Centenari - La “Legge Acerbo” (1923)
Giacomo Acerbo e il socialista Tito Zaniboni.

Quando il Parlamento regalò l'Italia a Mussolini (di Aldo A. Mola)

Una legge acida?

Scivola via sotto silenzio il centenario della legge che nell'estate del 1923 pose le basi della vittoria del Partito nazionale fascista (PNF) alle elezioni del 6 aprile 1924. Il 4 giugno 1923 il Consiglio dei ministri approvò il disegno di legge (Ddl) approntato da Giacomo Acerbo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Mussolini. Il 9 fu presentato alla Camera. Per il suo esame il presidente Enrico De Nicola nominò una commissione di diciotto deputati, rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari, presieduta da Giovanni Giolitti.

Ne fecero parte gli ex presidenti del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra e Ivanoe Bonomi e politici prestigiosi come i massoni Antonio Casertano e Luigi Fera per i democratici sociali, i popolari Alcide De Gasperi e Giuseppe Micheli, i socialisti Filippo Turati e Costantino Lazzari, il repubblicano Eugenio Chiesa, il comunista Antonio Graziadei, i fascisti Raffaele Paolucci e Michele Terzaghi, massone (nello spassoso “Fascismo e Massoneria” narrò di essersi riconosciuto giolittiano) e Paolo Orano, “indipendente” ma fascistissimo.

Il Ddl propose che il partito che ottenesse il 25% dei consensi avrebbe avuto due terzi dei 535 seggi in palio nel collegio unico nazionale. L'altro terzo sarebbe stato suddiviso in misura proporzionale tra i partiti presenti in almeno tre delle 16 circoscrizioni elettorali. Se nessuno avesse raggiunto il 25%, tutti i seggi sarebbero stati assegnati in proporzione ai voti ottenuti. La Commissione respinse le proposte di alzare il quorum dal 25% al 40% e di ridurre i seggi da attribuire al vincitore dai 2/3 al 60% e varò il Ddl con 10 voti contro 8. Il 21 luglio la Camera approvò la legge con 223 voti contro 123 e un centinaio di assenti non giustificati. Essa non venne imposta né dal Re né da Mussolini.

Fu approvata da nazionalfascisti e liberali. I popolari in parte approvarono, in parte si astennero, come Bonomi e Giovanni Amendola. Il 40% dei deputati in carica decise le sorti dell'Italia: a occhi bendati fu approvato un “maggioritario” senza precedenti. Secondo lo storico Giovanni Sabbatucci quel voto fu il “suicidio” del Parlamento. Esso pose le premesse del regime di “partito unico” durato dal 1925 al 25 luglio 1943. Il Senato, che rimase di nomina regia e vitalizio, a metà novembre approvò la “legge Acerbo” con 165 sì e 41 no su circa 400 “patres”. Vittorio Emanuele III, re costituzionale, la emanò.

 

La pesca a strascico

Per il PNF il difficile venne dopo, perché nel 1923 esso aveva appena 50 deputati su 535. Bisognava approntare la Lista Nazionale. Allo scopo si misero al lavoro Michele Bianchi, “quadrumviro” della (mai avvenuta) “marcia su Roma, repubblicano, Aldo Finzi, Cesare Rossi e Francesco Giunta, tutti massoni della Serenissima Gran Loggia d'Italia, come Giacomo Acerbo (grado 9°, poi promosso al 30°), che fu il regista della “pesca a strascico” indispensabile per ottenere il successo. Raggiunsero lo scopo perché aprirono la Lista a liberali, democratici, riformisti, popolari e a “indipendenti” autorevoli per meriti politici e culturali. Ai candidati, in buona misura ex deputati ansiosi di tornare alla Camera, non fu chiesto né di abiurare il passato politico-ideologico, né di prendere la tessera del PNF. La complessa operazione ebbe esito trionfale (meriterà apposita evocazione).

