Castelvecchio: Nel cuore di Verona una fortezza museo

Di Alessandro Mella

Sorge da secoli nel cuore di Verona, con le sue mura possenti cariche di storia e tanta ne potrebbe raccontare.

Castelvecchio fu edificato tra il 1354 ed il 1356 per proteggere il borgo dalle incursioni dei potenziali nemici. Il tempo ne segnò le mura e nei primi anni del Novecento si rese necessario un restauro con il quale si provvide anche a ridargli l’antico aspetto medievale che le alterazioni apportate nei secoli avevano ridimensionato.

Dopo una prima “esperienza museale” negli anni Venti, precisamente nel 1924, il castello, profondamente mutato nella struttura in epoca napoleonica, visse una serie di interventi tesi a restituirgli quanto più possibile la foggia medievale.

La sua forza evocativa fu tale che la fortezza divenne anche sede degli avvenimenti traumatici legati alla Repubblica Sociale Italiana. Il congresso del PFR prima e successivamente il drammatico processo di Verona che condusse i gerarchi del “25 luglio 1943” davanti all’impietoso plotone d’esecuzione:

VERONA, 15. — Presieduta da Alessandro Pavolini e presenti i Ministri Mezzasoma e Ricci e altre personalità del Governo e del Partito si è ieri riunito in un salone di Castelvecchio il primo Congresso del P. R. F. Nella piazza antistante allo ingresso si assiepava una numerosa folla che ha acclamato le varie personalità convenute. Questa prima, assemblea del Partito repubblicano fascista che, come è noto, prelude alla prossima riunione della Costituente e che ha per scopo principale di stabilire la parte programmatica del nuovo Partito quale unico organo di controllo politico, si è iniziata con un discorso del Ministro Segretario del Partito Alessandro Pavolini il quale, dopo aver dato lettura, ad un messaggio inviato al Duce, ha impostalo i vari problemi all'ordine del giorno. I lavori dell’Assemblea sono stati ripresi nel pomeriggio. Vari oratori si sono susseguiti alla tribuna e lo scambio delle idee è stato ampio e approfondito. Mentre parlava il camerata Bardi di Roma, a Pavolini veniva annunciato che il commissario federale di Ferrara, Igino Ghisellini, invalido di guerra, decorato di tre medaglie d ’argento e di tre di bronzo, era stato assassinato dai sovversivi di quella città con sei colpi di rivoltella sparati a tradimento. Il segretario del Partito ha subito reso noto il triste episodio all’Assemblea, la quale ha reso omaggio alla memoria del caduto. I lavori del Congresso sono poi terminati nel tardo pomeriggio. (1)

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Si è concluso lunedì 10 in Castelvecchio di Verona, dinanzi al Tribunale Speciale il procedimento a carico dei diciannove membri del Gran Consiglio del Fascismo imputati dei delitti di “tradimento e di aiuto al nemico per avere, a seguito di più incontri, e segnatamente nell'occasione del voto emesso dal Gran Consiglio del Fascismo il 25 luglio 1943 in Roma, in concorso fra loro, tradendo l’Idea, attentato all’indipendenza dello Stato, ed aver nociuto, mediante Fazione più appropriata ad attivare illusioni d'una pronta pace qualunque, tanto alla resistenza del Paese quanto alle operazioni delle sue Forze Armate, prestando così aiuto al nemico” (…).(2)

E non bastasse questo l’incursione aerea del 4 gennaio 1945, ad opera dei bombardieri angloamericani, danneggiò profondamente l’edificio ed il complesso.

Fortunatamente, passata la furia degli eventi bellici, Castelvecchio divenne sede museale e vi furono raccolte centinaia d’opere riordinate da Carlo Scarpa tra il 1958 ed il 1974:

Pochi giorni prima di Natale il sindaco uscente di Verona, prof. Giorgio Zanotto, ha consegnato alla città il museo di Castelvecchio riaperto, restaurato e riordinato. È forse l'ultima delle profonde ferite del tempo di guerra che Verona rimargina nel proprio corpo, e l'avvenimento è importante non solo per il motivo che discende dalla storicità del sito, ma anche per il modo con cui si è proceduto a questa restituzione.

A differenza di molti monumenti, ricostruiti in questo dopoguerra con il criterio del «dov'era e com'era», Castelvecchio si è riaperto, sì, nello stesso luogo, dove i secoli hanno sedimentato tante testimonianze di pietra e tante memorie ma diverso è il come.

