La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

«La siciliana», strozzata in un prato alla Pellerina

Alle 8 del mattino del 27 gennaio 1976 un giovane operaio che va al lavoro in bicicletta percorrendo il corso Lecce, mentre è fermo al semaforo all’incrocio con corso Appio Claudio, guarda distratto verso la desolata radura dei prati della Pellerina e scorge sull’erba bianca di brina, costellata di rifiuti, un mucchio di stracci rossi e verdi. Si avvicina per vedere meglio, arretra inorridito quando scorge un cadavere di donna, seminuda e insanguinata. Terrorizzato, riprende la bicicletta e raggiunge una vicina cabina telefonica per chiamare la Polizia.

La location di questo delitto è l’attuale zona del Parco della Pellerina. Nel 1976, l’area lungo corso Lecce, costellata da tralicci dell’alta tensione, appare squallida. Lungo corso Appio Claudio è attivo uno dei mercati della prostituzione, problema che da anni si fa pesantemente sentire in città. Ogni sera i clienti superano in auto il marciapiede lungo corso Lecce e si inoltrano senza difficoltà sul terreno pianeggiante dove, qua e là si trovano rudimentali giacigli allestiti con scatole di cartone. Su uno di questi, è stato trovato il cadavere. Il primo problema è la sua identificazione, perché manca la borsetta. Si ipotizza che si tratti di una prostituta e, alle 9:30, viene riconosciuta da un maresciallo della Buon Costume: è Gaetana Di Francesco, detta «La siciliana», di 46 anni.

Impressionante la descrizione delle mortali lesioni. È distesa sulla schiena, con capelli ramati corti, del cappotto di cammello, spiegazzato sotto il corpo, si vede soltanto il collo di agnellone. Indossa una maglietta rossa e una gonna verde, arrotolata sopra l’ombelico. Calze di nailon e calze di lana sono arrotolate sotto il ginocchio, sopra stivaletti neri. A un passo, un paio di slip bianchi a righe rosse.

Secondo il medico legale la morte risale a circa sette, otto ore dal ritrovamento. Sul collo ha i segni delle dita dell’assassino che hanno fatto penetrare nella pelle una catenina d’oro, lasciando una traccia rossa che inizialmente fa pensare a uno strangolamento con un laccio o un filo di ferro. Le mani sono legate dietro la schiena con un lungo brandello di calza di nailon, strappato dalla gamba sinistra. All’anulare della sinistra, una fede d’oro.

La donna si è difesa con forza. Le sue unghie laccate di rosso si sono spezzate e sotto vi sono brandelli di pelle. Graffiature si riscontrano sul dorso delle mani della vittima, ricondotte agli sforzi dell’assassino per togliersele di dosso. Si spera che l’assassino sia rimasto graffiato e possa essere così identificato.

Secondo uno degli inquirenti, c’è da supporre che abbiano abusato di lei dopo averla uccisa, aspetto che non sarà però adeguatamente chiarito dalle cronache giornalistiche.

Probabilmente la borsetta è stata portata via per ritardare l’identificazione. Non si tratterebbe di una rapina, visto che l’assassino, o gli assassini, non hanno preso l’anello e la collana d’oro dal collo. In un primo tempo pare sia da scartare un regolamento di conti nel mondo della prostituzione e si congettura un tipico omicidio del cliente in preda a raptus.

Il 28 gennaio viene eseguita l’autopsia: una fine orrenda. Prima le hanno fratturato il naso, graffiato il volto, poi dopo un tentativo di strangolarla, l’hanno soffocata. La morte è avvenuta intorno alla mezzanotte, ma l’ora è difficile da stabilire, a causa del gelo che ha irrigidito e alterato il corpo. Non si hanno ulteriori informazioni sul tentativo di violenza post mortale, forse inesistente oppure censurato dalle cronache.

Alle scarse notizie autoptiche, si contrappongono numerose - e talora contrastanti - informazioni sulla biografia della vittima che, purtroppo, non fornisce informazioni utili.

Gaetana Di Francesco, nata a San Cataldo di Caltanissetta, vi ha vissuto col marito che, nel 1963, è emigrato in Germania in cerca di lavoro. Gaetana ha poi convissuto a Caltanissetta con Salvatore Scalzo, ma dopo sette anni lo ha abbandonato per trasferirsi a Torino, in via Santa Chiara 60, e ha iniziato a prostituirsi. Scalzo voleva riprendere la relazione, ma lei ha sempre rifiutato di smettere di prostituirsi. Nel pomeriggio del 29 giugno 1970, Scalzo è arrivato ad accoltellarla in Lungodora Voghera. Gravemente ferita all’addome è stata soccorsa da un passante, portata al Maria Adelaide e poi operata alle Molinette. Gaetana ha avuto due figli maschi - più probabilmente dal convivente Scalzo - che inizialmente ha portato a Torino, in seguito messi in collegio in Sicilia e sui quali, ai primi di gennaio, ha perso la patria potestà.

