Delitto passionale in strada del Fioccardo

Passeggiate agostane torinesi fra bianco e noir

Nella notte fra il 13 e il 14 agosto 1960, un giovane uccide con quattro colpi di pistola la donna che lo ha respinto, poi si spara al cuore e finisce in ospedale in gravissime condizioni. Quello che cronisti chiamano il «delitto di Ferragosto» avviene in realtà con un giorno di anticipo. È la tragica conclusione di una travagliata relazione amorosa iniziata ben cinque anni prima che ha come protagonisti Mariano Colbacchini e Maria Rubino.

La donna, impiegata di trentun anni, abita in una villetta della collina con gli anziani genitori pensionati, al civico 100 di strada del Fioccardo. La sera del 13 febbraio, alle 22:00, è uscita con Guido Gaia, autista ATM di trent’anni, che è andato a prenderla con la sua 600 per una gita lungo il Po.

Gaia, più amico che fidanzato, raccoglie le confidenze di Maria: è stata fidanzata per cinque anni con Mariano Colbacchini, e nello scorso inverno lei lo ha lasciato. Una decisione irrevocabile. Lui ha minacciato di fare follie, si è recato a lavorare in Germania, ma anche da qui le ha scritto lettere di esortazione e minaccia: «Senza di te non posso stare. Il solo pensiero che tu vada con un altro mi rode. Non so che cosa farò». Di ritorno a Torino, ha continuato a minacciarla per telefono e sul posto di lavoro. Impaurita, lei si era rivolta al Commissariato di P.S. Borgo Po.

Alcuni giorni prima si sono incontrati per strada. Lui le ha detto: «Sei sempre decisa? Ti avverto che ti romperò le ossa», parlando con occhi spiritati da esaltato. Dopo aver narrato questi particolari a Gaia, Maria aggiunge: «Non so come finirà questa storia. Mah! Per fortuna, domani me ne vado». Infatti, per il giorno seguente aveva già programmato una vacanza a Bardonecchia con una amica. Aveva le valigie pronte. Quando Gaia è andata a prenderla, lei ha detto ai genitori di andare a letto: «Sto fuori poco, torno subito». In effetti, alle 23:30, sono di ritorno.

Gaia ferma l’auto davanti all’abitazione di Maria, lei scende, lui chiude la portiera per accompagnarla. Nella strada collinare, fiancheggiata da una siepe, un cancello immette nel sentiero di una trentina di metri che porta alla villetta dei Rubino. Lei spinge il cancello, fa un passo poi si ferma, vedendo uscire da dietro un albero l’ex fidanzato che riconosce dalla figura mentre avanza lento. «è lui!» grida terrorizzata, lui risponde «Sì, sono io, finalmente ti ho sorpresa, ti avevo avvertita». Gaia, rimasto indietro, intuisce e riapre lo sportello di sinistra della 600, dicendole «Vieni, balza dietro». Piega il sedile perché lei possa salire. Lei obbedisce, Gaia salta al volante e avvia il motore. Intanto Colbacchini si avvicina al finestrino, grida a Gaia di non avercela con lui, spezza col calcio dell’arma il cristallo della 600 e crivella di colpi la ragazza che urla allo spasimo «No, non uccidermi, Mariano non uccidermi!». Urla e detonazioni risuonano nel silenzio della notte mentre il motorino d’avviamento gracchia. Quando la 600 parte, con un balzo rabbioso, quattro colpi sono andati a segno, uno alla clavicola, due al torace, uno alla nuca.

Gaia, suonando il clacson a distesa, si precipita alle Molinette. Maria, riversa tra i sedili, invoca la mamma. Giunge all’ospedale già morta.

L’agente di Polizia di servizio telefona in Questura, parte il dottor Pietro Sgarra(*) della Squadra Mobile, con alcuni collaboratori, su 1900 nera. In strada del Fioccardo, alla luce dei fari, vedono Colbacchini, steso a terra rantolante, che con la destra impugna ancora la pistola. Il sangue fuoriesce da una ferita poco sotto il cuore, inzuppando gli abiti. Lo portano alle Molinette, in condizioni molto gravi. Il cuore è illeso, ma il proiettile ha perforato l’intestino, la milza e un polmone, con una forte emorragia. Occorre una trasfusione e la Polizia corre alla Banca del Sangue.

Il gesto di Colbacchini ha gettato due famiglie nella disperazione.

I genitori di Maria erano a letto quando hanno udito gli spari, non pensavano che uccidessero la loro unica figlia. Il padre di 70, muratore, la madre di 65, casalinga, entrambi pensionati, sono soli, inebetiti dal dolore. Al funerale di Maria, il 16 agosto, partecipa soltanto il padre e non la madre, rimasta a casa, che piange per giorni la figlia: «Me l’hanno assassinata, che male ha fatto? Buona lavoratrice, piena di brio, perché me l’hanno ammazzata?». E ancora «È come se avessero ucciso anche noi due poveri vecchi».

La famiglia Colbacchini è piuttosto numerosa: con la madre vivono altri sette figli, mentre sei sono fuori casa sposati. Difendono Mariano lanciando accuse, anche con una certa petulanza: a loro dire, lei non lo ha mai amato sul serio, ha trovato comodo uscire con lui soltanto fin quando ha avuto la macchina. Per la madre, Mariano è la vittima: è lui che ha sparato, ma vi è stato spinto. Lei prega che possa sopravvivere: «Una volta salvo lo aiuteremo a rifarsi la vita. Anche i giudici capiranno e avranno pietà di lui». Per la difesa reclutano un noto penalista, dimostrano grande fiducia in una futura perizia psichiatrica, visto che negli ultimi tempi aveva dato segni manifesti di non essere a posto con la mente. «È giovane, ha appena 26 anni - dice la madre - dobbiamo far di tutto per ridurgli il periodo di detenzione».

