Liberalismo in Italia
Francesco Crispi (Ribera, Agrigento, 1818-Napoli, 1901).

Lenta nascita, lunga agonia (di Aldo A. Mola)

Oggi in Spagna, domani in Italia…?

Il lemma “Liberale” nacque come sostantivo in Spagna nel 1820 per indicare i fautori della costituzione approvata dalle Cortes a Cadice nel 1812 e revocata da Fernando VII alla sua restaurazione sul trono dopo la parentesi franco-napoleonica (1814). Contrapposti ai “reazionari”, che per tutelare i propri interessi si facevano scudo di re “assolutisti” e imbelli, nel 1823 i liberali spagnoli, disseminati in una congerie di “società”, furono militarmente sconfitti e annientati. I più fortunati andarono in esilio o si rifugiarono in numerose “sette” cospiranti per il ripristino delle libertà costituzionali, combattute da organizzazioni liberticide dai nomi fantasiosi, ispirate dal clero cattolico. Nel triennio liberale (1820-1823) la Spagna fu un laboratorio europeo. Nel frattempo Madrid perse il dominio sull'America Latina, dal Messico alla Terra del Fuoco. Ripiegata su se stesa (come accadde al confinante Portogallo), la Spagna divenne teatro di guerre tra i seguaci di opposti pretendenti al trono e “campo di Marte” per costituzionali di altri Stati. Costretti all'esilio dal fallimento di cospirazioni, moti e insurrezioni per il ripristino delle libertà conculcate dalla Restaurazione essi furono vittime della Santa Alleanza tra gli Stati vincitori su Napoleone, decisi a reprimere le “società segrete”, a cominciare dalle più note , Massoneria e Carboneria, scomunicate da papi.

Da sostantivo “Liberale” divenne “aggettivo”: senza legame con un Paese specifico. I “liberali” non potevano essere “conservatori”, perché volevano “cambiare”, sia pure con la moderazione razionale e pragmatica di Cartesio, Locke, Kant. Il loro caposaldo fu il superamento della “tolleranza” (concessione unilaterale di un diritto naturale, quale la libertà di professare una religione rivelata o di non credere in alcun “Libro”) e il riconoscimento dell’uguaglianza nelle leggi senza alcuna discriminazione. In conflitto dichiarato con la Restaurazione, il liberalismo ottocentesco non inventò nulla: aveva alle spalle la Dichiarazione di indipendenza da Londra delle colonie della Nuova Inghilterra e quella dei Diritti dell'uomo e del cittadino, “manifesto” della Rivoluzione francese.

Niente affatto “conservatori” i “liberali” furono “progressisti” anche quando erano moderati, diffidenti nei confronti di chi si erge a duce della “volontà della nazione” predicata da Jean-Jacques Rousseau: porta spalancata verso una nuova micidiale tirannide di minoranze organizzate. All'opposto, i liberali rivendicarono i “diritti inalienabili” della Persona, libera di fare ciò che non è vietato dalle leggi, nella certezza che l'uomo arriva da sé a distinguere tra il bene e il male, non perché gli viene imposto o insegnato con appositi catechismi ma per ascesi razionale personale (neopelagianesimo).

 

Albori del liberalismo in Italia

In Italia il liberalismo attecchì a metà Settecento con gli Illuministi, pionieri di una cultura europea che andò oltre gli steccati della Controriforma cattolica e la fiducia in “prìncipi illuminati” rivelatisi inclini a giurare e a spergiurare. Venne soffocato dalla reazione al Terrore giacobino, terza tragica fase della Rivoluzione del 1789. Per rianimarsi accettò di identificarsi con Napoleone Bonaparte, dapprima esaltato come Liberatore, poi condannato quale Tiranno e infine rimpianto anche da chi lo aveva odiato.

La storia del liberalismo italiano non si riduce a quella di un partito, né quindi a un Partito liberale italiano. Per definizione la libertà non è “di parte”. Nessuno ne ha il monopolio. La libertà è universale; i partiti, sempre per definizione, dividono. In Italia i “liberali” tutto poterono essere tranne che “conservatori”. Tali erano i loro nemici, fermi al primato “del trono e dell'altare”. La lunga vicissitudine del liberalismo “in Italia” (che non significa “italiano”) merita un sia pure rapido “ripasso”.

