L'EDITORIALE DELLA DOMENICA DI CIVICO20NEWS - Francesco Rossa: Demografia: In Italia nel 2022 il record minimo di nascite, mentre il Canada globalizzato apre le porte all’invasione, ma solo il modello Québec si annuncia nel segno dell’Identità

Quale modello cui ispirarsi?

E’ tempo d bilanci e statistiche anche in campo demografico e il quadro italiano registra un nuovo record del minimo di nascite. Come rilevato dal rapporto annuale Istati nati nel 2022 sono stati 393mila, numero per la prima volta inferiore ai 400mila dall’Unità d’Italia.

Rispetto al 2008 (anno di picco relativo della natalità), le nascite dello scorso anno si sono ridotte di un terzo. I dati sulla fecondità indicano, negli ultimi tre anni, un calo del numero medio di figli per donna (da 1,27 a 1,24); l’età media al momento del parto per le donne residenti in Italia – stabile negli ultimi due anni a 32,4 anni – è aumentata di un anno dal 2010 al 2020. 

 

I numeri relativi al primo quadrimestre 2023 dimostrano come le nascite (118mila unità) continuano a diminuire: -1,1 per cento sul 2022, -10,7 per cento sul 2019. La prospettiva demografica per il 2050 stima una riduzione di circa 5 milioni dei residenti in Italia (arrivando a 54 milioni); da oggi al 2041 si prevede inoltre che la fascia di età fino ai 24 anni si ridurrà di circa 2,5 milioni di unità (-18,5 per cento). 

 

Il preoccupante quadro presente e futuro sulle nascite – ma anche sull’età media genitoriale, che per le madri si avvicina alla gravidanza geriatrica (35+ anni) – va di pari passo con l’aumento dell’età media della popolazione italiana, passata negli ultimi tre anni da 45,7 a 46,4 anni; al 1° gennaio 2023 si registrano 117,9 anziani di 65+ anni ogni 100 giovani di 15-34 anni (erano 70,5 al 1° gennaio 2002).

 

La sempre minore predisposizione delle nuove generazioni a fare figli non deriva solo da ragioni economiche, ma è altresì influenzata da aspetti socio-culturali.

La società è mutata e giustamente la donna vuole essere protagonista della propria affermazione professionale e di uno stile di vita differente, ma la crescita demografica, fondamentale per affrontare le sfide globali, deve tornare ad essere al centro di concrete azioni politiche e culturali, da parte del governo con provvedimenti incisivi, a favore delle lavoratrici madri, come già da tempo avviene in altri paesi europei.

 

Urge il varo di misure idonee per imprimere alle nuove generazioni quella lungimiranza che ha rappresentato, con le sue numerose famiglie, la vera ricchezza dell’Italia nel passato.

Se si continua a tergiversare, assecondando i nemici della famiglia, in seguito all’impennata migratoria, ci avvieremo rapidamente verso l’affermazione imponente del meticciato.

 E’ questa la scelta rinunciataria del governo e del sentire degli italiani?

 

Per allargare lo sguardo su quel che sta succedendo nel mondo, ci soffermiamo sul Canada, unico tra i paesi del G7, a non conoscere l’inverno demografico, anzi.

La popolazione cresce a ritmi incredibilmente sostenuti: lo scorso 16 giugno, l’ente nazionale di statistica ha comunicato ufficialmente il raggiungimento di quota 40 milioni.

Difficilmente, però, il nuovo canadese avrà le fattezze tipiche dei suoi connazionali e cioè occhi azzurri e capelli biondi o castani, quasi certamente sarà un bimbo o una bimba dai tratti asiatici, latino americani o magari africani. Del resto, come evidenziato dal censimento del 2021, sotto la bandiera con la rossa foglia acero convivono, disseminate tra i due oceani, 450 etnie diverse e cento religioni. 

Il record è Toronto: più della metà degli abitanti della capitale dell’Ontario è nato all’estero.  

Un trend che rispecchia pienamente le politiche d’accoglienza messe in campo dal governo ultra progressista di Justin Trudeau.