La vittima, ben nota in Questura, è stata accusata in passato di molti reati, dal furto con scasso agli atti osceni in luogo pubblico. È stata incriminata per favoreggiamento di protettori ed è stata anche in carcere. Ormai indurita e calata nella mentalità malavitosa, non avrebbe mai fatto uno sgarbo chiacchierando troppo o impicciandosi in affari che non la riguardavano.

Negli ultimi tempi i protettori avevano deciso di trasferirla in corso Lecce, all’altezza di corso Appio Claudio. Attuava frettolosi convegni in auto, nei viottoli bui dei prati della Pellerina, oppure sulla dura brughiera che corre lungo la strada con compensi sulle 5 mila lire. Così sono ricostruite le sue ultime ore di vita: lunedì sera va al “lavoro” alle 20:00. Fa freddo, per scaldarsi accende un falò, passeggia su e giù nella zona di marciapiede affidatole. Le colleghe, in attesa verso corso Potenza, in mezz’ora la notano salire su tre, quattro auto. Verso mezzanotte, presunta ora dell’uccisione, il lavoro diventa intenso e nessuna le presta attenzione. Non la vedono salire sulla macchina dell’assassino. Sul luogo del delitto, sul terreno gelato non sono rimaste impronte, neppure quelle dei pneumatici.

Che siano indagini difficili è più volte affermato dagli stessi inquirenti. Il mondo della prostituzione è impenetrabile, non ci sono indizi e testimoni. Gli inquirenti, inizialmente, non riescono a valutare se l’uccisione efferata di Gaetana sia opera del racket della prostituzione o di un sadico. Non è neppure da scartare l’ipotesi che l’omicidio sia avvenuto altrove e che gli assassini abbiano poi, col favore delle tenebre, allestito la macabra messa in scena per sviare le indagini.

L’ultimo amico della vittima fa spendere pagine e inchiostro senza costrutto. È Salvatore R***, un marcantonio di 42 anni, da tempo ricercato perché deve ancora scontare un anno e otto mesi per favoreggiamento della prostituzione di Gaetana. Irreperibile, continua a frequentare le consuete amicizie, protetto dall’omertà. Aveva la cautela di cambiare spesso domicilio. Da qualche mese aveva affittato un alloggetto in corso Regina Margherita 197, dove gli armadi contengono i vestiti di Gaetana. Lei usciva tutte le sere intorno alle 20:00, lui si faceva vedere di rado, parcheggiava nel cortile auto sempre differenti, ma sempre nuove fiammanti, saliva nell’appartamento, e, dopo qualche ora, se ne andava.

La Questura vorrebbe interrogarlo e, ironia della sorte, proprio nella sera del 28 gennaio, Salvatore R***, è arrestato da un brigadiere del Nucleo investigativo dei Carabinieri.

Moralmente riprovevole, perché non ha una parola di pietà o di commozione per Gaetana, sostiene di lavorare onestamente come muratore, senza spiegare dove prenda i soldi per le auto di grossa cilindrata, i vestiti eleganti e i night, Ma, secondo i Carabinieri del Nucleo investigativo, R*** non aveva motivo di uccidere Gaetana: significava perdere un reddito scarso, ma sempre ottenuto senza fatica.

Intanto le colleghe della morta vengono sentite in Questura, per far emergere qualche elemento che indirizzi le indagini. Non parlano di racket, ma insistono concordi sul suo carattere litigioso e poco cordiale: «Legare con lei era un’impresa, aveva sempre paura che le rubassimo i clienti». Spesso gli incontri di Gaetana terminavano in litigi. Non sarebbero stupite che un cliente, persa la pazienza, le abbia voluto dare una lezione, calcando troppo la mano. Qualcuna dice: «Beh, potrebbe essere stato un maniaco. Di tipi anormali in circolazione ce ne sono parecchi, strano però che da solo abbia potuto ridurre così Gaetana».

L’aggressività aveva portato Gaetana a trascurare il codice di cautela in uso nell’ambiente. Più di dieci anni prima, dopo alcuni atroci delitti, le prostitute si erano organizzate per proteggersi. Stavano sempre a coppie: quando una si allontanava con un cliente, l’altra prendeva nota del numero di targa, dopo aver controllato che ci fossero le chiavi nel cruscotto e non si trattasse di una vettura rubata. Oggi questo sistema è ancora applicato, ma saltuariamente, e Gaetana non ne voleva sapere.

