Governo liberale?
Giovanni Giolitti (1842-1928), nel 1913 ritratto da Antonio Piatti (2875-1962)

Amministrare bene (di Aldo A. Mola)

Elogio del Presidente Mattarella

In visita a Torino il 2 agosto 2023 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha elogiato il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, esponente di Forza Italia, e il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, militante del Partito democratico, perché collaborano nella ricerca del “bene comune”. Si consultano, concertano e convergono sulle “cose da fare”. Il Presidente ha così riesumato il buon tempo antico, la civiltà del “Vecchio Piemonte”, che prese sulle spalle la missione di “fare l'Italia” e costruire lo Stato e la pubblica amministrazione. Ha proposto l'attualità del liberalismo classico italiano da Camillo Cavour e Urbano Rattazzi, da Giovanni Lanza e Quintino Sella, sino  a Luigi Einaudi, monarchico e liberale, primo presidente effettivo della Repubblica.

L'elogio della collaborazione tra amministratori pubblici dalle pur diverse “tessere di partito”, che non sono steccati invalicabili, è anche implicito invito a tutti gli “uomini di buona volontà” a seguire l'esempio di Cirio e Lo Russo, “rimboccarsi le maniche e” e “mettersi alla stanga”. Ma già Giovanni Paolo II aveva esortato i “romani de Roma”: “volemose bene, damose da fa”. Con i rimi attuali la Capitale sarà sicuramente in grado di dissipare immense risorse, non di accogliere il primo Giubileo del Terzo Millennio... Nell'esercizio della missione presidenziale (di cui molto ha scritto Tito Lucrezio Rizzo in “Parla il Capo dello Stato”, ed. Herald) il Presidente Mattarella ha supplito al silenzio di chi dovrebbe fare ogni giorno altrettanto: il presidente del Consiglio, che, capo dell'Esecutivo, deve porsi al di sopra dei partiti (compreso il suo e l'ondeggiante maggioranza che la sostiene), pensare meno ai voti (che, come foglie frali, vanno e vengono sospinti da venti sempre più umorali) e molto di più ad amministrare la “res publica”.

 

La missione di Vittorio Emanuele III

In età monarchica il Capo dello Stato, figura ieratica, si rivolgeva agli italiani con l'esempio personale, con Proclami e con i Discorsi della Corona pronunciati a ogni inizio di legislatura. Erano poi i presidenti del Consiglio a farsene interpreti all'insediamento del governo, con la richiesta di fiducia sul programma. Asceso al trono all'assassinio del padre Umberto I (29 luglio 1900), come previsto dall'articolo 22 dello Statuto, circondato dalla Corte e in presenza del governo e dei due rami del Parlamento, l'11 agosto 1900 Vittorio Emanuele III giurò fedeltà alla Carta albertina e pronunciò poche lapidarie parole, che meritano di essere rilette e meditate per coglierne i propositi. «Il mio primo pensiero - egli scandì - è pel mio popolo ed è pensiero di amore e di gratitudine. Quando un popolo ha scritto nel libro della storia una pagina come quella del nostro Risorgimento, ha diritto di tenere alta la fronte e di mirare alle più grandi idealità. Ed è a fronte alta che mi consacro al mio Paese. A noi bisogna la pace interna e la concordia di tutti gli uomini di buon volere per isvolgere le nostre forze intellettuali e le nostre energie economiche. Educhiamo le nostre generazioni al culto della patria, all'onestà operosa, al sentimento dell'onore, a cui si ispirano con tanto slancio il nostro esercito e la nostra armata, che vengono dal popolo e sono pegno di fratellanza che congiunge nell'unità e nell'amore della patria tutta intera la famiglia italiana. Impavido e sicuro ascendo al trono colla coscienza dei miei diritti e dovere di re. L'Italia abbia fede in me come io ho fede nei destini della patria e forza umana non varrà a distruggere ciò che i nostri padri hanno con tanta abnegazione edificato. È necessario vigilare e spiegare tutte le forze vive, per conservare intatte le grandi conquiste della Unità e della Libertà…».

Chi si attendeva una svolta autoritaria in risposta al regicidio rimase profondamente deluso. Re scrupolosamente costituzionale, Vittorio Emanuele III enunciò non solo il programma del suo regno ma la “missione dell'Italia” osservata in quei mesi drammatici da studiosi stranieri come Giacomo Novikov, Bolton King e Thomas Okay. Il Re ne era depositario e custode. Toccava ai governi attuarla, con il consenso delle Camere: una, il Senato, di nomina regia; l'altra eletta da un corpo elettorale che nel primo dodicennio dell'età vittorioemanuelina balzò da 3 a 8 milioni di cittadini: tutti i maschi maggiorenni, anche se analfabeti.