 L’obiettivo dichiarato dal ministro Sean Fraser è raggiungere così entro il 2043 quota 50 milioni e quota cento nel 2100. Un flusso considerato fondamentale per la salute dell’economia alla continua ricerca di mano d’opera.

 

Sullo sfondo si staglia un modello di società multiculturale, un sommarsi di comunità basato, come sostiene Trudeau, “non più su un’identità centrale ma su valori condivisi che rendano il Canada il primo vero Stato post-nazionale”.

 

Dalle regole escono però lodevoli eccezioni.

 

Vediamo cosa succede nel Québec. Si tratta della provincia più vasta e (dopo l’Ontario) più popolosa del Canada, un’isola linguistica tutt’oggi orgogliosamente francofona in un mare anglofono.

 

 Due mondi diversi e opposti. Per capire le differenze basta visitare Ville Québec, la capitale dell’antica “Nouvelle France”, fondata nel 1535 dal navigatore Jacques Cartier e poi ampliata nel 1608 da Samuel de Champlain. Una delle città più antiche dell’America settentrionale che mai ha dimenticato le sue origini galliche.

Un’identità plurisecolare che vive nel centro storico — come testimoniano i monumenti e le architetture.

 

“La Belle province”, perduta definitivamente dalla Francia nel 1763 al termine della sfortunata “guerra dei sette anni”, ha resistito nei secoli ad ogni tentativo di assimilazione al complesso anglofono e dal 1867 è stata quasi sempre governata da partiti autonomisti che hanno cercato di preservare, in equilibrio con il governo centrale, l’identità culturale e linguistica quebecchese.

 

Ma a partire dagli anni Sessanta del Novecento i rapporti con Ottawa, che iniziò a premere per l’introduzione del bilinguismo, iniziarono ad incrinarsi e quando il 24 luglio 1967 Charles de Gaulle, in visita ufficiale in Canada, apparve sul balcone del municipio della capitale per salutare, braccia aperte e pugni serrati, la folla entusiasta con un tonante “vive le Québec libre”, sognare l’indipendenza non fu più un tabù.

 

Ne seguirono nel 1980 e nel 1995 due referendum per la secessione (il secondo perso su un filo di lana: il no vinse per un risicatissimo 50,58%, 54.288 voti…) e un costante rafforzamento dei partiti identitari sino alla vittoria piena nel 2018 dei nazional conservatori della Coalition avenir Quèbec, ulteriormente confermata nel 2012 quando il CaQ ha conseguito la maggioranza assoluta (90 seggi su 125) riportando per la seconda volta il suo capo François Legault alla guida del governo regionale.

 

Un successo ben motivato.  Carta vincente dei nazionalisti è l’immigrazione regolare o meno, considerata il cavallo di troia dei “nemici” di Ottawa. In totale controtendenza agli auspici (e alle leggi) del liberal Trudeau, negli ultimi anni Québec ha fortemente ridotto gli arrivi ponendo — all’insegna “prendere meno ma prendersene cura” — una serie di paletti molto serrati con al centro la questione linguistica. 

 

Dallo scorso maggio il governo Legault ha posto come condizione irrinunciabile per l’accesso nel Quèbec la conoscenza corretta del francese, uno scoglio non da poco per i richiedenti provenienti dall’America meridionale o dall’Asia. Saranno inoltre facilitati gli studenti stranieri diplomati o laureati nei sistemi d’istruzione francofoni.

Per gli altri la porta è chiusa (nessun riconoscimento dei titoli scolastici conseguiti in altre lingue è previsto).

In più madame Christine Fréchett, ministro dell’Immigrazione, della Francesizzazione e dell’Integrazione, ha potenziato il piano educativo “Francisation Québec” dedicato ai nuovi arrivati (e gli anglofoni locali). Insomma,” se vuoi lavorare da noi devi parlare come noi…”

Ovviamente, le misure decise da Legault hanno riaperto le polemiche con Ottawa, ma nessuno ci bada.

 

Quale modello intenderà seguire l’Italia? Riflettiamo.

 

 

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Articolo pubblicato il 16/07/2023