimostrata nel tutelare l’ordine pubblico. In particolare era presa di mira la DC, “complice” dei fascisti. E la polemica, lungi dallo scemare, salì anzi salì di tono quando il democristiano cuneese Adolfo Sarti ebbe la riconferma a sottosegretario agli Interni nel nuovo governo Andreotti e successivamente (governo Rumor) il sottosegretariato alla Presidenza del Consiglio.

Il programma di lotta – ricorda Mola (opera citata) – venne enunziato da Nuto Revelli nell’Introduzione (emblematicamente datata 25 aprile 1973) alla ristampa dei Venti mesi di guerra partigiana nel Cuneese di Dante Livio Bianco negli “Struzzi” della casa editrice Einaudi. L’anno precedente, nel corso di un “incontro di massa a Montoso fra vecchi e giovani antifascisti” secondo la cronaca di Lotta continua (11 luglio 1972) l’ex comandante giellista aveva avvertito che dopo il 25 aprile 1945 “volevano che buttassimo le nostre armi, come un esercito di vinti… Non le buttammo tutte, buttammo i ferri vecchi proprio perché sapevamo che la partita non era chiusa, che la partita restava ancora aperta” […]

Con l’avallo di una premessa storiograficamente claudicante di Norberto Bobbio, l’ex consigliere comunale del PdA incitò alla lotta armata non tanto contro i “fascisti” (che non c’erano, come ognuno era in grado di vedere), sebbene contro lo Stato. Trent’anni di consultazioni elettorali (amministrative e politiche), effettivamente deludenti per talune frange ultraminoritarie che pur si proclamavano interpreti dei veri interessi delle masse (colpevoli di votare per partiti… di massa), da Revelli vennero liquidate come “mafiose”.

[…] Trent’anni dopo la fine della guerra, Cuneo ripiombò in un clima artificioso di allarme antifascista e di guerra civile che si sostanziava nell’assalto contro lo Stato: la polizia, i benpensanti, i padroni, i parroci, tutti liquidati come “mafiosi”. Sperando la tempesta si sgonfiasse, i moderati tacquero. E così subirono quindici “anni di piombo”, una stagione più lunga di quanto era durato nel Cuneese il regime fascista.

Fu attivato un “Comitato antifascista”, e il fatto che venisse presieduto dal sindaco esponeva il Primo Cittadino ad un’innegabile pressione da parte di quella che Mola definisce “minoranza rumorosa”, tesa ad imporre le proprie regole di convivenza… democratica.

Nella primavera del 2008 Diego Michelini, presidente della federazione provinciale di Torino del RNCR-RSI (Raggruppamento Nazionale Combattenti e Reduci della RSI), formulò richiesta alle autorità cuneesi per commemorare le trentuno persone – donne e uomini – fucilate dai plotoni d’esecuzione partigiani il 3 maggio 1945 contro il muro della Questura, in Corso Stura angolo Piazza Torino. La cerimonia prevista, avrebbe semplicemente comportato la deposizione di una corona sul luogo dell’accaduto dopo un breve discorso di Marco Pirina, presidente del centro studi e ricerche “Silentes Loquimur” di Pordenone. La commemorazione non poté avvenire a causa della feroce presa di posizione della solita “minoranza rumorosa”, che prontamente “avvisava” (sic!) il sindaco “che la manifestazione dei reduci di Salò non sarebbe passata sotto silenzio”; e che inoltre, con una richiesta depositata in municipio “prenotava” un’area troppo vicina al luogo dove si sarebbe dovuta svolgere la commemorazione, per non creare allarmi di ordine pubblico.

Il buonsenso di Michelini suggeriva, naturalmente, la rinuncia, mentre una contestuale assemblea nella sede provinciale dell’ANPI proponeva la ricostituzione del “Comitato cittadino antifascista presieduto dal sindaco”, con una prima riunione nel salone d’onore del Municipio.

Quanto segue è la cronaca delle isteriche reazioni della “minoranza rumorosa” registrate ed amplificate, come da prassi, dagli organi di stampa senza il minimo tentativo di obiettivo inquadramento dei fatti, anzi, usando richiami roboanti e superficiali che evidenziavano impressionanti lacune culturali (in proposito l’uscita migliore fu del giornalista Carlo Giordano, che su La Stampa di giovedì 8 maggio 2008 scriveva di “iniziativa della Federazione torinese della Repubblica sociale italiana”, riportando il tempo indietro di oltre sessant’anni).