Il cosiddetto “Listone” ottenne 4.305.936 voti, pari al 60,09%, cui si aggiunsero 347.552 suffragi per liste parafasciste. Conquistò 355 seggi, ma i deputati iscritti al PNF risultarono appena 227 su 535: una minoranza. Volendolo, con un “ribaltone” era possibile varare in Aula una maggioranza di socialisti moderati, liberali, popolari e deputati eletti nel Listone ma niente affatto fascisti (Orlando, Salandra, De Nicola e tanti ex “popolari”). Le opposizioni, più litigiose che divise, prevalsero nell'Italia settentrionale ma nell'insieme si fermarono al 29,2% dei consensi, ottenendo 161 seggi. In passato con un numero molto inferiore di rappresentanti l'opposizione aveva fatto il suo dovere. Nel 1924 non fece altrettanto. Prendendo motivo dal rapimento e dalla morte di Giacomo Matteotti (9 giugno 1924), socialisti, popolari, repubblicani e seguaci del democratico Giovanni Amendola abbandonarono l'Aula. Vi rimasero i pochi liberali capitanati da Giolitti (alla sua età non gli andava di cantare “Giovinezza”) e, dopo un ripensamento, i comunisti. Il Re attese invano che un segnale dal Parlamento lo autorizzasse a intervenire. Non venne.

L'“Aventino” fu il secondo immenso regalo dell'“opposizione” a Mussolini, che poté scrollarsi di dosso chi ne aveva aiutato l'ascesa al governo ma non ne condivideva la visione massimalistica ed egolatrica del potere. Tra questi il massonofago nazionalista Luigi Federzoni e lo stesso Giacomo Acerbo, che merita un sintetico “ritratto”.

Nato a Loreto Apruntino (Teramo) il 25 luglio 1888, laureato in scienze agrarie nel 1912, interventista, volontario nella Grande Guerra, ferito, due croci al merito e tre medaglie d'argento (suo fratello Tito, capitano della leggendaria Brigata Sassari, meritò due medaglie d'argento e quella d'oro alla memoria), nel dopoguerra Acerbo accompagnò la cattedra di economia politica nell'Università di Roma alla guida dell'Associazione combattenti delle province di Teramo e Chieti. Candidato alla Camera nel 1919, eletto deputato il 15 maggio 1921 da un “blocco nazionale” (combattenti, fascisti, liberali) subito si affermò come uomo della mediazione. Con il nazionalista Giovanni Giuriati promosse il “patto di pacificazione” del 3 agosto 1921 tra fascisti e socialisti, rappresentati da Tito Zaniboni e Giuseppe Ellero.

 

Contro la “tendenza repubblicana” di Mussolini

Mussolini continuava a fare l'occhiolino alla “tendenza repubblicana”. A conclusione del congresso di fondazione del PNF, il 9 novembre 1921 disse: «Il romano non è né fascista, né antifascista. È un uomo che non vuole essere scocciato o disturbato, ma se è scocciato, il popolo e il popolino sono pugnacissimi». Aggiunse: «Non provochiamo, ma difendiamoci se attaccati. Se un romano porta un fazzoletto rosso, non c'è ragione di fare una spedizione punitiva…».

Mentre il duce e altri gerarchi rinviavano il chiarimento dell'identità dei “fasci”, in sintonia con Cesare Maria De Vecchi ed Emilio De Bono il trentenne Acerbo ribadì nettamente l'opzione monarchica. Mussolini stentava a liberarsi dal “fascismo delle origini”, senza un preciso programma qual era sorto a Milano il 23 marzo 1919, nella sede messa a disposizione da Cesare Goldmann, alto dignitario massonico. Alle elezioni del 16 novembre 1919 il movimento fallì miseramente. La lista capitanata da Mussolini a Milano raccolse circa 5.000 voti benché tra i candidati vantasse Arturo Toscanini, già celebre direttore d'orchestra, l'anticlericale d'assalto Ugo Podrecca e Filippo Tommaso Marinetti, capofila del futurismo. Mussolini raccattò 2.500 preferenze personali. I socialisti, dal cui partito era clamorosamente uscito nell'agosto 1914, ne celebrarono irridenti il “funerale politico”. Non capirono...

