Alla scoperta dell'Italia paese d'Europa
Il "fratello" Bartolomeo Bruni.

Di Aldo A. Mola

Piccoli borghi, vasti orizzonti

Imperversano due “giochi di società” spacciati per alta politica: narrare fatti e misfatti di albergatori e ristoratori, delusioni e soddisfazioni di vacanzieri alle prese con il conto dell'oste e il caro-benzina. Di rado si sente parlare di quel che si è visto e memorizzato. Perché è stato tutto fotografato, ma non osservato, intravisto ma non contemplato, archiviato per riflessioni che non troveranno posto nelle giornate ordinarie come non ne hanno avuta nella breve pausa dalla quotidianità. Forse il concetto di “vacanza” appartiene al passato remoto: quando era l'agognata sosta dal lavoro. Era raccoglimento. Ora sta divenendo l'opposto: frenesia di massificazione.

Perciò accade che a ri-scoprire e a ri-velare lo straordinario patrimonio di civiltà dei popoli d'Italia siano soprattutto gli stranieri che vi si affacciano da terre sempre più remote. Sono attratti dal mistero di un Paese i cui abitanti per millenni hanno pietrificato idee proprie e assimilato le altrui, sopravvivendo a secoli di invasioni, dominazioni e forzata decadenza, salvo riprendersi con i lenti ritmi intuiti da Giambattista Vico: corsi e ricorsi...

I milioni di persone che anche quest'anno animano il Bel Paese rendono omaggio, forse inconsapevole, all'Ente Nazionale per l'Incremento delle Industrie Turistiche, poi ENIT, fondato dallo Stato poco più di un secolo addietro: una delle tante intuizioni dell'Italia uscita dalla Grande Guerra, bisognosa di pacificazione degli animi e intreccio dell'“ora et labora”, come insegnano non solo gli Ordini monastici, da sempre filo conduttore dell'Europa, ma anzitutto l'“Ecclesiaste”.

La promozione del turismo non è un'invenzione dell'altro ieri, meno ancora del “regime” e del Dopolavoro fascista. La sua organizzazione da parte dei pubblici poteri nacque all'indomani della Grande Guerra, mentre ancora incombevano le conseguenze demografiche e sociali della “febbre spagnola”, che si abbatté sull'Europa, mieté vittime e se ne andò prima che se ne capisse l'origine per combatterla con mezzi efficaci.

All'origine il turismo promosso dallo Stato mirò a conciliare grandi numeri e riservatezza. La balneazione alternava ampie spiagge e calette; l'ascesa alle vette faceva tappa nei rifugi già frequentati dalla Regina Margherita. A ognuno per il gusto suo. Era l'Italia di Sidney Sonnino, il misantropo ministro degli Esteri che studiava Dante Alighieri nel solitario Romito affacciato a picco sul Tirreno e spazzato dai venti. Ed era quella di Vittorio Emanuele III, il Re che a Roma viveva appartato a Villa Savoia e al Quirinale si recava come si va in ufficio: per studiare e firmare leggi e decreti e per “incontri di lavoro” con capi di stato, di governo e di partiti; ma appena possibile si rifugiava a San Rossore e amava la quiete assoluta della spiaggia di Gombo e dell'isola di Montecristo.

Già all'epoca andavano di gran moda i borghi selvaggi e solatii. Dalle scuole elementari gli italiani avevano appreso ad amarli da “L'ora di Barga” di Giovanni Pascoli, inno alla solitudine, all'abbraccio con i ricordi, con la natura, ed esortazione alla Grande Visitatrice a non avere fretta. Era un mondo che amava il riserbo e non ostentava né i malanni né la “morte”. Ne aveva vista anche troppa con i quindici milioni di vite annientate dalla Grande Guerra, che nessuno aveva voluto ma nessuno aveva saputo predire né impedire: come quella ora in corso sul “fronte orientale”, scintilla di chissà quali devastanti incendi se non la si ferma in tempo.

Quella era l'Italia dei “buoni sentimenti” che negli Anni Settanta-Ottanta del Novecento furono sguaiatamente irrisi da chi li liquidò come sfizio borghese. Eppure da lì, se mai ce la farà, potrebbe ripartire l'Italia di domani. Potrà tornare a immergersi nel piccolo mondo antico, riscoprire le “buone cose di pessimo gusto” (care a Guido Gozzano): la miriade di borgate, villaggi, rive di fiumi e torrenti miracolosamente scampati al miope sfruttamento da parte di chi prima o poi dovrà pur fare i conti con la propria ingordigia, ignara di “scienza della politica”.