Diverso l'aspetto interno e esterno e nuova la sistemazione delle opere nelle sale e, infine, la stessa funzione del museo nel contesto culturale della città. «Nel nostro lavoro - ha detto il sindaco Zanotto presentando l'opera alla cittadinanza - non abbiamo avuto presenti eruditi in cerca di piaceri estetici, ma l'uomo comune, soprattutto i giovani e il loro bisogno di colloquio con il passato, con la storia della città e con la cultura».

Innovazioni ardite e persino provocanti. La prima squilla polemica s'avverte fin dal primo passo entro la cinta merlata, oltre il ponte levatoio che adduce al cortile del museo. Un moderno giardino all'italiana, con giochi d'acqua su piscine di disegno astratto, accoglie il visitatore. Dalla facciata del palazzo è scomparso l'intonaco policromo che doveva richiamare l'idea di una dimora rinascimentale veneziana a specchio sul Canal Grande.

Scrostate le tinte, il muro appare nudo e bianco, e poi c'è un'altra novità: ai piedi della facciata scorre uno scabro muricciolo di cemento che ha un aspetto molto schietto e dimesso. Questo muro ha la funzione — ci spiega il direttore del museo — di creare un primo piano davanti alla facciata, quasi uno schermo ottico che «muova» la frontalità dell'edificio. Per misurare l'arditezza delle novità che Castelvecchio offre al visitatore, bisogna ricordare che l'edificio è profondamente inserito in un forte tessuto di mura romane e medioevali. Teodorico provvide a un primo restauro delle mura romane, cui poi si aggiunsero, nel XII secolo, le mura comunali.

I signori della Scala ne fecero la propria reggia. Nel tempo della Repubblica Veneta Castelvecchio cambiò destinazione fu ridotto a carcere per i prigionieri politici e ad arsenale. Napoleone costruì entro le mura del vecchio cortile un fortilizio puntato contro gli austriaci, vigilanti sulla sponda opposta dell'Adige: allora, al tempo della pace di Luneville, Verona era divisa in due, come oggi Berlino.

Gli austriaci, a loro volta, lo ridussero a caserma, quando Verona era uno dei caposaldi del famoso quadrilatero, contro cui si urtarono gli eserciti piemontesi durante le guerre d'indipendenza. Fin dopo la prima guerra mondiale, Castelvecchio restò caserma.

Appena le armi si tacquero, i veronesi vollero riscattare il luogo a funzioni civili e, dopo così lungo servizio militare, l'allora direttore del museo di Castelvecchio, prof. Avena, lo trasformò in sede delle civiche gallerie veronesi. Ma non si potevano, evidentemente, accasermare le pitture e le sculture.

Perciò Avena fece pulizia d'ogni relitto militare ottocentesco, e costruì qualcosa di nuovo: secondo il costume del tempo (siamo nel 1924-'25) l'architetto immaginò un edificio che, per una parte, richiamasse l'idea della dominazione veneziana, e, per l'altra, si intonasse ai ricordi medioevali scaligeri.

Però la storia non aveva finito di bussare ai portoni di Castelvecchio. Nel 1943 la sala principale del palazzo, destinata ai concerti, ospitò l'assemblea costituente dell'effimera repubblica di Salò. Pochi mesi dopo vide il processo e la condanna a morte di Galeazzo Ciano e dei gerarchi del Gran Consiglio.

Le bombe degli alleati sconvolsero Castelvecchio e infine, nell'ultimo giorno della dominazione nazista, i tedeschi fecero saltare l'attiguo ponte merlato, causando nuovi sconvolgimenti al museo veronese.

Il ponte venne ricostruito «com'era e dov'era» subito dopo la guerra dal sovrintendente Piero Gazzola Quando si pose poi il problema della ricostruzione - o del restauro - dell'edificio, il nuovo direttore del museo, Licisco Magagnato, aveva innanzi a sé uno sconquassato rottame, in cui il falso e l'autentico erano saldamente aggrovigliati. Ci voleva un bel coraggio a rimettere in piedi il «pastiche» veneziano - medioevale, ricevuto in eredità dal passato. Ma ce ne voleva forse ancora di più a chiedere al Comune un atto di fiducia, una scelta che, salvando il salvabile, facesse largo alle moderne ragioni critiche e desse spazio alla nuova sensibilità maturata in questi decenni.

L'impresa venne affidata al prof. Carlo Scarpa, poiché dava garanzia, sia come specialista in lavori del genere, sia in quanto artista schiettamente moderno, di non volersi limitare ad aggiunte, rappezzi e inserti inespressivi o anodini. In effetti Carlo Scarpa non ha minimamente mascherato i suoi intendimenti e ora l'opera sua si offre alla discussione della cittadinanza e della critica.