Ed ecco le sparate degli addetti ai lavori, preoccupatissimi che fossero sovvertite precise regole locali, cementate da più di mezzo secolo di antifascismo militante. In primis il commento del sindaco di Cuneo, Alberto Valmaggia: “Una inopportuna provocazione”. Valmaggia precisava: “Chiedere, dopo 63 anni di silenzio, di poter commemorare i caduti della Repubblica sociale, mi pare un gesto provocatorio e strumentale”. Come se il sindaco non sapesse che, appunto da 63 anni e grazie all’accondiscendenza dei Primi Cittadini come lui, nella sua città è fatto divieto di ricordare i morti della “parte sbagliata”.

“Un affronto” (Michele Calandri, direttore dell’Istituto storico della Resistenza).

“È un tentativo di rappresaglia” (Marco Revelli, figlio del partigiano e scrittore Nuto, docente di Scienza della politica a Torino). Cosa c’entri la rappresaglia col desiderio di commemorare delle persone uccise, lo sa solo lui; certamente, invece, fu rappresaglia crudele e inutile l’uccisione di trentuno persone inermi, perché motivata esclusivamente da spirito di vendetta.  

“Ritengo ripugnante il fatto che si voglia ora trasformare dei delinquenti in eroi” (Leopoldo Attilio Martino, presidente dell’ANPI). Vedremo poi chi erano questi “delinquenti”.

“Non bisogna dimenticare che allora era in vigore la legge Bonomi che impartiva delle ferree direttive nei confronti dei fascisti che non si arrendevano” (don Aldo Benevelli, definito abitualmente “prete partigiano”, anche se ci risulta che all’epoca fosse solo chierico).

Innanzi tutto non si comprende perché scomodare Bonomi, quando tutti i condannati, uomini e donne, si trovavamo da giorni in carcere. Alcuni di essi si erano perfino messi spontaneamente nelle mani dei carnefici, come l’innocuo sarto Casimiro Dalmasso: questi, credendo ad una semplice formalità da espletare prevista dal bando del Comando Zona (testimonianza del partigiano Lino Toselli), in cui si diceva che gli iscritti al Partito Fascista Repubblicano dovevano presentarsi in Questura, fu passato anch’egli, senza tanti complimenti, per le armi. “Delinquente” il povero Casimiro Dalmasso, connotato tale dal presidente dell’ANPI? “Delinquente” l’impiegato amministrativo dello Stato Antonio Laurenti, condannato alla fucilazione alla schiena con la sola accusa d’esser fascista? Tutti “delinquenti” i militari arresisi con regolare consegna delle armi e mandati, quel 3 maggio, al muro? Ma veniamo alle donne, dieci ammazzate insieme, probabilmente caso unico in Italia.

Don Benevelli fornisce un preciso episodio: “Il primo maggio delle donne, ausiliarie, si misero a sparare contro un prete e un bambino per strada.”. Al riguardo Lino Toselli, che in quei giorni inquadrato nelle SAP (Squadre di Azione Patriottica) combatteva nelle strade di Cuneo – uno dei pochi – e che abbiamo frequentato in amicizia per diversi anni raccogliendone con rigore le memorie fin nei minimi dettagli, mai ci accennò a donne sorprese a sparare. Don Benevelli non ci dice chi erano. E dal momento che in altro racconto, come egli afferma, le due donne appostate su un tetto “vennero poi catturate dai partigiani”, se ne devono per forza conoscere i nomi e le scontate misure prese nei loro riguardi. Eppure abbiamo controllato le frettolose sentenze di morte compilate e – nemmeno firmate, come si può notare in una di esse che pubblichiamo, nei confronti delle dieci donne fucilate (peraltro non tutte ausiliarie: alcune erano semplici impiegate), senza riscontrare simili accuse. Ma consideriamo caso per caso.