Da sempre gli italiani avevano sotto gli occhi il proprio Paese, ma forse la sua immagine era offuscata dalla fretta quotidiana, sbiadita nei ricordi di un'infanzia cancellata nella corsa collettiva a un futuro senza meta: il cosiddetto “progresso”. Il cui drammatico limite è l'opposto di quanto si creda. Non è veramente progressista perché non ha basi scientifiche; è frutto di improvvisazione, anziché di progettazione e di “piani”, che vanno approntati e approvati anziché rinviati in nome di un liberismo/liberistico senza capo né coda, come quello oggi dilagante, impossibile nello Stato moderno.

Oggi, dunque, dopo anni di normative stressanti tanti italiani che per decenni le avevano anteposto lidi remoti, raggiunti con viaggi faticosi e infine deludenti (stessa spiaggia, stesso mare...), ripetono con Vincenzo Monti: “Bella Italia, amate sponde/ pur vi torno a riveder./ Trema in petto e si confonde/ l'alma oppressa dal piacer”. “Gran traduttor dei traduttor d'Omero” (come lo bollò malignamente Ugo Foscolo), il politicamente versipelle Monti (pontificio, liberaloide, francofilo, poi allineato con il ritorno di Astrea, cioè del dominio asburgico sul Lombardo-Veneto) rientrava in Italia al seguito di Napoleone Bonaparte da un breve esilio a Parigi. La sua “contemplazione dell'Italia” andava comunque al di là delle ideologie.

La “dottrina Monti” sull'impareggiabile bellezza dell'Italia fu condivisa da Alessandro Manzoni, che nei “Promessi sposi” cesellò cammei raffinatissimi (come “Addio monti, cime ineguali...”), poi “mandati a memoria” da generazioni di studenti; e da Giacomo Leopardi, che blindò le sue emozioni nella corazza di versi glaciali, come “Vaghe stelle dell'Orsa...”, esempio per il Savio che non si concede il lusso di “sentimenti” perché sa che “sunt lacrimae rerum”.

 

Avessimo ancora tanti don Stoppani

A codificare l'immagine dell'Italia non fu un illuminista ma don Antonio Stoppani (Lecco, 1824-Milano, 1891), partecipe da seminarista alle Cinque Giornate di Milano, ammiratore di Manzoni e del teologo Vincenzo Gioberti, autore di opere di fama europea su paleontologia e glaciologia. Tra i fondatori dell'Istituto geologico del regno, don Stoppani concorse alla redazione della carta geologica dell'Italia, importante anche per la vulcanologia e lo studio dei terremoti. Primo presidente del Club Alpino Italiano, promosso da Quintino Sella, a sua volta uomo dal multiforme ingegno, nel 1875 pubblicò Il Bel Paese, dalla subito vasta fortuna. Lasciate tra parentesi le dispute pro e contro il potere temporale dei papi, le gare tra i partiti dell'epoca (clan regionali e clientele di notabili), don Stoppani cantò le bellezze dell'Italia e incitò ad averne cura. Ognuno doveva fare la propria parte quando la rete ferroviaria era appena albeggiante rispetto a quella dei Paesi molto più industrializzati e i viaggi si facevano su birocci, a cavallo o “pedibus calcantibus”.

Ai tempi di don Stoppani l'Italia contava quasi trentamila parroci e circa centomila “religiosi”. Se tra questi ci fossero stati due-tremila don Stoppani, “a viso aperto e sorridente” come lui, il Paese avrebbe fatto un balzo in avanti di cent'anni. Non avrebbe avuto alcun bisogno del Sessantotto per capire che una cosa sono i costumi, un'altra le “credenze” e una terza è la “fede”; e che le virtù non si misurano dai centimetri dei pantaloni e delle gonne.

 

L'Italia delle cento città del fratello Strafforello

Quella era l'Italia delle cento città, descritta provincia per provincia, un circondario dopo l'altro, comune per comune da Gustavo Strafforello (Porto Maurizio, 1820-1903), massone, poligrafo, traduttore del famoso Self-Help di Samuel Siles col fortunato titolo “Chi si aiuta, il Ciel lo aiuta”: manuale psico-sociale di grande successo in un'epoca che vide trionfare la scuola e le forze armate quali ascensori sociali, sull'esempio di quanto nei secoli aveva fatto la Chiesa cattolica al cui vertice si susseguirono non solo esponenti di famiglie potenti (dai Della Rovere ai de Medici...) ma anche popolani come i santi Celestino V e Pio V, nato a Bosco Marengo.

La Patria descritta da Strafforello in dispense da 60 centesimi l'una fece conoscere a una miriade di lettori geografia, attualità economica e imprenditoriale, storia e paesaggi, con tanto di carte geo-storiche, piante topografiche delle città, ritratti di personaggi famosi, monumenti e vedute di ogni terra d'Italia. Un vero e proprio capolavoro che divulgò la conoscenza del Bel Paese e implicitamente invitò a esplorarlo “de visu” dopo averlo conosciuto per scritto e da nitide incisioni, o magari sfogliando le sontuose pagine dell'“Illustrazione Italiana”.