Dopo l'irrilevante tentativo del 1900, “annus horribilis”, il primo Partito liberale italiano venne fondato nell'ottobre 1922, pochi giorni prima dell'insediamento del governo presieduto da Benito Mussolini. Il liberalismo era ormai morto o sul viale del tramonto proprio quando si organizzò in partito politico? I liberali ebbero rappresentanti nel governo di coalizione costituzionale a prevalenza fascista. A conferma della loro frammentazione anche a cospetto del crepuscolo della monarchia rappresentativa e del regime parlamentare, rimasero divisi tra una destra capitanata da Antonio Salandra, i giolittiani (dichiaratamente “progressisti”) e “democratici”. Dal 1924 anche Giolitti si dichiarò liberal-democratico o semplicemente democratico. Questo aggettivo non rimase però monopolio dei liberali. Fu poi la divisa di Giovanni Amendola, massone e teosofo, promotore dell'Unione democratica formata da ex radicali, socialriformisti e liberali di varia ascrizione accomunati dalla perdurante opzione monarchica nella convinzione che prima o poi Vittorio Emanuele III avrebbe eliminato il nascente regime di partito unico.

 

I “Blocchi nazionali”: lampada del Fascio littorio

La tardiva fondazione del Partito liberale italiano nel 1922 non conseguì affatto lo scopo di assicurare una “casa comune” alle varie correnti politico-culturali che si riconoscevano nel Risorgimento e nella costituzione del regno d'Italia (14/17 marzo 1861), premessa logico-cronologica del lungo processo che in sessant'anni aveva condotto a far quasi coincidere i confini dello Stato con quelli assegnati all’Italia dai geografi: dal crinale alpino occidentale (esclusa la contea di Nizza) al Carnaro. Nondimeno essa fu l'ultimo tentativo di superare la frantumazione dei “liberali” evidenziata e anzi esasperata nelle elezioni politiche del maggio 1921, volute da Giovanni Giolitti, per la quinta volta presidente del Consiglio, nell'illusione che i suoi notevoli successi in politica estera e interna avrebbero assicurato un significativo aumento del consenso ai candidati liberal-democratici e ridimensionato il numero dei seggi ottenuti nel novembre 1919 dai socialisti e dal cattolico partito popolare.

Alfredo Frassati, proprietario-direttore del quotidiano torinese “La Stampa” e ambasciatore a Berlino, e altri notabili liberali avevano cercato invano di dissuadere Giolitti dall'azzardo di nuove elezioni a legge elettorale immutata, che prevedeva il riparto dei seggi in proporzione al numero dei voti ottenuti dai partiti. Giolitti motivò il ricorso alle urne con la necessità di assicurare rappresentanza alla Camera ai cittadini delle terre annesse e il tacito calcolo di presentare al giudizio degli elettori il trattato italo-jugoslavo sul confine orientale, complessivamente vantaggioso per l'Italia; l'abolizione del prezzo politico del pane, che dissanguava l'erario senza beneficio per i poveri; il risanamento del debito pubblico; il rinnovo dei consigli comunali e provinciali; il superamento senza conseguenze traumatiche della “occupazione delle fabbriche” nel settembre 1920, preludio alla rivoluzione ispirata dall'“Ordine Nuovo” (ala estrema del partito socialista ancor oggi celebrata benché liberticida), e rifiuto dell'impiego dell'esercito sollecitato dagli industriali in funzione repressiva e di difesa di classe.

Nelle elezioni del maggio 1921 Giolitti incoraggiò la formazione di “blocchi nazionali” sul modello di quelli allestiti nell'autunno 1920 per il rinnovo dei consigli comunali e provinciali: “cartelli” nei quali confluirono esponenti dei mussoliniani fasci di combattimento, abbozzati a Milano nel marzo 1919 con programma più approssimativo che provvisorio, nazionalisti, “combattenti”, agrari, “democratici” (ex socialriformisti, e radicali) e varie correnti “liberali”, i cui contrassegni vennero farraginosamente accostati per captare un ventaglio di elettori. Poiché i “blocchi” risultarono diversi secondo le circoscrizioni, l'unico contrassegno presente a livello nazionale fu il fascio littorio, emblema del movimento fascista, che ottenne 35 seggi, contro i 12 dei nazionalisti: una rappresentanza esigua e composita ma tenuta insieme da obiettivi politici (anzitutto la lotta contro il “parlamentarismo”), para-militari (l'offensiva squadristica contro i “rossi”, i sindacati e i giornali “di sinistra”) e tattici: incunearsi tra i cattolici conservatori e il partito popolare, tra i liberali sinceramente monarchici e quelli democratici, aperti anche al cambio della forma dello Stato, e tra le diverse anime dei socialisti. Questi ultimi erano divisi tra utopie rivoluzionarie e compromesso con il regime statutario che non aveva impedito la loro crescita dai pochi seggi di fine Ottocento ai 150 del 1921, sommando socialisti e deputati del neonato Partito comunista d'Italia, che si riconoscevano nei “venti punti” della liberticida e sanguinaria Terza Internazionale fondata da Lenin dopo il tracollo dell'impero russo e dei governi di transizione dallo zarismo alla “rivoluzione d'ottobre” (anche essa oggetto di perdurante devozione).