Certamente non poteva entrare nel novero delle cecchine Bianca Giraudo, figlia dell’esattore di Boves, portata già prigioniera a Cuneo dopo essere stata costretta a percorrere 15 chilometri a piedi tra insulti e sberleffi. Né l’ausiliaria Antonietta Carlino, prelevata in ospedale mentre assisteva la caposquadra Raffaella Chiodi (deceduta in seguito anch’essa, per i postumi da ferite). E neppure Maria Barale, perché arrestata insieme col fratello Giovanni. È poi pensabile, tra le uccise, che l’ausiliaria diciannovenne Maria Caterina Chiavazza, incinta, si portasse sui tetti a sparare prendendo di mira sacerdoti e bambini? E con lei l’altra incinta prossima a partorire, Adelina Magnaldi, condannata perché moglie del vicecommissario prefettizio? (1).

Possibili cecchine le due sorelle Cera, Lisa e Antonietta, rispettivamente di 59 e 53 anni? O la cinquantaseienne Pasqualina Olivieri, impiegata al Fascio femminile? Magari la vedova quarantottenne Maria Porrati, dell’Ufficio Assistenza?

Rimane ancora da considerare il caso dell’ausiliaria ventitreenne Natalia Gastaldi. Non aggiungiamo altro a quello che la ragazza lasciò scritto prima d’esser “giustiziata”:

“Coraggio, mamma, sorelle, papà. Sono condannata a morte per aver mantenuto la mia fede fascista. Muoio tranquilla e dal cielo veglierò su di voi”.

Per carità, mica si dice che don Benevelli non abbia voluto raccontarla giusta, un prete, poi! Ma poiché abbiamo avuto modo di constatare che in più occasioni si è sbagliato (2), e il presidente dell’Istituto storico della Resistenza, Livio Berardo, gli ha dato man forte (La Guida del 9 maggio 2008) sostenendo a sua volta che “tra quei fucilati su ordine del comando piazza c’erano dei fascisti irriducibili che il 1° maggio avevano sparato dai tetti del centro storico su un funerale partigiano, uccidendo e ferendo” non si sa chi (3), preferiamo a nostra volta sentire anche la testimonianza lasciataci – nero su bianco – dal partigiano Lino Toselli il quale, certamente, non aveva scopo alcuno né a mentire, né a sottacere l’avvenuto:

“Durante le esequie di quel lunedì, alle ore 19, appena il corteo si incolonna in Via Roma per andare dal Municipio al Duomo, una corta raffica di sfugge ad un partigiano e colpisce lo stesso ed un questurino che segue il funerale. Trasportati in ospedale, lo sparatore muore subito, mentre il poliziotto, Domenico Cardone, classe 1902, il giorno dopo (4).

L’incidente accende la psicosi del . Tutti iniziano a gridare al , a dargli la caccia. Una squadra di armati sale sulla torre campanaria e, trovato un civile, uno straccivendolo, che si godeva la sfilata dall’alto, lo uccide con una scarica: si chiamava Francesco Gentilini, di 54 anni”.

Prima di concludere ricordando i nomi dei trentuno uccisi quel 3 maggio a Cuneo, facciamo notare ancora un’incongruenza non da poco, rilevata nel comunicato diffuso dalle “associazioni antifasciste” (La Stampa del 9 maggio 2008): “I giustiziati della RSI erano stati riconosciuti passibili della pena capitale da un regolare tribunale della V Zona Partigiana”. Ora, senza addentrarci nella complessa – e poco discussa – materia della legittimità o meno di quei tribunali, proviamo a lumeggiare la figura di colui che teneva in pugno la vita dei prigionieri in quei frangenti: Andrea Spada. Nei suoi riguardi il comandante Dante Livio Bianco aveva espresso, solo qualche giorno prima, questo giudizio: “Tipi come Spada potrebbero, con la loro impulsività, far succedere dei casini”. Su ponderatezza e affidabilità di Spada, riportiamo un interessante brano della cronaca di quei processi, pubblicata nell’Ergot di Nizza il 16 maggio 1945 e firmata dal corrispondente Raymond Wanker, nella traduzione curatane da Camillo Fresia ne L’immane sconquasso (Bertello, Borgo San Dalmazzo, 1945):

“Io ho potuto assistere al processo di coloro di cui ho testé veduto i cadaveri.

Il Tribunale era molto affaticato, ché da quattro giorni sedeva in permanenza e condannando senza soste. Quel giorno, le autorità britanniche avevano decretato che le esecuzioni dovessero cessare a mezzanotte; e Spada aveva decretato da parte sua che prima della scadenza di tale termine un massimo di fascisti sarebbe stato inviato alla morte. Nella mattinata undici erano stati fucilati; e sei nel pomeriggio. Il Tribunale era stanco; e però mangiava a bocconi doppi”.