La media e piccola borghesia, avversaria dei socialisti (che dichiaravano di voler “fare come in Russia”: non una esosa tassa sul patrimonio ma espropriazione ed eliminazione fisica dei proprietari) non aveva motivo di puntare sull'ex socialmassimalista, ateo professo, fervoroso “credente” a giorni alterni e (si insinua) a noleggio dei servizi segreti militari britannici. Avevano a portata di mano l'ampio ventaglio di “liberali” e i “moderati” del Partito popolare italiano. Fondato il 18 gennaio 1919 su iniziativa di don Luigi Sturzo, questo andava da clericali fanatici, nemici strenui del Risorgimento e del Regno d'Italia, bollati come frutto di un complotto massonico, a “costituzionali” eletti deputati sin dal 1904 o sulla base del “Patto Gentiloni” (1913) che vide alleati cattolici e liberali per sconfiggere gli opposti estremismi: nazionalisti a destra, socialisti rivoluzionari e repubblicani intransigenti a sinistra.

Come documentano Renzo De Felice e Roberto Vivarelli, a fare la fortuna del fascismo non furono né le sue “idee” né il suo programma (a fisarmonica), ma la spinta sovversiva della sinistra estrema, la scioperomania e l'incertezza dei governi, più interessati alla propria sopravvivenza che alle sorti dello Stato. Nelle elezioni amministrative dell'autunno 1920 “blocchi” di liberali, democratici, ex combattenti e “agrari” conquistarono comuni e province anche con il concorso di fascisti. Nelle elezioni politiche del maggio 1921 gli stessi blocchi elessero 35 deputati fascisti, compresi Mussolini, nel collegio di Milano, e il facinoroso Roberto Farinacci, massone ubiquo, candidato con l'ex socialista riformista Bonomi in quello di Mantova-Cremona.

Nei vari collegi elettorali i “blocchi” presentarono emblemi diversissimi. Gli unici a usare un identico contrassegno in tutti i collegi furono i fascisti, che esibirono il “fascio dei littori”. A quel modo risultarono visibili da un capo all'altro d'Italia, a differenza dei loro alleati che si cosparsero di spighe di grano, stelle, animali e altro ancora. Lo Stato, ovvero la Corona, non aveva alcun bisogno di una minoranza rumorosa e ondivaga qual era il movimento fascista. L'Italia era uscita vittoriosa dalla Grande Guerra. Agognava il ritorno all'ordine, preluso dalla Festa delle Bandiere ideata da Giolitti (4 novembre 1920) e dalla Tumulazione del Milite Ignoto nel Sacello dell'Altare della Patria (4 novembre 1921): consacrazione dell’unità tra monarchia e popoli d'Italia, assenti gli invidi fascisti, battuti in breccia dalle Istituzioni.

L'8-9 novembre 1921, mentre il movimento fascista si trasformava in Partito, i nazionalisti, monarchici ma nemici di Giolitti, si radunarono in Roma. Il convegno fu presieduto da Luigi Federzoni, affiancato da Forges Davanzati, Alfredo Rocco, Maurizio Maraviglia, Emilio Bodrero. Deliberò l'organizzazione dei “Sempre pronti”, squadre armate, per fronteggiare, all'occorrenza, anche quelle fasciste.

 

Il programma del nuovo partito?

Negli stessi giorni nel congresso fondativo del PNF Mussolini abbozzò un “programma”. Escluse che la Carta del Carnaro di Alceste De Ambris e Gabriele d'Annunzio costituisse un modello per il fascismo. Avvertì: “Finirà lo spettacolo del fascista liberale, nazionalista, democratico e magari popolare: ci saranno solo dei fascisti. Il Fascismo è destinato a rappresentare nella storia politica italiana una sintesi tra le tesi indistruttibili dell'economia liberale e le nuove forze del mondo operaio. È questa sintesi che può avviare l'Italia alla sua fortuna”.

