Le certezze di Cassini, l'estenuante ricerca di Calvino
Perinaldo (Imperia), il borgo natio dell'astronomo Giovanni Domenico Cassini

Di Aldo A. Mola

Mirar le stelle per “governar” la terra

Giovanni o Giovan o Gian Domenico Cassini. Chi era costui? È celebre per chi usa contemplare le stelle, ma quasi sconosciuto ai tanti che camminano aggrottati a capo chino verso terra nel timore del peggio che verrà. A celebrarlo è stato venerdì 9 giugno 2023 il suo borgo natìo, Perinaldo, erto sulle Marittime, una “terra” sconfinata, la leggendaria Punta di Francia cara a Italo Calvino: un convegno diretto da Marzia Taruffi, presidente dell'Associazione “Esprit”, con interventi di Luca Fucini, console onorario di Francia e del vescovo di Ventimiglia-Sanremo, mons. Antonio Suatta, presenti e annuenti Mauro Mazza e Carlo Sburlati. “Cassinì” (come divenne in Francia, ove nel 1669 fu chiamato da Jean-Baptiste Colbert, l'onnipotente ministro del Re Sole) lì nacque l'8 giugno 1625. A 44 anni già godeva di fama europea tra gli astronomi. Vent'anni prima si era guadagnato anche quella, da lui poco gradita e all'epoca persino un po' pericolosa, di astrologo, perché aveva vaticinato la vittoria dei papalini contro il duca di Parma. Per otto anni allievo dei Gesuiti, studioso di matematica, fisica e astronomia, in realtà Cassini sapeva valutare le forze in campo in una visione europea, quali (già allora) erano tutti i conflitti diplomatici e armati, come la famosa “guerra del Casale” di cui scrisse Alessandro Manzoni nei “Promessi Sposi”. La sua previsione, dunque, non fu un azzardo ma un vaticinio ponderato. Gli valse nondimeno la chiamata a Bologna dal marchese Cornelio Malvasia, un piede dell'astronomia, l'altro nell'astrologia, la destra nella chimica la sinistra nell'alchimia.

L'esplorazione dell'universo non gli impedì di veder chiaro quel che avveniva in terra. Nominato sovrintendente delle acque nello Stato pontificio, Cassini si occupò di fortificazioni e della regolamentazione del corso del Po per prevenirne le rovinose piene. Basterebbe questo per capirne il genio e l'attualità. Ma i suoi orizzonti erano di gran lunga più vasti e più alti. Realizzò la sempre stupefacente meridiana nella Basilica di San Petronio a Bologna: 66 metri e 8 centimetri, seicentomillesima parte della circonferenza terrestre. Genio versatile, come già Leonardo da Vinci, spaziò nei campi più disparati sino ai primi saggi di trasfusione del sangue.

A Parigi dal 1671 abitò nell'Osservatorio astronomico di nuova costruzione, via via fornito di tutti gli strumenti d'avanguardia, con grande risparmio di tempo e, ciò che a volte conta, con una remunerazione da far invidia a tutti gli scienziati dell'epoca. Valendosi della collaborazione della consorte, Geneviève Delaistre, e di ottimi studiosi individuati anche al di fuori della Francia, in pochi anni mise all'attivo scoperte sensazionali, a cominciare dai quattro satelliti di Saturno e intuì la natura degli anelli di quell'inquietante pianeta: un pulviscolo molecolare. Gli accurati studi sui moti lunari e sull'attrazione tra la Terra e la Luna, come fra i pianeti del sistema solare e i loro satelliti gli assicurò fama imperitura. Non bastasse, arrivò a osservare i satelliti di Giove. Infine poco a poco gli occhi si appannarono. Divenne cieco. Un destino fatale, Come quello del massimo compositore, Beethoven, che finì sordo. Il suo nome, che dice poco a tanti bagnanti e bagnini odierni italici vaganti nel suo piccolo immenso “natio borgo selvaggio”, indica un cratere su Marte, una regione della superficie di Giapeto, il satellite di Saturno da lui scoperto nel 1671, e un vasto cratere sulla superficie della Luna. Gli è stata intitolata la prima sonda spaziale lanciata all'esplorazione di Saturno e di Titano.