Si può mettere meglio a fuoco la relazione tra i due giovani. Si sono conosciuti nel 1955, per ragioni di lavoro, anche se vicini di casa: Colbacchini abita infatti in strada del Campagnino, traversa del corso Moncalieri che raggiunge la strada del Fioccardo. Lei era impiegata nella fabbrica che forniva maglieria alla ditta dove Mariano era rappresentante. Lui aveva 21 anni, si mostrava spigliato e risoluto, ma era timido. Maria, di cinque anni più vecchia di lui e con maggiore esperienza, era un’ottima lavoratrice sicura di sé. Lui quasi non osava corteggiarla, poi ha mostrato una felicità sconfinata. Lei, gaia e serena, desiderava divertirsi, uscire con lui per lunghe passeggiate in macchina, andare a ballare. Nella relazione, l’automobile viene ad assumere notevole rilievo perché permetteva a Mariano di ben figurare davanti a lei.

Poi lui, per sfortunate vicende familiari, si è trovato in difficoltà, senza soldi, senza un lavoro sicuro e senza auto. In questo contesto è nato il distacco. Lei non si è dimostrata veramente innamorata e non gli ha dato sostegno nel difficile frangente: secondo i cronisti, hanno pesato gli anni di differenza di età, lei si è accorta che il suo affetto sincero non reggeva alla prova degli anni e delle difficoltà, perché sfumava la prospettiva di un matrimonio che, nel 1960, costituisce ancora un traguardo ambito per una donna di trentun anni, anche se economicamente autonoma.

Colbacchini, alle Molinette, dopo due operazioni e una trasfusione di sangue, è sempre in prognosi riservata, non è in grado di parlare. Il Procuratore della Repubblica, dottor Rosso, attende dai medici l’autorizzazione per interrogarlo. Nelle sue tasche, il dottor Sgarra ha trova un testamento di dodici pagine, dove il giovane narra la sua vita e spiega il suo passo disperato. Per questo, il giorno dell’uccisione, ha comperato una pistola. In tasca ha la ricevuta dell’armaiolo che, dopo aver letto la notizia, si è presentato alla Polizia: per un’incredibile lacuna legislativa, ha potuto comperare senza difficoltà una piccola pistola Flobert Beretta 22. Ha ucciso e si è gravemente ferito con un’arma giocattolo!

I Colbacchini dicono che Mariano era andato in Germania per dimenticare. Aveva lavorato a Monaco e poi a Stoccarda, dove lo stipendio gli era stato raddoppiato e, alla scadenza del permesso di soggiorno, l’industriale suo datore di lavoro si è offerto di rinnovarlo. Ha persino scritto alla famiglia di convincerlo a tornare in Germania, dove aveva un avvenire sicuro. Ma senza «Iuccia», così lui chiamava Maria, non c’era più ragione di vita. La sua reazione alla delusione amorosa non normale appariva normale, era in preda ad esaurimento. Era in cura da un medico: i Colbacchini mostrano ai cronisti le sue ricette e sostengono che Mariano non capiva più nulla, vedeva soltanto lei, come un’ossessione. Pochi giorni prima del delitto ha avuto una spaventosa crisi di nervi in casa di un fratello. Pare di capire che, secondo loro, tutti questi elementi esposti in una perizia psichiatrica dovrebbero praticamente scagionare Mariano!

Il testamento-memoriale dell’omicida contiene espressioni sconclusionate che fanno dubitare delle sue capacità mentali. Al tempo, il fenomeno dello stalking è ancora sconosciuto e i cronisti si lanciano in considerazioni a beneficio dei loro lettori: questo documento, del massimo interesse psicologico, segna il passaggio dall’amore quasi patologico all’odio, con l’atteggiamento mentale Se non sei più mia, non sarai più di nessuno. La Polizia ha anche sequestrato le lettere che i due si sono inviate: Colbacchini appare passionale e, fin dall’inizio della lunga relazione, tremendamente geloso e timoroso di perdere «Iuccia».

Dopo cinque giorni di agonia, Colbacchini muore il 18 agosto alle Molinette. Il Procuratore della Repubblica autorizza quattro fratelli ad assisterlo, ma lui si spegne senza una parola e senza riconoscere i parenti. Alcuni di questi, ma non la madre, si consolano dicendo che forse è meglio così, perché sarebbe rimasto minorato per le terribili ferite.

Si conclude così tragicamente il delitto di Ferragosto 1960, un omicidio-suicidio passionale che, come ha scritto uno dei cronisti, «è un delitto che non risolve nulla, come lo sono tutti i delitti passionali». È una considerazione di mero buonsenso che però pare non far presa sugli innamorati respinti, come dimostra il sempre crescente numero di episodi analoghi.

(*) Pietro Sgarra, nato nel 1921, a Torino è stato per più di vent’anni alla Squadra Mobile, di cui diviene dirigente, e dove è giunto nel 1947 dal Commissariato Castello. In seguito, è stato vicequestore a Vercelli, addetto alla Criminalpol Lombardia, questore a Massa e a Savona.

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Articolo pubblicato il 31/08/2023