Alla presidenza del congresso del nascente PNF sedettero Giacomo Acerbo, Cesare Maria De Vecchi, Farinacci, Giuseppe Bottai (affiliato alla Gran Loggia), Dino Grandi, Giovanni Giuriati, Alberto De Stefani, Costanzo Ciano e altri futuri gerarchi. Mussolini passò in rassegna le forze antagoniste, a cominciare dai comunisti che, proprio come i fascisti, ricorrevano alla dittatura e agli stati d'assedio, e dal partito socialista ufficiale (di Filippo Turati e Giacomo Matteotti), schernito come pus. A suo giudizio, con il loro patetico Giuseppe Mazzini i repubblicani erano il passato remoto. I popolari invece avevano alle spalle trentamila parrocchie, contavano nelle loro file “molti elementi della più fetida neutralità” e gareggiavano “col bolscevismo vero e proprio”. Però bisognava tenerne conto perché alle spalle avevano la Chiesa: millenaria. Elogiò Francesco Crispi e ammonì: «il fascismo si preoccupa del problema della razza, con la quale si fa la storia. Noi partiamo dal concetto di Nazione, che è per noi un fatto né cancellabile, né superabile. Siamo quindi in antitesi contro tutti gli internazionalismi». Il suo nemico era la massoneria in tutte le sue forme, compresi i Rotary Club e tutte le altre organizzazioni internazionali o sovranazionali, inclusa l'Ymca. Mussolini sapeva di essere circondato da massoni. Ne aveva bisogno, ma non voleva rimanere prigioniero di un “partito massonico” annidato nel PNF.

Sui rapporti tra l'Italia e il Vaticano fu guardingo: «l’Italia è Stato sovrano in ogni campo dell'attività nazionale. La diplomazia vaticana è più abile di quella della Consulta [cioè, del Ministero degli Esteri, NdA]. Impone rispetto per ogni fede perché per il fascismo il fatto religioso rientra nel campo della coscienza individuale. Il cattolicismo può esser utilizzato per l'espansione nazionale…».

 

La “tendenza repubblicana”

Anche dopo le elezioni del 1921 Mussolini dichiarò che il fascismo era “tendenzialmente” repubblicano. «Così dicendo – precisò – non intendevo precipitare il paese in un moto rivoluzionario. Io intendevo soltanto aprire un varco verso il futuro. Chi può dire che le attuali istituzioni siano in grado di difendere sempre gli interessi, soprattutto ideali, del popolo italiano? Nessuno. Oggi un movimento repubblicano sarebbe destinato a un insuccesso. Sulla questione del regime [monarchico, NdA] il fascismo deve essere agnostico, che significa vigilanza e controllo.» Il partito doveva impadronirsi dello Stato. Conseguito lo scopo avrebbe deciso che cosa fare del Re e della sua Casa.

Il 21 novembre 1921 il Direttorio del partito dichiarò: «Saremo con lo Stato e per lo Stato tutte le volte che esso si addimostrerà geloso custode e difensore e propagatore della tradizione nazionale. Ci sostituiremo allo Stato tutte le volte che esso si manifesterà incapace di fronteggiare e di combattere, senza indulgenza funesta, le cause e gli elementi di disgregazione interiore dei principii della solidarietà nazionale. Ci schiereremo contro lo Stato qualora esso dovesse cadere nelle mani di coloro che minacciano e attentano alla vita del paese». L'ordine del giorno venne firmato da Mussolini, Michele Bianchi, Alessandro Dudan e da Massimo Rocca, che poi finì “epurato” come Cesare Forni e Alfredo Misuri: fascisti “dissidenti” vittime di bestiali pestaggi da parte di “camerati”. Esso prospettava dunque non la diarchia Corona/PNF – Re/Duce del fascismo, bensì la conquista dello Stato e la sua fascistizzazione.

