La lingua di Manzoni

Una ragione in più per leggere I promessi sposi

La lingua dei Promessi sposi è ancora attuale e può aiutarci a conoscer e ad usare meglio l’italiano

Leggere un libro di trentotto capitoli, spalmati su qualche centinaio di pagine, è già un’impresa di per sé ardua, soprattutto se proposta a ragazzi di quindici o sedici anni. Se poi aggiungiamo che il libro in questione è stato pubblicato in edizione definitiva nel 1840 la faccenda si fa ancora più complessa.

Mi riferisco ovviamente ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni, letto tradizionalmente nelle scuole italiane nel secondo anno di scuola secondaria superiore. E a questo punto non posso esimermi dal rispondere al quesito che generazioni di studenti, genitori, ministri, segretari e sottosegretari  del MIUR (ammesso che oggi si chiami ancora così), nonché stuoli di intellettuali di ogni  genere si sono posti: perché continuiamo a leggere I Promessi sposi? Perché non lo sostituiamo con qualcosa di diverso, magari più attuale?

Sulla questione sono stati scritti fiumi di inchiostro, forse  intere biblioteche, anche perché le ragioni a favore o a sfavore sono molto diverse ed articolate a seconda dell’aspetto che si considera. In questa sede mi soffermerò solo sulla questione  della lingua usata da Manzoni e sulle ripercussioni che a mio avviso le sue scelte in questo ambito possono avere ancora oggi. Come molti ricorderanno, l’autore nell’incipit finge di avere trovato un manoscritto del seicento, scritto in un fastidiosissimo stile barocco, che racconta però una storia interessante.

L’autore, secondo la finzione, si sarebbe limitato a riscrivere il testo in una lingua chiara e comprensibile. Finzione a parte, il fatto è che Manzoni certamente si pone il problema della lingua, della sua chiarezza e della sua possibilità di essere capita da tutti ( il “tutti” di allora, ovviamente).

Non dimentichiamo che in quegli anni si andava formando la nazione italiana, all’interno della quale si parlavano i dialetti più diversi e quindi porsi il problema di un modello linguistico da seguire era inevitabile. Molti ricorderanno anche il clamoroso fallimento della proposta politica manzoniana di insegnare nelle scuole, come modello a cui attenersi, il fiorentino colto parlato.

Fallimento la cui origine stava nella sua stessa premessa: insegnare una lingua che viene parlata solo da una ristretta élite , per di più poi in una zona dell’Italia che non aveva in quel periodo nessuna particolare rilevanza politica ed economica e la cui influenza in ambito commerciale era decisamente modesta, è proprio l’antitesi di ogni ragionevole tentativo di diffondere una lingua in un territorio più ampio. Ma tant’è. Fu uno dei tentativi di creare un’unità linguistica nel nostro paese, risultato che tutti sappiamo si ottenne in modo significativo solo a metà del secolo scorso, con l’avvento della televisione.

Ad ogni modo  ai fini del nostro discorso ciò che conta è che Manzoni si pose il problema di quale lingua usare e se lo pose con tale intensità che dall’edizione del 1827 arrivò a quella definitiva solo nel 1840, con la celebre “quarantana”. Risciacquò i suoi “panni in Arno”, come racconta lui stesso, sottoponendo il lessico e la sintassi  del romanzo all’uso del fiorentino colto parlato, ma forse ancora di più ad una revisione generale che ne fa ancora oggi un esempio insuperabile di uso corretto ed originale nel contempo di grammatica, sintassi  e punteggiatura.

Ho consigliato per anni ai miei studenti, senza particolari necessità di eserciziari, cartacei , analogici o digitali, o della lettura di astrusi manuali su “come imparare ad usare la punteggiatura”, di procurarsi una pagina qualunque dei Promessi sposi, privata di ogni segno di interpunzione, e di cimentarsi nel completarla con la opportuna punteggiatura. Non avevano bisogno di me per la correzione; il testo manzoniano era già di per sé la soluzione dell’esercizio. I risultati, ottenuti con il  tempo, come tutti quelli seri e duraturi, ci sono sempre stati. Anzi, era divertente passare qualche tempo con i ragazzi a verificare eventuali differenze tra le loro proposte e le scelte manzoniane e a fare battute su come una virgola possa cambiare il senso di una frase.

Ma la cosa più stupefacente è l’attualità della lingua dei Promessi sposi: dopo qualche difficoltà, nel giro di pochi capitoli, mediamente i ragazzi non hanno mai avuto difficoltà a leggere e a capire il testo. Lasciamo stare le questioni letterarie, il romanticismo, il giansenismo e via dicendo; di quelle, per altro, si parla in quinta, quando i ragazzi hanno gli strumenti per affrontarle. Ma al biennio lasciamo che si godano la storia di Renzo e Lucia e che si avvicinino ad una lingua magari non semplicissima, ma chiara e comprensibile ancora oggi senza la necessità di chissà quale preparazione.

Chiarezza ed attualità di una prosa del 1840, non dimentichiamolo. Soprattutto se la paragoniamo a quella di tanti romanzi storici coevi; pensiamo, per fare un esempio, al Castello di Trezzo, di Giovanni Battista Bazzoni. Un ottimo libro, interessante, intrigante e piacevole, ma la cui lingua, senza dubbio precisa e gradevole, mostra però la sua età. Risale al 1827, come la prima edizione dei Promessi sposi.

Ma se la lingua manzoniana ha un viso ancora liscio ed un incarnato morbido e roseo, quella di Bazzoni avrebbe bisogno di un buon lifting, per essere compresa facilmente anche da un ragazzo di oggi. Lasciamo Il castello di Trezzo com’è, per carità: resta  sempre un magnifico esempio di romanzo storico italiano, uno dei più belli. Ma Manzoni è Manzoni: se il suo romanzo si discosta dagli altri per la profondità degli studi che l’hanno preceduto, allo stesso modo la sua lingua è così universale che ancora oggi è attuale.

È vero, a volte alcuni termini non sono così consueti e, per una comprensione precisa, magari qualcuno dovrà aprire il vocabolario; e allora?  Un motivo in più per leggere I promessi sposi. Viviamo in una società che usa una percentuale molto bassa del lessico della nostra bella lingua e si spaventa davanti ad un periodo con qualche subordinata in più del solito. Se leggiamo qualcosa che ci inviti ad ampliare un po’ il nostro lessico e a strutturare meglio il nostro pensiero con una adeguata articolazione, ben venga. Costa un po’ di fatica? Per aspera ad astra.

E tutto sommato per cercare di arrivare alle stelle di un pensiero più alto, l’uso di un vocabolario o un attimo di attenzione in più per arrivare alla fine di un periodo, sinceramente, non mi sembra siano una gran fatica. Il gioco vale la candela.

 

© 2023 CIVICO20NEWS - riproduzione riservata

 

 

 

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 28/08/2023