Ministro dell'Interno dal febbraio 1901 e quattro volte presidente del Consiglio fra il novembre 1903 e il marzo 1914 in alternanza ad altri tre politici di vasta preparazione ed esperienza (Alessandro Fortis, ex repubblicano; Sidney Sonnino, di famiglia israelitica, come Luigi Luzzatti: due massoni su tre; Sonnino era anche dantista con inclinazioni esoteriche) il migliore interprete del pensiero e del metodo del Re fu il piemontese Giovanni Giolitti (1842-1928).  Deputato dal 1882, già una volta presidente dell'esecutivo (1892-1893), questi non sentì mai bisogno di costituire o di avere il sostegno di un “partito liberale”. Semmai si premurò di ottenere quello di radicali e socialisti (con o senza il viatico dei rispettivi partiti) e di cattolici che non avevano alle spalle un partito di riferimento ma, dopo il regicidio, con il consenso di Papa Pio X, accettarono di essere eletti alla Camera in convergenza con i liberali e votarono persino candidati massoni per scongiurare il successo di esponenti dell'estremismo anti-sistema. Anche per molti cattolici lo Stato sorto dal Risorgimento divenne patrimonio comune irrinunciabile.

 

Amministratori e politici: una “riunione di amici”

Giolitti stesso enunciò i capisaldi del “metodo liberale”, implicitamente elogiato dal Presidente Mattarella nella breve presenza in Augusta Taurinorum, cuore del Vecchio Piemonte.

Per comprendere la sua concezione della “politica”, dell'esercizio del mandato parlamentare e la sua coerenza di monarchico e liberale al servizio dello Stato nelle Aule parlamentari e nell'amministrazione locale in continuità con gli uffici di pubblico impiegato ai ministeri di Grazia e Giustizia e delle Finanze, giova passare in rassegna i pochi discorsi da lui pronunciati al di fuori delle Camere dal 1886 al 1899. Non sono raccolti i suoi interventi nel consiglio di Rivoli Torinese (di cui fu componente e che lo ritrasse in un “medaglione”) mentre sono pubblicati quelli pronunciati nel Consiglio provinciale di Cuneo di cui fu componente dal 1886 al 1925. Quasi tutti furono raccolti in volume da Nino Valeri (Giolitti, Discorsi extraparlamentari, Einaudi, 1952).

Dal 1882 al giugno 1900 Giolitti presentò via via il suo programma tramite i giornali o con discorsi in “banchetti elettorali”. Tornato ministro dell’Interno nel governo presieduto da Giuseppe Zanardelli (14 febbraio 1901), sospese quella forma di dialogo, che pur andava oltre i confini del collegio, quasi non avesse altro da aggiungere al discorso di Busca del 29 ottobre 1899, il più magistrale dai tempi di Camillo Cavour a giudizio di Urbano Rattazzi jr, che gliene aveva suggerito parola per parola le frasi principali.

Lasciata il 16 marzo 1905 a Tittoni (poi sostituito da Sandrino Fortis) la guida del governo, per motivi di salute molto più gravi di quanto confidò al re e ricordò nelle Memorie, il 14 agosto Giolitti fu eletto presidente del Consiglio provinciale di Cuneo. In tale veste espose la sua visione di “buona amministrazione”: «Il nostro consesso – disse – non è che una riunione di amici che si stimano e si amano, animati dal solo intento di procurare il bene degli amministrati, non divisi da dissensi di natura politica, poiché tutti sono devoti alle patrie istituzioni; e, se qualche volta vi è lotta, ciò dipende unicamente dal fatto che ognuno vede le cose dal proprio punto di vista». Da quel seggio rese omaggi non rituali al re (13 agosto 1906, 10 agosto 1908, 14 agosto 1911, 14 novembre 1912, 12 novembre 1913).

Uso a rivolgersi al Paese nei discorsi elettorali o in Parlamento, quando non era al governo e soggiornava in Piemonte senza l’opportunità di sedute del consesso provinciale cuneese, rarissime volte lo statista parlò in sedi non istituzionali. Il 2 ottobre 1910 pronunciò poche ma eloquenti parole all’inaugurazione della nuova sede della Cassa di Risparmio di Cuneo. Mentre a Roma, da lui propiziato e assecondato, era sindaco il mazziniano Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia, e alla guida di comuni e province si moltiplicavano i “blocchi popolari” formati da liberali progressisti, radicali e socialriformisti (non di rado anche in Piemonte promossi da reti massoniche), nel silenzio “ossequioso e ammirante” dei presenti Giolitti scandì che la Cassa di Risparmio (sorta per impulso di massoni famosi, come il protomedico Luigi Parola, sindaco di Cuneo, deputato, venerabile della loggia “Roma”) era il punto di convergenza e di collaborazione “delle idee clericali e socialiste, moderate e radicali”. «La questione sociale, aggiunse, noi la risolviamo elevando le classi più umili a livello di quelle più ricche».