A sbarrargli la strada furono uomini come Giacomo Acerbo, che nell'ottobre 1922 tentò di far nominare ministri i socialisti Gino Baldesi e Bruno Buozzi. Quando il 31 ottobre i fascisti sfilarono per Roma dopo che Mussolini era stato incaricato dal re di formare il governo, Acerbo impedì che gli squadristi irrompessero a Montecitorio. All'indomani del successo della Lista Nazionale, il 10 aprile 1924 Vittorio Emanuele III lo creò barone dell'Aterno. Il Re non dimenticava che alle 7:30 del 28 ottobre 1922 Ernesto Civelli, massone della Gran Loggia e sovrintendente della “marcia”, d'intesa con Raoul Palermi e Acerbo gli aveva assicurato che i “militi” erano sostenitori della monarchia.

Sottosegretario alla presidenza del Consiglio dal 31 ottobre 1922 al 29 gennaio 1926, alla carica di deputato e di ministro dell'Agricoltura dal 1929 al 1935  con Arrigo Serpieri per sottosegretario, Acerbo unì la carriera accademica: preside della Facoltà di economia della “Sapienza” dal 1935 al 1943; presidente dell'Istituto internazionale dell'Agricoltura, voluto nel 1908 da Vittorio Emanuele III; membro del Consiglio nazionale delle ricerche. Il 6 febbraio 1943 fu nominato ministro delle Finanze. Fautore dell'ordine del giorno Grandi-Bottai-Federzoni con il quale il Gran consiglio del fascismo il 25 luglio 1943 “pregò Sua Maestà” di esercitare i poteri statutari, dopo l'8 settembre Acerbo fece perdere le sue tracce.

Condannato a morte in contumacia dal Tribunale di Verona il 10 gennaio 1944, su delazione venne catturato dai partigiani e processato per sovversione del regime costituzionale ante-fascista. Scampato al plotone di esecuzione, fu condannato a 48 anni di carcere e recluso a Procida. La condanna fu annullata dalla Corte di Cassazione a sezioni unite (27 luglio 1947, come ricordo nella “Storia della monarchia in Italia”, ed. Bompiani, 2002, sulla scia di Aldo Pezzana). Riabilitato, tornò all'insegnamento universitario. Candidato al Senato della Repubblica per il Partito nazionale monarchico (1953) e per il Monarchico popolare (1958), morì a Roma il 9 gennaio 1969.

Aldo A. Mola

Giacomo Acerbo e il socialista Tito Zaniboni. Che cosa fu il “fascismo” di Giacomo Acerbo?

Il fascismo fu “autobiografia degli italiani” come scrisse Piero Gobetti? Di alcuni sì; di altri niente affatto, anche se talora indossarono la camicia nera e giurarono fedeltà al fascismo oltre che al Re e ai suoi legittimi successori. Motivo in più per ricordare che nelle elezioni del 1919 e del 1921 alle urne andò un modesto 56- 58% degli elettori. Il 6 aprile 1924 andò il 63%: la quota più alta di sempre. Così Mussolini si proclamò “missus dominicus” della Nazione, sorretto dai voti di popolari, liberali, democratici e riformisti. Il 24 marzo 1929 alle prime elezioni da lui personalmente orchestrate affluì alle urne l'89,86% degli aventi diritto. Il governo ottenne il “sì” del 98,34 % dei votanti. Il suffragio universale non è affatto garanzia di democrazia. Giova anche ai regimi liberticidi

Studioso di agraria, economista, fautore della conciliazione tra italiani di opposte fazioni ideologiche Acerbo scampò a due plotoni di esecuzione: il Tribunale repubblichino di Verona (10 gennaio 1944) e quello “partigiano”. Il 10 luglio 1961 venne cooptato nella Consulta di Senatori del Regno con il plauso di Umberto II.

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 13/08/2023