La tragica morte di Adriana Volpi

Passeggiate agostane torinesi fra bianco e noir

In corso Casale, al civico 139, una targa sbiadita, sopra le vetrine di un mobilificio, ricorda Adriana Volpi, una ragazza uccisa, il 2 marzo 1970, da un proiettile vagante durante l’inseguimento di alcuni malviventi condotto dalla Polizia. Vi ha fatto un cenno Ezio Marinoni nella sua passeggiata agostana fra Madonna del Pilone e Borgo Po e, a poco più di mezzo secolo di distanza, abbiamo deciso di proporre ai nostri lettori una ricostruzione di questa vicenda.

Nella sera del 2 marzo 1970 due poliziotti del Commissariato Borgo Po stanno svolgendo il loro servizio di pattuglia a bordo di un’autoradio. In via Figlie dei Militari scorgono tre giovani che stanno tentando di rubare una macchina. Intervengono per arrestarli, ma i giovani saltano a bordo di una 1100 color amaranto rubata poco prima e si danno alla fuga. Inizia così l’inseguimento della 1100 amaranto da parte dell’auto della Polizia a sirena spiegata. La guida l’agente Vittorio Boron, di 25 anni, con al suo fianco il collega Augusto De Nadai, di 50 anni. Le due auto imboccano a forte velocità il corso Casale verso l’esterno della città. Alle 21:00, quando giungono all’altezza di via Castiglione, l’auto della Polizia tenta di tagliare la strada alla 1100 in fuga, ma questa, con una brusca sterzata a sinistra, entra nel tratto del Parco Michelotti di fronte al Motovelodromo, nel tratto dove oggi sorge lo Skatepark, che al tempo ospita un accampamento di roulotte dei proprietari degli spettacoli viaggianti che hanno ancora i loro baracconi nella Piazza Vittorio.

L’auto dei ladri entra nel prato dell’accampamento, ma non riesce a sgusciare fra le roulotte e finisce per sfasciarsi contro una di queste. I tre giovani escono dalla vettura poco prima dell’arrivo dei poliziotti e fuggono a piedi nel buio. Ricercati, non verranno mai né identificati né catturati.

Mentre l’auto della Polizia tenta di tagliare la strada ai fuggitivi, partono uno o più colpi d’arma da fuoco: un proiettile, rimbalzando sull’asfalto, colpisce una ragazza che sta spettando l’autobus 61 alla fermata all’angolo di via Castiglione. I rari passanti la vedono accasciarsi sul marciapiede, nessuno intuisce la gravità della ferita: il proiettile l’ha ferita alla gamba destra con lesione dell’arteria femorale.

È Adriana Volpi, figlia quindicenne di Agostino, di 43 anni, proprietario di uno spettacolo viaggiante che ha la sua roulotte collocata nell’accampamento del parco Michelotti. L’ha vista uscire, poi ha udito la sirena della Polizia, è uscito dal carrozzone e un giovane dell’accampamento gli dice che una ragazza è stata ferita alla fermata del 61. Colpito da un presentimento, la trova stesa a terra in un lago di sangue con gli occhi chiusi. Caricata su un’una auto di passaggio, viene trasportata prima al San Giovanni e poi alle Molinette, dove la sottopongono a una trasfusione di sangue e poi operata. Ma, dopo essersi ripresa per un breve momento, Adriana muore.

Il padre, distrutto anche perché i medici gli hanno detto che i soccorsi sono stati tardivi, narra ai giornalisti della sua attività che al momento si svolge in un baraccone collocato in piazza Vittorio Veneto, dove con una speciale lenza si pescano bottiglie di liquore. La sua famiglia, formata dalla moglie Velia, e dai figli Antonello, di 9 anni, e Armanda di 17, oltre ad Adriana, alloggia nella roulotte parcheggiata al parco Michelotti anche se hanno un recapito in via San Massimo a Torino. Adriana si era integrata nella vita nomade della famiglia: La Stampa pubblica una sua fotografia scattata qualche giorno prima, che la ritrae gioiosa e sorridente nel baraccone di Piazza Vittorio. È stata colpita a morte alla fermata dell’autobus mentre si avviava a una festa organizzata dalla sorella maggiore: passato il Carnevale, i baracconisti se ne vanno da Piazza Vittorio e dovevano trovarsi con un gruppo di amici per festeggiare la partenza e darsi appuntamento al prossimo anno.

La madre di Adriana è sotto choc. La figlia viene tumulata provvisoriamente a San Mauro, nella tomba di un amico di famiglia. L’idea di dare ad Adriana una tomba decorosa sarà ricordata dal padre alcuni anni più avanti.