Vendetta del racket o raptus di un maniaco, le due ipotesi continuano a rimbalzare nelle cronache. Va detto che nel 1976 in campo investigativo le idee sui serial killer sono ancora piuttosto vaghe e il termine maniaco evoca una nebulosa figura dai contorni indefiniti e indefinibili.

Non è stato nemmeno accertato con sicurezza se sia stata ammazzata nello spiazzo o altrove. Attorno al cadavere non sono stati trovati segni di lotta, forse Gaetana è stata seviziata e strangolata su un’auto e poi deposta sull’erba. Nemmeno il cappotto, sul quale era riverso il corpo, mostra segni di una colluttazione. Il particolare delle mani legate dietro la schiena si adatta sia all’ipotesi di una punizione del racket, sia a quella di un sadico.

La Stampa del 30 gennaio riferisce l’ipotesi che praticamente chiude le indagini. Gaetana sarebbe stata uccisa dal racket in un alloggio o nell’abitacolo di una vettura e il suo cadavere scaricato sull’erba alla Pellerina. La macabra messa in scena è stata allestita per far credere che l’omicida fosse un cliente, per disorientare gli inquirenti.

Questa ricostruzione esclude l’ipotesi del cliente sadico, che avrebbe abbandonato il cadavere nel luogo dell’uccisione. Il movente dello spietato omicidio risiede nel temperamento ribelle di Gaetana, poco ubbidiente agli ordini del racket. Aveva più volte litigato con una collega per il posto da occupare sul marciapiede e si cerca questa “rivale”, della quale gli investigatori della Mobile, il dottor Rosa e il dottor Vinci (1), hanno una sommaria descrizione. Sono stati messi su questa pista da alcune confidenze, pur rendendosi conto che la ricerca non sarà facile.

Questa, in sintesi, è la conclusione emersa dopo un nuovo sopralluogo, compiuto nella sera del 29 gennaio nella radura della morte dagli investigatori, i quali spiegano: «Abbiamo ricontrollato tutto e ci siamo convinti una volta di più che la poveretta non è stata assassinata sul prato. Dalla strada si vede bene, chi avrebbe ucciso in una zona tanto esposta, con le compagne della vittima a non più di 50 metri in attesa di clienti? Per finire la Di Francesco dovevano essere almeno in due, probabilmente le hanno legato le mani dietro la schiena dopo averla soffocata. Il nodo è complesso, ci vuole tempo e tranquillità per farlo, impossibile serrarlo ai polsi di una persona che si dibatte».

Gli inquirenti ritengono assurdo ipotizzare il delitto di un maniaco: «No, se è stata assassinata in un luogo chiuso, il “cliente” l’avrebbe lasciata lì. Chi avrebbe potuto ricollegarlo con quella stanza? Il posto del delitto avrebbe invece fornito indicazioni sugli assassini: per questo hanno dovuto portarla via, lasciarla nel prato, sperando di simulare il delitto di un cliente impazzito». Per di più quella sera c’erano 7 gradi sottozero, chi sarebbe stato così insensato da chiedere alla donna un convegno sull’erba?

Una ricostruzione logica, forse fin troppo logica che, purtroppo, non troverà conferme nel tempo.

Questa indagine difficile si è esaurita nel volgere di pochi giorni, senza che gli inquirenti siano giunti a una ipotesi veramente convincente.

A questo punto, noi che abbiamo ricostruito la vicenda sulla base di cronache giornalistiche perché la documentazione giudiziaria non è ancora consultabile, ci troviamo in difficoltà nel valutare l’opera di funzionari esperti. Certo, col senno di poi, è facile pensare a un serial killer, ma non disponiamo di più precisi elementi in questo senso. Per contro, come già detto, all’epoca questa eventualità era considerata remota. Non è neppure da escludere, a nostro avviso, che si sia voluto fornire una ricostruzione per così dire “rassicurante” per la cittadinanza: per spiegare un delitto efferato, si è evocato l’oscuro mondo della criminalità organizzata, temibile certo, ma comunque razionale e preferibile all’ipotesi oscura e inquietante di un maniaco libero in città.

(3) Il dottor Sebastiano Vinci è stato ucciso dalla Brigate Rosse il 19 giugno 1981 al quartiere Primavalle di Roma.

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Articolo pubblicato il 18/08/2023