V'era e v'è motivo, insomma, di ricordarlo proprio dove ebbe la luce quasi quattro secoli orsono. Capostipite di una dinastia di astronomi chiusa con Cassini IV, direttore dell'Osservatorio di Parigi sino alla Rivoluzione francese, Giovan Domenico rimane legato a Perinaldo, il cui osservatorio astronomico ne porta il nome. Lì, tra sole, venti e nubi passeggere, si percepisce l'eco dei suoi Dialoghi con i potenti dell'Europa del tempo: i papi, che lo protessero (non entrò mai in rotta di collisione con i “dogmi” dell'epoca), Cristina di Svezia, che lo avrebbe voluto a Stoccolma, e tanti altri di cui si valse per procacciarsi i migliori strumenti scientifici di cui ha bisogno lo scienziato lungimirante, che fa al prossimo quello che vorrebbe fosse fatto a lui: vivere in santa pace.

Nel 1860 a Cassini è stato intitolato il liceo classico di San Remo (come all'epoca si scriveva). Altrettanto ha fatto lo scientifico di Genova, fondato nel 1923, frutto della Riforma della scuola, voluta dal filosofo Giovanni Gentile, ministro della pubblica Istruzione nel neonato governo Mussolini, sulla scia di quella impostata da Benedetto Croce che gliene rese merito, così come si dolse del feroce assassinio di cui il suo “collega” filosofo fu vittima. “Oh gran virtù dei cavalieri antiqui”. I dedicatari delle Scuole Pubbliche erano esempio perpetuo di virtù civili per presidi, docenti e allievi. Quindi non andavano cancellati, come oggi scioccamente fanno tanti consigli di istituto e collegi di professori modaioli.

Sulle orme di Galileo Galilei, Cassini fu tra gli scienziati europei che segnarono il passaggio definitivo alle discipline moderne però senza mai mancare di rispetto nei confronti dei “predecessori”, depositari di cognizioni elaborate negli “atanòr” e trasmesse per via orale e tramite il linguaggio dei simboli. All'epoca bastava un nonnulla per passare dalla cattedra al rogo o quanto meno a una fetida cella o all'esilio perpetuo.

A differenza dei Maghi, il Maestro Cassini, memore di Giordano Bruno e di Galilei, consegnò alle stampe (previo “nihil obstat”) il frutto delle sue ricerche, con saggi e trattati pubblicati a Bologna e dall'Imprimerie Royale di Parigi, tra cui “Decouverte de la lumière celeste qui paroist dans le zodiaque (1685). Cartografo di prim’ordine (ma nelle sue carte non sempre svelò quel che sapeva su Tesori nascosti, come, forse, quello dei Templari), passò dalle stelle al pratico con “De l'origine et du progrès de l'astronomie et de son usage dans la geographie et dans la navigation” (1693). Quando, ottantasettenne, il 14 settembre 1712 venne raggiunto a Parigi dalla Grande Visitatrice, poteva ripetere con Michelangelo Buonarroti: “Come dopo giorno ben spesa è bello dormire, così dopo vita ben spesa è dolce morire”.

 

La “banda” del classico Cassini, tra compasso e squadre

Il liceo classico Cassini di Sanremo ebbe, con altri, due allievi destinati a fama letteraria, giornalistica e in vario modo politica: Italo Calvino ed Eugenio Scalfari. Più volte narrati anche nei dettagli minuti, i loro anni giovanili sono ripercorsi da Domenico Scarpa nell'alluvionale “Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore” (ed. Hoepli, pp. 829). Il volume si apre con la rievocazione della “rappresentazione in tre atti” di “Quando si è qualcuno” mandata in scena il 7 novembre 1933 da Luigi Pirandello al Teatro del Casinò di Sanremo, della cui vita culturale era apprezzato e temuto demiurgo, come in “Uno, Cento, Mille Casinò di San Remo” documenta Marzia Taruffi, scrittrice, poeta, stratega dei Martedì Letterari e del Premio Antonio Semeria della Città matuziana (ed. De Ferrari). Tra gli spettatori non risultano né il decenne Italo né i suoi genitori, Mario, agronomo, direttore della stazione sperimentale di floricoltura “Orazio Raimondo” ed Eva Mameli. C'erano invece Giovanni Gentile, il mite poeta dianese Angiolo Silvio Novaro, lo storico Gioacchino Volpe e altre eminenze di una cultura che sarebbe improprio liquidare sommariamente come “fascista”. I Calvino non avevano motivo di esserci.