In sintesi, l'esito delle elezioni politiche del maggio 1921 deluse le attese.  Quando un esponente dei democratici sociali (una delle tante varianti dell'area liberale, con forte presenza di massoni) votò contro la politica estera del governo, Giolitti si dimise per non farsi logorare. Contava di varare un governo dalla forte base parlamentare: “liberali”, popolari e socialisti, depurati dagli “estremisti”, fiduciosi nella collaborazione tra la nuova Internazionale e la seconda o quella detta “due e mezzo”.

Ivanoe Bonomi, già ministro della Guerra nel governo Giolitti, incaricato dal re di formare il nuovo esecutivo, era la sintesi delle insuperate difficoltà incontrate nella costituzione di partiti liberal-democratici durevoli, di assetto effettivamente nazionale e capaci di esprimere una dirigenza politico-amministrativa radicata nell'“opinione” del Paese. Militante nel partito socialista italiano, esponente della corrente riformista, dopo lungo contrasto con i massimalisti e a cospetto della mancata mediazione dei “centristi”, come Filippo Turati e Claudio Treves, ne era stato espulso nel Congresso (Reggio Emilia, 1912) e, con Leonida Bissolati e Angiolo Cabrini, aveva dato vita al partito social-riformista. Nel maggio 2021 Bonomi fu rieletto deputato nel collegio di Mantova-Cremona in una lista comprendente “democratici” e fascisti come Roberto Farinacci. Da ministro della Guerra e da presidente del Consiglio gli risultò difficile, se non impossibile, assumere una linea nettamente avversa ai fascisti, costituiti in partito nel loro primo congresso nazionale (Roma, inizio novembre 1921).

 

Fortune e sfortune del liberalismo nell'Italia di metà Ottocento

L'assenza in Italia di un partito “liberale” o “dei liberali” arrivava da lontano. Con le regie patenti del novembre 1847 Carlo Alberto di Savoia-Carignano rese elettivi i componenti dei consigli comunali, provinciali e divisionali del regno di Sardegna. Con lo Statuto del 4 marzo 1848 introdusse l'elezione della Camera dei deputati. “scelti dai Collegi elettorali conformemente alla legge”, questi rappresentavano “la Nazione”, non essendo vincolati da “mandato imperativo” degli elettori” né, quindi, da “partiti”. Le tre prime legislature, condizionate dalla guerra contro l'impero d'Austria, ebbero breve durata. La legge elettorale, impostata da una commissione di politici lungimiranti (Cesare Balbo, Camillo Cavour e Luigi Francesco des Ambrois), subordinò il diritto di voto al censo e ai titoli di studio. Con il “proclama di Moncalieri” del 20 novembre 1849, scritto dal presidente del Consiglio Massimo Tapparelli d'Azeglio, Vittorio Emanuele II, succeduto al padre, abdicato al trono dopo la sconfitta di Novara e morto morto esule a Oporto, sollecitò gli elettori a votare deputati inclini ad approvare il pesante trattato di pace con l'Austria per ripristinare la libertà d'azione del regno.

Nei tre anni seguenti maturò il connubio di “centro-sinistro” tra Cavour e i seguaci di Urbano Rattazzi per assicurare al governo una maggioranza favorevole alle leggi che sin dal 1849 attuavano l'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi, anche con l'abolizione dei privilegi ecclesiastici promossa dal ministro Giuseppe Siccardi. Lo scontro tra governo e clero raggiunse l'apice con l'arresto dell'arcivescovo di Torino, Luigi Franzoni, tradotto nella fortezza di Fenestrelle e condannato all'esilio. Ispirati dalle encicliche pontificie di condanna del liberalismo e guidati dai vescovi e dal clero, i deputati che si riconobbero all'obbedienza di Pio IX, restaurato sul trono dopo la “debellatio” della Repubblica romana del 1849, si schierarono all'opposizione contro il governo presieduto da Cavour e ne determinarono le dimissioni. Ma il re si rassegnò a restituirgli l'incarico.

Nel 1857 Cavour non esitò a manipolare le elezioni a favore del governo e a far dichiarare decaduti dalla carica quattro canonici eletti deputati, non perché il loro voto risultasse determinante in Aula ma per rendere invalicabile il solco tra i deputati fedeli al governo e i “clericali”, accusati di essere nemici dello Stato. Tra i maggiorenti cattolici, il conte Clemente Solaro della Margarita con il “Memorandum storico politico” sfidò Cavour a introdurre il suffragio universale maschile, nella certezza della straripante vittoria.

