L'ossessione di Toris

Malattia mentale e arte

Centosessant’anni fa nasceva Francesco Toris (1863-1918), che concluderà la sua vita nel Manicomio di Collegno. Fu un artista sui generis, la cui opera principale contribuisce ancora oggi ad alimentare il dibattito sul connubio genio-follia. Senza entrare nel merito di tale connubi, rivolgiamo la nostra attenzione a Toris che fra il 1899 e il 1905 realizzò “Il Nuovo Mondo”. L’opera è piuttosto complessa e si avvale di moltissimi elementi in osso bovino (provenienti dalle cucine dell’istituto) scolpiti e intagliati e raffiguranti antropomorfi mascheriformi, animali reali e immaginari, fiori, lettere, numeri e motivi decorativi (Larghezza 40 cm; altezza 58 cm, così ridotta dai cento originari a seguito della perdita di alcune parti).

 

Le singole parti sono state incastrate le une nelle altre senza uso di colla, corda o chiodi; l’insieme poggia su tre ruote che rende possibile lo spostamento.

Toris era un carabiniere di 33 anni, ricoverato il 16 settembre 1896 all’Ospedale militare di Torino con questa diagnosi: “Frenopatia (monomania e persecuzione) con allucinazioni visive e acustiche, a grado tale di riuscire pericoloso alle persone che lo avvicinano”. Il 7 ottobre dello stesso mese fu internato nel Regio manicomio torinese e l’anno successivo in quello di Collegno.

 

Nel corso del suo ricovero – che si prolungò fino alla sua morte – in cinque anni di lavoro realizzò l’articolata struttura de “Il Nuovo Mondo” senza appoggiarsi a disegni preparatori e neppure a un progetto definito. In pratica andò assemblando via via la sua opera dando forma alle visioni di cui era vittima: in un primo tempo – della durata di circa due anni – Toris era perseguitato da allucinazioni visive e uditive; in seguito subentrò una fase che lo condusse a vivere in una condizione di apatia, isolandosi da tutto e tutti.

In questa seconda fase iniziò a scolpire e intagliare oggetti, dedicandosi poi alla sua realizzazione principale, appunto “Il Nuovo Mondo”. Poi, senza portare a termine il suo lavoro cessò improvvisamente di realizzare la sua scultura, chiudendosi nel suo delirio.

 

Giovanni Marro (1875-1952), docente di antropologia presso l’università torinese e direttore del laboratorio di anatomia dell’ospedale psichiatrico di Collegno, si occupò di Toris nel suo studio Arte primitiva e Arte paranoica (in “Annali di Freniatria e Scienze affini del R. Manicomio di Torino”, V. XXIII, 1913; poi in G. Marro, Arte primitiva e Arte paranoica. Memoria preliminare, Torino 1916).

 

Marro poneva in evidenza che Toris, in una prima fase, dimostrò una forte propensione alla scrittura “scrive in uno stile quanto mai ricercato e ampolloso; non manifesta però note spiccate di demenza grafica. Persuaso di essere investito dell’alto incarico di correggere i costumi dell’umanità e più precisamente di dover sorvegliare tutto l’andamento morale e materiale del Manicomio, bandisce leggi, emette ordini, denuncia soprusi, ingiustizie, immoralità. In alcuni scritti palesa anche la ferma convinzione di aver attributi divini. Trascorsi due anni dal suo ricovero, Toris cominciò ad applicarsi a lavori d’intaglio sull’osso foggiando oggetti strani e specialmente facce umane, che volentieri, e anche spontaneamente, regalava”.

 

È particolarmente significativa la lettera che Toris scrisse a Giovanni Marro, quando venne a conoscenza della sua partecipazione nel 1911, come antropologo e su invito di Ernesto Schiaparelli, alla missione archeologica italiana in Egitto. “Egregio antropologico Civilizzatore di Gebelein, Durante il tempo che Ella sta professando l’arte e la scienza coltivando e delucidando misteri e segreti non fece che rapinare, assassinare, asportare e collezionare a danno dei morti e di vivi ogni morale e materiale proprietà, estorta colla sua tenacissima, astuta e sfruttatricissima mente rafforzata dall’atrofizzatissimo cuore.