Nel 1933 Italo compì 10 anni. Era nato il 15 ottobre 1923 a Santiago de Las Vegas, una ventina di chilometri da La Avana, a Cuba. Quali furono i maggior sui è stato scritto più volte. Il nonno, Gio (o Gio Batta) Bernardo, medico, era stato fervente patriota. Detto “Italianissimo”, aveva preso parte all'irruzione del Venti Settembre 1870 in Roma nelle file del corpo di spedizione comandato da Raffaele Cadorna. Ne scrisse lo stesso giorno al fratello Francesco con lettera a carico del destinatario, come all'epoca si usava.

Quattro anni dopo, il 13 maggio 1874, dieci massoni già di lungo corso fondarono a Sanremo la loggia “Liguria”, che entrò a far parte del Grande Oriente d'Italia. L'indomani vi vennero iniziati alcuni notabili locali tra i quali, appunto, Gio Bernardo, appassionato coltivatore di rose. Nella matricola generale del Grande Oriente d'Italia curiosamente compare due volte. Suo figlio, Mario, agronomo e direttore della cattedra ambulante di Porto Maurizio, chiese e ottenne l'iniziazione nella loggia “Giuseppe Mazzini” di Sanremo (matricola 13.414); poi passò alla “Garibaldi” di Porto Maurizio. Erano gli anni del massimo fulgore della massoneria in Italia: dopo l'epoca del triangolo Adriano Lemmi (gran maestro), Francesco Crispi (presidente del Consiglio dei ministri), Giosue Carducci (maestro e vate della Terza Italia, apprezzato da Giolitti che ne volle  il monumento nazionale, poi realizzato dal “fratello” Leonardo Bistolfi) al vertice del Grande Oriente si susseguirono Ernesto Nathan, erede della tradizione mazziniana, poi sindaco di Roma, ed Ettore Ferrari, lo scultore che legò il nome alle statue di Arnaldo da Brescia e di Giordano Bruno, scoperta nel 1889 in Campo de' Fiori, a Roma, “ove il rogo arse”, in dichiarata polemica contro il Vaticano di papa Leone XIII che nell’enciclica “Humanum genus” (1884) aveva ripetuto le condanne solenni della massoneria pronunziate da suoi predecessori, da Clemente XII a Pio IX: “sinagoga di Satana”.

Dopo le complesse traversie documentate da Tito Schiva in “Mario Calvino. Un rivoluzionario tra le piante” (ed. Data & Florio, 1997), anche per eludere ripercussioni politico-giudiziarie dell'uso improprio del suo passaporto, Mario si trasferì nel Messico di Porfirio Diaz e da lì a Cuba. Continuò a predicare il rinnovamento dell'agricoltura: un apostolato condiviso dalla consorte, Eva Mameli, studiosa di talento, docente universitaria. Va ricordato che quegli studi non erano affatto monopolio di democratici, socialisti e “rivoluzionari” ma venivano promossi anche dal governo del regno d'Italia, che nel primo Novecento vide susseguirsi al ministero dell'Agricoltura personalità di prim'ordine quali Alessandro Fortis, Antonio Salandra, Paolo Carcano, Giuseppe Zanardelli, Guido Baccelli, più volte ministro dell'Istruzione, Luigi Rava, Edoardo Pantano, Francesco Cocco-Ortu, Luigi Luzzatti e Francesco Saverio Nitti: liberali progressisti, radicali e ben cinque presidenti del Consiglio. Aggiungiamo che nel 1908 venne fondato a Roma l'Istituto Internazionale dell'Agricoltura, finanziato personalmente da Vittorio Emanuele III. Il progresso delle scienze era tutt'uno con la scolarizzazione e le “leggi quadro” a sostegno della sanità, di medici e veterinari condotti, di quanto concorresse a “fare lo Stato” per “fare l'Italia” e “fare gli italiani”: un compito immane in un Paese sorto pochi decenni prima tra tante difficoltà, non “giardino d'Europa” ma dal territorio niente affatto generoso, come aveva documentato la severa “Inchiesta Jacini” sulle classi agrarie: proprietari, mezzadri, contadini e braccianti.