Intanto fervono gli accertamenti per comprendere chi abbia sparato il colpo che di rimbalzo ha colpito la ragazza. L’agente Augusto De Nadai dice di aver sparato un colpo diretto alle gomme dell’auto in fuga quando questa ha compiuto la sterzata a sinistra e lui e il collega Boron hanno visto fiammate provenienti da questa, indice di colpi sparati dai ladri inseguiti. I sopralluoghi condotti sul luogo da Squadra Mobile e Scientifica permettono il ritrovamento di tre bossoli di pistola. Uno è quello dell’arma di De Nadai, gli altri dovrebbero provenire dalla pistola dei ladri.

È percepibile il desiderio di attribuire l’uccisione di Adriana a colpi sparati dai fuggitivi. Forse non a caso si cita la crescente aggressività dei ladri d’auto: due mesi prima, l’agente Boron è stato costretto a sparare per non essere sopraffatto da alcuni di questi. Le testimonianze raccolte, anche nei giorni seguenti, appaiono confuse e contraddittorie e non chiariscono la dinamica della sparatoria, né il numero dei colpi. All’accampamento, un baracconista fa notare che l’auto abbandonata dai rapinatori aveva i vetri chiusi, quindi è poco probabile che li abbiano abbassati per sparare e poi abbiano trovato il tempo di sollevarli di nuovo.

La tragica morte di Adriana riporta in auge antiche polemiche sollevate in occasione dalla caccia all’uomo scatenata per l’arresto di un componente della banda Cavallero nel centro di Milano il 25 settembre del 1967: la sparatoria ha provocato quattro morti, tra cui un ragazzo di 17 anni. «Quella notte la posta in gioco era altissima. Lo era altrettanto ieri sera?» si chiede un cronista. Il ladro d’auto, se catturato, trascorre qualche settimana in carcere, poi esce e ruba altre auto.

Si torna a parlare del caso su La Stampa del 17 giugno 1970 quando viene annunciato che la perizia sul proiettile 7,65 estratto dal corpo di Adriana lo ha identificato come sparato dall’arma dell’agente De Nadai. L’ha eseguita l’ingegner Festa utilizzando un microscopio comparatore fornito dal Politecnico di Torino. La ragazza è stata colpita dal proiettile rimbalzato sull’asfalto.

Il 5 ottobre 1972 viene aperto il processo a carico di Augusto De Nadai, accusato di omicidio colposo, e nel frattempo promosso appuntato e trasferito alla Squadra Mobile, dove si è dimostrato un valido elemento.

Il dibattimento non chiarisce la dinamica del tragico fatto e, dopo una sola udienza, il Tribunale rimanda gli atti al Pubblico Ministero per una nuova istruttoria. Gli agguerriti avvocati della famiglia Volpi negano recisamente che i ladri abbiano sparato. Non attribuiscono importanza agli altri due bossoli reperiti sul luogo, la cui presenza potrebbe anche sollevare l’inquietante ipotesi che siano stati “aggiunti” alla scena del crimine. Ipotesi preoccupante, che gli avvocati dei Volpi non avvalorano e sulla quale i cronisti non insistono.

Lunedì 13 gennaio 1975 si svolge un nuovo processo. Il Pubblico Ministero chiede una condanna per omicidio colposo a 10 mesi di reclusione, con i benefici di legge. De Nadai viene condannato a quattro mesi, con una provvisionale di 2 milioni per la famiglia Volpi.

Dopo cinque anni, si è faticosamente giunti a una sentenza. De Nadai ricorre in appello. La modesta provvisionale di 2 milioni viene a creare una situazione paradossale perché il Ministero dell’Interno che deve erogarla applica il detto “A pagare e morire, c’è sempre tempo”. Pertanto, il 27 luglio, gli agguerriti avvocati dei Volpi chiedono e ottengono il pignoramento dei modesti mobili dell’alloggio di De Nadai: «Così lo Stato tutela i suoi dipendenti», commenta amaramente il cronista.

Sul processo incombe anche il rischio della prescrizione: lo ricorda la giornalista Daniela Daniele con l’articolo più critico nei confronti delle forze dell’ordine e della magistratura (Stampa Sera, 23 luglio 1976). Il 30 ottobre 1976, in Appello viene confermata la condanna di De Nadai a 4 mesi di reclusione. Si apprende anche che i 2 milioni sono stati finalmente pagati ai Volpi, ma applicando una tassa maggiorata del 10%. Giustizia è stata veramente fatta?

Dietro la targa sbiadita di corso Casale troviamo quindi una grande sofferenza: quella della famiglia Volpi, certamente, ma anche quella dell’agente De Nadai che ha duramente pagato l’infelice decisione di sparare nella concitazione dell’inseguimento. Sofferenza aggravata dal comportamento dello Stato nei confronti delle vittime.

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Articolo pubblicato il 03/08/2023