Il regno d'Italia nacque dalla sequenza “rivoluzioni” (non cruente) promosse e capitanate da esigue minoranze, elezione di assemblee, richiesta di annessione al regno di Sardegna e plebisciti confermativi: dai Ducati padani al Granducato di Toscana, dalle Legazioni pontificie alla Sicilia e province napoletane. Il regno conservò immutata la legge elettorale, garanzia di continuità del progetto che venne completato nel 1866 con l'annessione del Veneto euganeo e nel 1870 con l'irruzione dell'Esercito italiano in Roma e l'annessione del Lazio approvata da plebiscito confermativo.

Malgrado le perorazioni di autorevoli ecclesiastici (come l'abate di Montecassino e il teologo Vallauri), favorevoli all'immediato riconoscimento del regno da parte del papa, Pio IX ribadì la scomunica maggiore del re, dei ministri, dei parlamentari. Caso unico nel mondo di allora, lo “Stato” risultò “in peccato grave”. La pronuncia della Sacra Penitenzieria a favore del precetto “né eletti, né elettori” rese netta la separazione tra governo e società civile. Essa riguardò però la “politica”, non le amministrazioni locali, nel cui ambito i cattolici rimasero presenti e spesso prevalenti.

Per l'eterogenesi dei fini, la scomunica della dirigenza politica rese superflua l'organizzazione dei “partiti”. Pur distinti in correnti, tutti i parlamentari, erano liberali. Dal 1867 esponenti della sinistra democratica (Agostino Depretis, Michele Coppino...) furono ministri di governi presieduti da uomini di fiducia del re. Il “Terzo Partito” guidato da Antonio Mordini e Angelo Bargoni (massoni) propiziò le convergenze poi evidenziate dai governi presieduti da Depretis, incline a intese con i parlamentari vicini a Quintino Sella, a suo tempo principale fautore dell'irruzione armata in Roma, anche per scongiurare ogni rischio di ritorno alla repubblica, al potere in Francia dopo la vittoria dei prussiani su Napoleone III a Sedan.

La “scomunica” ebbe due altri effetti: tutte le “anime” del liberalismo (repubblicani compresi) fecero causa comune a difesa dello Stato. A loro volta Vittorio Emanuele II e Umberto I non ebbero alternative. Perciò riconobbero lealmente il ruolo delle Camere elette con suffragio allargato dal 1882 e non interferirono nel loro interno, in linea con lo Statuto ispirato dal principio “il re regna, non governa”.

I decenni seguenti furono scanditi da leggi manifestamente anticlericali e di colloqui riservatissimi tra “governo” ed ecclesiastici di rango per propiziare intese elettorali a sostegno delle Istituzioni. Ogni minimo segnale conciliatorista incappò nella denuncia di torbide intese sottobanco ai danni dello Stato e della Chiesa, a seconda dei punti di vista. Fu l'Italia di Depretis e di Francesco Crispi, allarmata dall'avanzata di rivoluzionari e di anarchici. I governi Crispi, solitamente ricordati per la politica coloniale e la sconfitta di Adua (1 marzo 1896), furono invero tra i più innovatori nella storia del Paese. Il codice penale approvato nel 1889 abolì la pena di morte: un primato civile mondiale dell'Italia scomunicata.

La svolta venne con il 29 luglio 1900 quando l'anarchico Gaetano Bresci assassinò a Monza Umberto I. Molti cattolici compresero che, malgrado le encicliche di Pio IX e di Leone XIII contro la massoneria, bollata come “sinagoga di Satana”, stare all'opposizione contro lo Stato voleva dire favorire il caos. Da sponde opposte i “moderati” si misero in cammino. Ma, come poi sentenziò Giolitti, Stato e Chiesa erano e dovevano rimanere due “parallele”. Così a inizio Novecento naufragò la prima “democrazia cristiana”, mentre il liberalismo non seppe darsi un'organizzazione: rimase un caleidoscopio di circoli, unioni, gruppi, clientele....

Finì male, al termine di una vicenda segmentata, che merita apposita trattazione.

Aldo A. Mola

Francesco Crispi (Ribera, Agrigento, 1818-Napoli, 1901).

Uno dei volti più polivalenti del liberalismo in Italia. Né mazziniano, né “garibaldino” benché “secondo dei Mille” nell'impresa del 1860, nel 1864 dichiarò: “La monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”. Rimase “crispino”. Massone e grado 33° del Rito scozzese antico e accettato, presidente della Camera dei deputati, ministro dell'Interno e due volte presidente del Consiglio rimase a sé stante. Giurisperito di talento, ebbe alto senso dello Stato. Fu Giolitti, suo strenuo avversario politico, a proporre l'erezione del monumento nazionale al quale aveva diritto per il ruolo svolto nella storia della Nuova Italia.

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Articolo pubblicato il 30/07/2023