Nel suo poderoso volume Domenico Scarpa rievoca la “banda” del liceo Cassini che nella stessa classe del triennio liceale ebbe Italo Calvino ed Eugenio Scalfari, approdato a Sanremo con suo padre Pietro, chiamato a dirigere il Casinò. Vi rievoca le loro appassionate dispute su “Filippo”, lo pseudonimo con il quale indicavano Dio. Non dice se nelle loro conversazioni sia mai emersa la massoneria. Non se ne trae nulla dalle carte sinora note. Nondimeno sarebbe strano che non ne abbian mai parlato. Rientrato a Sanremo nel 1925, proprio nel bel mezzo dell'annientamento delle Comunità massoniche sotto l'offensiva nazionalfascista orchestrata personalmente dal massonofago Mussolini in combutta con uno spretato innominabile e con il nazionalista Luigi Federzoni, Mario Calvino rimase qual era: ostentatamente anticlericale, come lo era stato Orazio Raimondo, sindaco di Sanremo, massone, suo benefattore. Come tanti, per motivi “pratici” nel 1926 anch'egli si iscrisse al partito nazionale fascista: “lasciapassare” per molte importanti missioni all'estero (da Rodi alla Tripolitania e alla Somalia su invito del Duca degli Abruzzi per acclimatarvi la canna da zucchero), mentre sua moglie vinse la cattedra di Botanica all'Università di Cagliari, il cui Orto salvò dalla catastrofe.

Assorbito dalla “professione” e burbero in casa e fuori, Mario non nascose mai i “segni” della sua tradizione liberomuratoria. Quanto Italo ne scrisse in “La strada di San Giovanni” va quindi inteso come cenno postumo di una percezione più profonda di ciò che lasciò trasparire nei tredici anni dall'ingresso nella guerra partigiana al dolente distacco dal Partito comunista italiano, che per statuto, come già quello fascista, vietava l'iscrizione alle logge bollate strumento della borghesia, lucciole del capitalismo per le allodole del riformismo (ma il pragmatico Togliatti non disdegnava di avere nella sua ristretta cerchia comunisti “di loggia”).

Però... Però anche Eugenio era figlio e nipote di massoni. Scarpa non ne scrive. Ma va ricordato che suo padre, Pietro, fu iniziato da studente al Grande Oriente d'Italia nella loggia “Antica Vibonense Rinovellata”, mentre suo nonno, Eugenio come lui, professore, lo era da anni, al pari di altri della famiglia.

Il silenzio del loro carteggio merita di essere confrontato con quanto narrò Benvenuto (Nuto) Revelli del suo incontro con Dante Livio Bianco (febbraio 1944), fondatore con Duccio Galimberti della banda “Italia Libera” nel settembre 1943. Revelli non precisa chi dei due ne abbia parlato per primo. Resta che entrambi “scoprirono” di essere figli di massoni e che quell'appartenenza costituì un valore aggiunto. Bianco, oltretutto, aveva per cugino il taggiasco Aldo(ne) Quaranta, figlio e nipote di massoni, poi prestigioso comandante di “Giustizia e Libertà”, contigui ai fratelli dell'agronomo Mario.

 

Italo dal Mul al Pci e alla libertà

È emblematico che Italo Calvino, Eugenio Scalfari e gli altri della “banda”, “seduti in cerchio su una grande pietra piatta in un torrente vicino al suo podere” nel fatidico settembre 1943 decisero di costituirsi in Movimento universitario liberale (Mul). Solo dopo, nel corso della guerra civile, durissima nel Ponente ligure, Calvino scrisse. “Al diavolo il simbolismo!” e imboccò la strada del comunismo catechistico e bruciò incensi (almeno nelle parole scritte, se non nei pensieri) allo stalinismo: un sentiero che lo vide militante nella cellula “Giaime Pintor” attiva nella Casa editrice Einaudi sino alla feroce repressione dell’insurrezione socialista in Ungheria e al distacco di Antonio Giolitti dal Pci.