Il comunista Gustavo Comollo (nome di battaglia: “Pietro”), commissario partigiano presso il Comando V Zona, così racconta di Spada nell’autobiografia Il commissario Pietro (A.N.P.I. Piemonte, 1979):

“Era necessario sostituirlo con un altro G.L., a causa della sua eccessiva sbrigatività nell’operare e della sua scarsa controllabilità”.

Se ne sono accorti un po’ tardi!

Ecco da chi era costituito quel tribunale “regolare”, dove si evitava persino di firmare le sentenze di condanna a morte.

 

Note

(1) Adelina Magnaldi in punto di morte vergò due lettere, una al marito e l’altra ai figli; in quest’ultima si leggono le seguenti parole: “Lucio, Carla, Dora, tesori miei, la vostra mamma che vi ha tanto amato sta per lasciarvi: io non ho nulla da rimproverarmi, perciò me ne andrei tranquilla e rassegnata, se non mi straziasse il pensiero di voi figli amatissimi”.

(2) E non solo noi, ma altri ricercatori l’hanno rilevato, come ad esempio il giornalista dell’Avvenire Roberto Beretta, che ha svolto una ricerca sui sacerdoti assassinati tra il 1944 e il 1947 “dagli eccessi ideologici della Resistenza”. Sul quotidiano Avvenire, nel 2004, sono stati pubblicati a puntate i risultati dell’inchiesta e, nella settima di tali puntate (19 febbraio 2004), si può leggere quanto segue:

“… No, in Piemonte noi partigiani non abbiamo ucciso preti. Così don Benevelli, sacerdote ‘resistente’ piemontese e autore con Giuseppe Griseri di un libro su preti e religiosi vittime della violenza nazifascista nella regione (Voi banditen, editore Nicola, Milano). Non è così, purtroppo: i preti uccisi in Piemonte dai partigiani sono almeno una dozzina”.

(3) Versione riaffermata da Berardo in una lettera pubblicata da Braoggi il 17 giugno 2008 nella rubrica “Il fatto e l’opinione”:

“[... Cuneo era stata evacuata dai tedeschi il 29 aprile dopo aspri combattimenti. Il 1° maggio si tenevano i funerali dei partigiani caduti nella battaglia. Si pensava che i fascisti si fossero tutti arresi e dunque fossero sotto controllo nella caserma Leutrum.

Invece gruppi di cecchini si fecero vivi dai tetti, sparando sul corteo, provocando vittime e feriti. Era il gesto estremo di un manipolo particolarmente ostinato, che, pur abbandonato dai tedeschi e dai capi (il federale Dino Ronza e il col. Bassani avevano lasciato la città il 24 aprile) continuava a usare i metodi che nei mesi precedenti avevano causato 18 vittime civili a Passatore, 13 a San Benigno, erano culminati nell’assassinio di Duccio Galimberti”.

Interessante anche la chiusa, dove – more solito – si parla a nome della “maggioranza dei cuneesi”, che Berardo e sodali certamente non rappresentano. Sentiamo:

“Per Cuneo, città medaglia d’oro al valore militare, diveniva una provocazione e giustamente il sindaco della città Alberto Valmaggia esprimeva parere contrario alla concessione della piazza.

La mobilitazione di associazioni, partiti e sindacati faceva il resto, creando le condizioni perché la manifestazione non si tenesse. Qual è il significato profondo di tutto ciò? Emerge in primo luogo la fedeltà alla memoria e alla tradizione della resistenza dimostrata a distanza di tanti anni dalla maggioranza dei cuneesi, in secondo luogo, quando si è discussa la proposta di ricostituire quello che un tempo si chiamava Comitato antifascista, si è affermata la volontà di non guardare solo al passato, ma di puntare sulla difesa dei valori di libertà, democrazia e uguaglianza risorti (o in gran parte nati) nei venti mesi e fissati poi nella Costituzione della repubblica italiana”.

(4) Allo sfortunato poliziotto si regalerà, dopo morto, la qualifica di partigiano GL.

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Articolo pubblicato il 10/05/2012