 

“Nazione” o “civiltà”?

Checché qualcuno dica, gli italiani, come gli spagnoli, gli inglesi e via continuando, non sono mai stati una “nazione” ma furono e sono crogiolo di popoli. La “nazione” è un'invenzione regressiva della Rivoluzione francese: quella della Convenzione repubblicana, che partorì il culto dell'Ente Supremo e il Terrore. Da Universale retrocesse a franco-centrica. Imbalsamò gli ideali dell'Ottantanove.

Con plaghe (e piaghe) di arretratezza e sottosviluppo documentate dai censimenti decennali, dopo la “nascita” nel 1861 l'Italia fu spesso indotta e/o costretta a fare il passo più lungo della gamba. Dopo aver immaginato di accaparrarsi la Nuova Guinea per farne una “colonia penale” sul pessimo esempio della francese Nuova Caledonia, andò alla conquista di un lembo di Mar Rosso e della remotissima Somalia e mirò a imporsi sull'impero d'Etiopia quando milioni di suoi abitanti migravano all'estero in cerca di lavoro: prima i liguri e i piemontesi, poi dal Veneto e dal Mezzogiorno... La “colonizzazione interna” consigliata a Francesco Crispi dal suo fraterno sodale Adriano Lemmi rimase un miraggio.

A insegnare le vie d'Italia erano poeti come Giosue Carducci che, già docente all'Università di Bologna, per visitarla si faceva nominare commissario a esami di maturità e vagava dall'una all'altra regione con pochi quattrini (glieli centellinava la scorbutica moglie) e con sommari di storia e geografia dai quali traeva alimento per odi famosissime come “Piemonte” e “Cadore”.

Dopo l'assassinio di Umberto I a Monza il 29 luglio 1900 (il suo anniversario passa sempre nell'indifferenza dei “media”, dimentichi che fu il secondo Capo dello Stato d'Italia) decollarono le associazioni per la promozione della coscienza unitaria. Nel 1894 a Milano, città sempre all'avanguardia, era stato fondato il Touring Club Italiano, seguito dal Regio Automobile Club Italiano (RACI) e via via dal Moto Club d’Italia e dall’Aereo Club d'Italia. Come già il CAI, anche i nuovi sodalizi ebbero nomi anglicizzanti. L'Italia della Belle Epoque, orgogliosa della propria identità, che affondava radici in millenni di civiltà latina, era europea, non temeva di utilizzare l'inglese Club, anziché Società o Associazione, così come denominava “meeting” gli incontri politici, che non dovevano degenerare in piazzate di minoranze facinorose ma fungere da confronto tra opinioni, affermazione di princìpi più convincenti se proposti in forma “civile” (che viene da “civis”, non da “plebs”).

La svolta decisiva per la riscoperta dell'Italia da parte dei suoi cittadini venne all'indomani della Grande Guerra, come documenta Ester Capuzzo in“Italiani. Visitate l'Italia. Politiche e dinamiche turistiche in Italia tra le due guerre mondiali” (ed. Luni), pubblicata nel centenario della fondazione dell'Ente Nazionale per l'Incremento delle Industrie Turistiche, l'ENIT. Basato su ampia ricerca archivistica e sulla scia degli eccellenti saggi di Annunziata Berrino, Eliana Perotti e Stefano Pivato, il volume di Capuzzo ha il pregio di non marchiare come “fascista” tutto quanto avvenne tra le due guerre, come invece fa chi ritiene che fra il 1922 e il 1943 l'Italia fu totalmente oppressa e compressa da un regime feroce e ottuso. La realtà è diversa. La promozione del turismo “di massa” in Italia, indubbiamente favorito e potenziato dal caleidoscopico “fascismo”, prese piede sull'esempio di quanto avveniva all'estero, sia in Stati retti da democrazie parlamentari quali Francia e Gran Bretagna sia nella Spagna di Alfonso XIII di Borbone, che prese a modello l'Italia di Vittorio Emanuele III.