Pochi giorni prima era stato ricevuto segretamente da Vittorio Emanuele III nel Castello di Racconigi. Si avvicinavano le celebrazioni del cinquantesimo del regno. Urgeva un cambio al vertice del governo. Da Cuneo Giolitti fece sapere di non avere alcuna avversione nei confronti di chi aveva veduto in Luigi Luzzatti l’argine laico contro l’avanzata dei cattolici deputati. Al tempo stesso, però, non coltivava alcun altro pregiudizio: «Ognuno valga per ciò che sa e per il lavoro che compie». Le ideologie appartenevano al passato remoto, anche perché premevano impegni che nessuno dei presenti immaginava, a cominciare dall’impresa di Libia. Non solo Marx era stato mandato in soffitta (o così gli pareva o sperava). La constatazione della conseguita “pace sociale” era premessa indispensabile per affrontare nuove severe prove, giacché, avrebbe detto dopo il suo avvio, «nessuna guerra moderna può svolgersi senza la decisa volontà del popolo che la fa»: criterio che lo condusse a scuotere il capo dinnanzi all’interventismo del 1914-1915, lontano dal “Paese che lavora”. Per lui le guerre dovevano essere solo “difensive” o “di liberazione”, come quella per l'indispensabile “quarta sponda” e la liberazione di Rodi e del Dodecanneso dal secolare dominio turco, sulla scia di Mazzini e di Giuseppe Garibaldi, che nelle “Memorie” piegò la missione civile dell'Italia sull'Africa settentrionale, di concerto con Londra.

Anche da sedi periferiche lo statista mandò messaggi cifrati, attesi dal Re che il 30 marzo 1911, dopo il cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale d’Italia (una data ancora disputata, lasciata celebrare a Luzzatti) gli affidò per la quarta volta il governo del Paese.

All’inaugurazione della prima Camera eletta col suffragio quasi universale maschile (1913), dopo  circa tre lustri di governo Giolitti non venne affatto scosso da chi, come il socialista e massone Giuseppe Raimondo, ne annunciava il tramonto o, come Arturo Labriola (futuro ministro del Lavoro nel suo V governo, 1920-1921), sentenziava che vi era «da una parte un’Italia rivoluzionaria nazionalista e dall’altra un’Italia socialista, ma non c’e[ra] più un’Italia giolittiana». Lo statista sapeva bene che vi era la cattolica, maggioritaria nel Paese, e che solo il cosiddetto “patto Gentiloni”, approdo della linea avviata con la sospensione mirata del non expedit da parte di Pio X sin dal 1904 (come chiarito da Gianpaolo Romanato nella biografia del pontefice), aveva scongiurato divenisse più clericale di quanto, per contrapposti motivi, molti volevano. A quel punto, infatti, Giolitti poteva considerare in gran parte attuato il programma enunciato il 21 settembre 1900 in risposta a quello avanzato da Sidney Sonnino (Quid agendum) all’indomani del regicidio di Monza (“il più atroce dei delitti”, lo definì Giolitti stesso). Conscio che l’Italia aveva necessità di riforme profonde nell’amministrazione della giustizia, nel sistema scolastico e nei rapporti tra capitale e lavoro, lo statista cuneese affermò che queste andavano varate subito ma avrebbero dato frutti solo sul lungo periodo. Però per evitare che «il partito monarchico divent(asse) in molta parte d’Italia una minoranza» occorrevano misure immediate e incisive.

I fasci siciliani, i moti di Lunigiana del 1894 e la vasta sommossa/insurrezione del 1898 avevano indicato la via maestra: il riordino completo della fiscalità per scongiurare il declino della piccola proprietà, che costituiva «la più valida difesa dell’ordine sociale». Le classi dirigenti, affermò Giolitti, dovevano persuadersi che «senza qualche sacrificio esse non possono sperare durevole quella pace sociale senza cui non vi è sicurezza né per le persone né per gli averi». Ai “conservatori” (che sono l'opposto dei “liberali”, per definizione e vocazione “innovatori”) lo statista lanciò un monito severo, quasi una provocazione: «Io deploro quanto altri mai la lotta di classe; ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata?».

 Toccava appunto ai liberali cogliere lo spirare dei venti e promuovere le riforme: unico metodo per garantire lunga vita alle Istituzioni. Lo statista piemontese, bene orientato dal Re, si impegnò a fondo nella realizzazione di quel compito storico. Perciò la sua figura e il suo nome non potranno mai essere “confiscati” dai reazionari, suoi implacabili avversari. 

Aldo A. Mola

Giovanni Giolitti (1842-1928), nel 1913 ritratto da Antonio Piatti (2875-1962) per il Comune di Cuneo, di cui lo statista fu proclamato cittadino onorario.

Il dipinto dominò a lungo la sala del Consiglio comunale, dal quale fu poi rimosso. Nel centenario della estromissione di Giolitti dal Consiglio provinciale di Cuneo (1925, per volere del liberticida Mussolini) bene sarebbe riportarlo al suo posto.

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Articolo pubblicato il 06/08/2023