 

Parole cifrate

La “parabola” di Italo Calvino per alcuni versi rimane ancora da esplorare perché lo scrittore la lasciò avvolta nella sua memoria personale. Non amava parlarne, come sa chi ebbe modo di conversarne con lui senza secondi fini. Ne lasciò trasparire lembi solo con parole cifrate e con la scelta dei Soggetti ai quali via via si dedicò, sino ai “Tarocchi”. Perciò le rievocazioni in corso a cent'anni dalla sua nascita sono occasione propizia per andare “oltre” e per coglierne l'arguta razionalità e il disincanto maturato nei confronti di rivoluzioni e rivoluzionari. Come ricorda Domenico Scarpa, lo fece dire dal “Barone arrampicante” (solo in secondo tempo divenuto “rampante”): “C'erano anche da noi tutte le cause della Rivoluzione francese. Solo che non eravamo in Francia, e la Rivoluzione non ci fu. Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti”. Ma di quale “Rivoluzione” parlava e/o quale “rimpiangeva”? Quella della “Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino” o quella dei girondini? Dei giacobini e delle “stragi di settembre” del 1792, delle leggi “sui sospetti” e delle esecuzioni capitali senza processi o del Termidoro? Non lo disse. Non ignorava che la “Rivoluzione” sterminò gli Illuministi, chiuse le logge, oscurò la ragione proprio mentre orchestrava pagliaccesche sfilate in onore all'Ente Supremo. Come Ruggiero Romano (uno dei tanti nomi curiosamente non chiamati a bordo da Domenico Scarpa nella sua popolatissima Arca), un decennio dopo la rottura col Pci Calvino non mostrò alcuna speciale simpatia verso il Sessantottismo: tardiva caricatura della “militanza”, mero “settarismo” senza alcuna prospettiva politica autentica, lontanissimo dalla visione olistica che ispirò lo Scrittore attratto dal lavoro millenario richiesto dalla “conchiglia” per divenire qual è, fiducioso che prima o poi sia possibile “costruire un'umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi”.

Aldo A. Mola

Perinaldo (Imperia), il borgo natio dell'astronomo Giovanni Domenico Cassini

La sera del 20 settembre 1870 Gio Bernardo Calvino scrisse a suo fratello, Francesco: “Caro Fratello, sono entrato in Roma e, sebbene per miracolo, ho scampato la pelle. Questa mattina alle 4 ¾ incominciò il bombardamento della città colle nostre 166 bocche da fuoco, e verso le nove ci assaltavano i papalini sulla breccia aperta a Porta Pia. Dopo un'ora circa di terribile moschetteria si entrava in città facendo prigionieri quasi tutti questi briganti col loro generale in capo compreso.  Il mio battaglione si distinse sopra ogni altro del Reggimento ed il mio Capitano ha detto al Colonnello che io mi sono portato bene. Io per conto mio ti assicuro che mi sono trovato in mezzo ad un fuoco di moschetteria che sembrava cadesse la grandine e però sempre imperterrito non volendo a costo della vita perdere la fama di coraggioso che godo nel Reggimento. Del resto dovo (sic) rendere omaggio all'artiglieria che lavorò con rara perizia e bravura, nonché ad alcuni battaglioni Bersaglieri che si batterono da diavoli...”.

La lettera, inedita, mi venne fornita per “Italia. Un Paese speciale” (vol. IV, La libertà, ed. Capricorno, Torino) da Luca Fucini, autore di saggi pionieristici sulla Massoneria nel Ponente Ligure, con speciale riferimento a Tommaso Borea d'Olmo, “maire” di Sanremo in età napoleonica. Fondamentale il suo saggio “Misteri e segreti della Massoneria a Sanremo” (ed Atene, 2010).

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 11/06/2023