Il palazzone, specie nei suoi interni «in stile», è scomparso, disfatto e ricreato in nuove forme, liberamente inventate dall'artista, in ferro, in cemento, in legno. Statue e dipinti non sono più disposti nelle leziose collocazioni, care alla museologia ottocentesca, ma come sparsi in affettuoso disordine nelle sale come se il visitatore sorprendesse queste opere nello studio dell'artista che le ha concepite.

I dipinti sostenuti su cavalletti di ferro o squadernati su ampi leggii; alcuni, come il «Cristo crocefisso» di Jacopo Bellini, pendono dall'alto del soffitto sospesi a catene che hanno la forza di ferri medioevali. La cornice è volutamente squallida, di legno grezzo, annerito. (…) Dai soffitti pendono fili di luce scoperti e nude sono le lampadine issate su lunghi steli di ferro. Quasi in tutti i casi, quadri hanno cambiato in corniciatura, ma per suggerire una interpretazione non di maniera del dipinto.  (…) I veneziani - i Tintoretto, i Guardi, i Longhi - sono sistemati nella saletta che servì ai giudici di Galeazzo Ciano come camera di consiglio, e anche qui si avverte la presenza inquieta delle memorie di cui il luogo è imbevuto. Memorie messe allo scoperto, senza indulgenza, senza mascherature.

La statua di Cangrande della Scala è collocata in vetta a un aereo piedestallo di acciaio e di cemento: la sua onnipresenza costituisce il motivo poetico dominante su tutto l'itinerario. Lo si scorge dal basso, in sella, un po' di traverso, il cavallo bardato a torneo, all'aperto, la lancia alta contro uno sfondo nero di tetti spioventi.

Nella sala superiore lo si incontra a faccia a faccia al di là d'una vetrata, il sorriso ironico stampato sul volto a pochi metri di distanza dal visitatore, eppure distaccato in un suo inaccessibile e corrusco isolamento. Proprio in questi giorni uno studioso, Vittore Branca, ha scoperto che il trattato politico di Dante Alighieri, il «De Monarchia», fu scritto a Verona, quando il suo autore era ospite di Cangrande: non è difficile immaginare un rapporto di reciproca ispirazione e di ammirazione.

Sparite le suggestioni del falso medioevo e del falso rinascimento, rudemente messe a nudo le pietre antiche dell'edificio, il museo rinnovato di Verona sembra avere ritrovato il suo padron di casa e il suo eroe tutelare, il Cangrande, il sorridente guerriero che simboleggiò Verona ed ebbe per amico e ospite Dante Alighieri. (3)

Una collezione multi-genere, disposta su quasi trenta sale, con sculture, dipinti italiani ed esteri, armi antiche ed armature, ceramiche, gioielli, miniature e molto altro ancora.

Si accede al museo attraverso gli ingressi principali che danno su un grazioso e verde cortile sul quale s’affaccia la biglietteria con guardaroba assai pratico e comodo per i turisti.

Il percorso segue sostanzialmente il corso dei tempi iniziando con i reperti del periodo paleocristiano per giungere fino al XVIII secolo con importanti richiami alla storia del capoluogo scaligero. La galleria iniziale conserva reperti longobardi e sculture medievali con la possibilità di osservare quanto rimane dello scomparso fossato originale della fortezza.

Tra le opere di maggior pregio dello statuario giova ricordare un crocifisso del Trecento in tufo, un sarcofago dei santi Sergio e Bacco del 1179, le immagini del XIV secolo di Santa Cecilia e Caterina e le statue equestri di Cangrande della Scala e di Mastino II.

La pinacoteca, disposta su più sale, ha qualcosa di davvero speciale con opere che spaziano da Pisanello e Mantegna fino ad arrivare a Tintoretto, Tiepolo e Veronese.

Di grande interesse è anche l’armeria con armature, elmi ed armi per lo più medievali e di poco successive tra le quali spicca, per importanza storica, la spada che appartenne a Cangrande della Scala e che fu ritrovata tra le sue spoglie al momento dell’ispezione del sepolcro nei primi anni del ‘900.

La visita è davvero appagante per tutti sia per la bellezza del castello che per la moltitudine di reperti ed opere contenute. Andare a Verona e non visitare questo museo par quasi un peccato! Soprattutto dopo il prezioso recupero delle opere trafugate nel 2015 e poi ritrovate e restituite alle autorità italiane.

Alessandro Mella

NOTE

1) La Gazzetta del Lago, 89, Anno XXXVI, 17 novembre 1943, p. 1.

2) Gazzetta d’Alba, 2, Anno LXIII, 13 gennaio 1944, p. 1.

3) La Stampa, 6, Anno IC, 8 gennaio 1965, p. 5.

 

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Articolo pubblicato il 09/08/2023