Abusando della sua autorità Ella scoperse anche il significato di una parte principale delle ossa della Regia Certosa, da me scoloruta (si riferisce al suo lavoro manuale che è alla base de Il Mondo Nuovo, n.d.a.) durate questa mia permanenza disperata e crucefissata.

I morti e i vivi della necropoli di Collegno, come i morti e i vivi della necropoli di Gebelein, se potessero disporre del loro potere, la collocherebbero nella più profonda tomba da lei scoperta e profanata e la lascerebbero là a morire di fame e di spavento.

La riverisco e dico sua invendicata vittima T. F.”.

Gli utensili di cu Toris si avvelava erano di sua realizzazione: frammenti di vetro, filo di ferro, chiodi, pezzi di latta, schegge di pietra in genere montati su manici di legno o di osso.

Nel suo lavoro non cercò di dare alle sue realizzazioni una funzione pratica, ma perseguì un fine estetico di cui solo lui conosceva il senso. Per quanto ci si sforzi, non si riesce ad accedere all’abisso di Toris attraverso il suo universo estetico, che al disadattamento socio relazionale contrapponeva una sensibilità ipertrofica.

Marro poneva in luce la singolare corrispondenza tra l’opera di Toris e alcune realizzazioni dell’arte delle popolazioni del Pacifico:

 

“La nota prevalente in questi intagli è senza dubbio, quella grottesca: e in ciò si ha un altro elemento di corrispondenza fra i prodotti della plastica paranoica e quella dei primitivi. In effetto una singolare rassomiglianza si riscontra fra le figure umane scolpite da questo ammalto e quelle provenienti dalle isole della Melanesia”.

Ovviamente sarebbe importante conoscere la relazione tra la formazione dell’immagine visuale e il vissuto interiore: aspetto che ignoriamo, pur conoscendo l’ambito patologico di Toris.

Davanti al complesso assemblaggio che costituisce “Il Mondo Nuovo”, non siamo in grado di esprimere un giudizio preciso, poiché la distanza di tempo che ci separa dall’autore non è sufficientemente salvaguardata dalle fonti, rendendo arduo stabilire che cosa “intendesse dire” l’autore con questa misteriosa scultura. In essa possiamo trovare le mirabolanti fantasie i Bosch, i ribaltamenti dimensionali della sperimentazione e i riverberi rituali dell’arte etnologica.

 

Sappiamo che il Toris, prima del ricovero era in procinto di sposarsi e la futura moglie incinta. Rapportando la data del ricovero all’Ospedale militare con la nascita della bambina (5 maggio 1897) e supponendo una regolare gravidanza “si può ragionevolmente affermare che all’epoca dello scatenamento paranoico del Toris la promessa sposa fosse gravida da un mese e mezzo. Sono note le rigide regole che, specialmente nell’Italia umbertina, condizionavano il matrimonio di chi nell’ambiente militare presiedeva all’ordine pubblico, ovvero i Regi Carabinieri.

 

Essi erano tenuti a rispondere anche nella vita privata dell’esacerbazione della morale del tempo, pena l’immediata espulsione dal corpo” (M.T. Dolfin, Un discorso ridotto all’osso. Una lettura psicoanalitica del Nuovo Mondo di Francesco Toris, in G. Mina, a cura, Ossessioni. Un antropologo e un artista nel manicomio di Collegno, Nardò 2014, pag. 104).

 

Evidentemente tale situazione ebbe l’effetto di scatenare il deliro del giovane brigadiere il quale, sembrerebbe poterlo presupporre, avrebbe comunque già dovuto manifestare una sintomatologia e un comportamento atti ad allarmare.

 

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Articolo pubblicato il 09/08/2023