Capuzzo documenta che il governo di Mussolini non inventò granché. Mise a buon frutto l'opera avviata da Luigi Luzzatti e soprattutto dal poliedrico Maggiorino Ferraris, deputato, senatore, proprietario della “Nuova Antologia”. Conterraneo di Giuseppe Saracco (non citato nel libro), promotore del lancio delle Terme della sua Acqui, dal 1902 Ferraris varò l'Associazione per il movimento dei forestieri, corroborata da politici come Luigi Rava e Pietro Lanza di Scalea, aperti alla libera circolazione di uomini e di idee. Negli stessi anni Orazio Raimondo gettò le basi delle fortune dell'estremo Ponente ligure, come narrato da Marzia Taruffi in “Uno cento mille Casinò di Sanremo. 1905-201” (ed. De Ferrari). Il volume ricorda anche il ruolo strategico degli Enti Provinciali per il Turismo, promossi da Fulvio Suvich, affiliato alla loggia “Propaganda massonica”. Per buona sorte gli EPT non vennero smantellati dopo il crollo del regime. Come altri enti parastatali (quali l'INPS) essi funsero anzi da volano della Ricostruzione.

Oggi dunque ri-scopriamo la Grande Italia. Ma va fatto nell'ottica della Grande Europa e in una visione planetaria dei problemi nostrani, senza chiusure italocentriche. Il protezionismo non paga mai. Alza steccati, impoverisce la circolazione delle idee e anche quella degli uomini, che ha fatto le fortune di tutte le grandi civiltà, a cominciare da quella greco-romana, per molti versi insuperata radice dell'Italia odierna.

Aldo A. Mola

IL “FRATELLO” BARTOLOMEO BRUNI

L'estate è propizia per fare un passo avanti nella conoscenza della storia. È quanto annualmente propone il Concerto di Ferragosto dell'orchestra cuneese intitolata al violinista e compositore Antonio Bartolomeo Bruni (1751-1821). Il musicista e musicologo Giovanni Mosca ne ricordò figura e opere in “CN, Provincia Granda” curato da Luigi Botta e Franco Collidà (ed. Grandapress). Allievo di Gaetano Pugnani, migrato in Francia, che già all'epoca offriva spazi più ampi agli italiani di talento, già entusiasta degli ideali dell'Ottantanove nell'età napoleonica Bruni ascese a direttore d'orchestra dell'Opéra Comique e dell'Opéra Bouffe. Autore di inni alla Libertà e di commedie in musica di durevole successo, deluso dalla Restaurazione di Luigi XVIII nel 1816 si rifugiò nella villa “La Magnina”. Da lì contemplava la nativa Città dei Sette assedi, coscio che al mondo tutto passa e quasi orma non lascia. Lo aveva bene appreso quando si fece iniziare massone a Parigi e, come si legge nella “Storia di Cuneo, 1700-2000” (ed. L'Artistica, Savigliano, 2002), lo confermò in precedenti incursioni a Cuneo, ove, già col grado di “compagno”, venne solennemente ricevuto nella loggia “Heureuse Union” di Cuneo, che aveva membri onorari due generali e fratelli effettivi decine di alti ufficiali, sindaci, funzionari, il pittore Louis Pellegrino, il quartier mastro della Gendarmeria e, appunto, il “professeur de musique” Barthélémy Bruni. Essi si aggiunsero a Carlo Falletti di Villafalletto e a Charles Jubé, comandante del 53° squadrone di gendarmeria, acquartierato a Torino, fondatori dei “Maçons Réunis” di Cuneo, già iniziati alla “Réunion” di Savigliano, forte di oltre 150 affiliati, notabili italo-francesi del Dipartimento della Stura, crocevia d'Europa incorporato come tutto il Piemonte e la Liguria nell'Impero napoleonico. Nel 1810 Bartolomeo Bruni venne affiliato anche alla “Parfaite Union” di Cuneo, ove sedette “tra le colonne” in compagnia di due sacerdoti, Jean Fea, nativo di Peveragno, e di André Dho, del tutto indifferenti alla “scomunica”. Parenti di Napoleone e maggiorenti dell'impero erano notoriamente massoni.

Quegli anni convulsi furono anche segnati dal fervore delle arti e dall'avvento dell'Uomo Nuovo, fondato sul “Codice Napoleone”, su piani regolatori per liberare la vita cittadina dalle soffocanti e ormai inutili mura, sulla pubblica istruzione e sull'illusione che ogni nuova guerra sarebbe stata l'ultima e ne sarebbe scaturita la pace perpetua non solo tra i popoli ma anche tra l'Uomo e la Natura, un piede nel neopaganesimo, un altro nelle Scienze.

La storia continuò a strappi e a zig-zag, come in passato. Fu comunque l'epoca in cui i Grands Tours da privilegio dell'aristocrazia divennero comuni per uno stuolo di militari, burocrati, artisti e docenti che, tra logge e altre società segrete, cercavano di leggere il futuro rovistando nel passato. Segnarono una svolta positiva nella civiltà di un'Italia sempre più europea e universale, come, libera dal gravame del potere temporale, dopo il 1870 tornò a essere la Chiesa di Roma.

A.A.M.

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Articolo pubblicato il 20/08/2023