Ferdinando Barolo, l’infame giacobino torinese

Di Michele Tosca

Il contesto politico piemontese dopo lo scoppio della Rivoluzione francese era divenuto complesso: il regno dei Savoia era alleato con la Francia dal 1773, ma quando si manifestarono i disordini politici contro il Re francese il Piemonte venne a trovarsi di fatto senza più l’appoggio della sua potenza di riferimento, che ne aveva garantito la sicurezza negli anni precedenti.

Allo scoppio della guerra della prima coalizione, nel 1792, la Francia propose un’alleanza al Piemonte, ma in cambio, in base alla sua interessata visione geopolitica dei confini naturali, richiedeva la cessione di Nizza e Savoia, promettendo una futura compensazione con la Lombardia austriaca che gli eserciti alleati francese e piemontese avrebbero dovuto conquistare. Insomma, una promessa contro una cessione sicura. 

Vittorio Amedeo III di Savoia che non si fidava dei Francesi prese tempo, ma visto che i negoziati non giungevano ad una soluzione questi ultimi ruppero gl’indugi e, tra il 21 ed il 30 settembre, invasero e conquistarono la Savoia e la contea di Nizza, per poi essere fermati dall’esercito piemontese sull’arco alpino (1).

L’Austria, da parte sua, non volle impegnarsi in accordi bilaterali col Piemonte, considerandolo poco affidabile in tema di alleanze (i Savoia diverranno famosi per finire le guerre dalla parte opposta di quella con cui l’avevano iniziata), e se invitò i Savoia ad entrare nella propria coalizione, lo fece senza prendere impegni precisi per la guerra in Italia.

Non si può escludere che gli Austriaci fossero intenzionati a servirsi dell’esercito piemontese per logorare i Francesi, e magari, in vista di un possibile accordo di pace, spartirselo di comune intesa. Infatti, era ormai chiaro, dal momento dell’elevamento dei Savoia al rango regale nel 1713, che, esclusa l’espansione oltre le Alpi, verso la Francia, l’unica altra possibile direttrice per un espansionismo piemontese era indirizzata verso la pianura padana e questa politica portava inevitabilmente allo scontro fra il Piemonte e l’Austria per il controllo del nord Italia.

In questa situazione il governo piemontese era diviso tra l’aristocrazia savoiarda (2) personificata dal ministro degli esteri Joseph François d’Hauteville e da Thaon di Revel , che volevano un alleanza con l’Austria per combattere i Francesi e riprendersi la Savoia e la contea di Nizza; e l’aristocrazia liberale rappresentata da varie personalità, quali il ministro degli interni conte Giuseppe Pietro Graneri de La Roche, il ministro della guerra Giovanni Battista Fontana di Cravanzana, il conte Gian Francesco Galeani Napione, il marchese di Cavour, Clemente Damiano Priocca, Prospero Balbo e Filippo Asinari di San Marzano, che erano favorevole all’alleanza con la Francia per riprendere il percorso di riforma dello Stato, interrotto allo scoppio della rivoluzione francese, e per tentare l’espansione nell’Italia settentrionale dove gl’interessi sabaudi erano in conflitto con quelli austriaci.

Ma il re Vittorio Amedeo III, capì che la lotta contro la Francia, la Rivoluzione francese, e la sua espansione, era prioritaria, avendo essa un carattere ideologico che avrebbe distrutto la monarchia. Inoltre, per il giustificato timore di sollevazioni interne, sobillate dai filofrancesi, e per poter perseverare nella guerra contro la Francia, si vide costretto a richiedere l’alleanza austriaca cui in seguito restò sempre fedele, malgrado l’interesse geopolitico di espansione del Piemonte.

Che Vittorio Amedeo III avesse visto bene lo dimostra l’opposizione dei gruppi democratici, o cosiddetti “giacobini”, che miravano alla sua uccisione, pur di portare la “Repubblica” in Piemonte e che erano pronti a collaborare con gli invasori di oltralpe, i francesi, che chiamavano, con un’abitudine che ha fatto storia, “liberatori”.  

Quella che prese il nome di congiura Barolo rivelò il fondato sospetto che Vittorio Amedeo III nutriva nei confronti delle società segrete, massoneria in primis, non a caso, il sovrano sabaudo aveva bandito le riunioni di loggia fin dal 1783 (3).

Ma i massoni, sostenitori della Rivoluzione Francese, si continuavano a riunire discretamente nei cosiddetti “club giacobini” (4). Questi gruppi avevano il comune intento di far cadere la monarchia, ma erano divisi sul tipo di “Repubblica” da creare al suo posto, vi era chi voleva una repubblica piemontese, altri che miravano ad una repubblica italiana, alcuni federale, altri unitaria.

Insomma, li univa solo l’odio verso il Re e la sua famiglia. Pertanto, uccidere il re di Sardegna, Vittorio Amedeo III, e far sì che il Piemonte diventasse un possedimento della Francia era il piano dei congiurati che si riunivano in casa del medico Ferdinando Barolo; un piano, come vedremo, sventato nel 1794, in extremis, grazie ad una confessione molto particolare.

A Torino operavano dal 1793 tre “club” giacobini, ma, come accennato, quello più pericoloso era quello che si riuniva in casa di Ferdinando Barolo (5), dove vi erano parecchi professionisti, tra cui il medico Carlo Botta, Angelo Picco, l’avvocato Federico Campana, Maurizio Pellisseri, Luigi Ghiliossi (6).

Un secondo circolo era quello del medico Guglielmo Cerise, frequentato dai fratelli Chantel, uno medico, l’altro ufficiale e dal mercante Giovanni Francesco Junod, tutti valdostani, e dal mercante albese Ignazio Bonafous.

Il terzo club era quello più moderato, sostenuto dal banchiere Vinay, ne facevano parte Giovanni Carlo Dufour, segretario al ministero degli esteri e Francesco della Morra, capitano reale.

Seppur divisi sull’idea di “Repubblica”, questi tre club tra l’inverno e la primavera del 1794, costretti ad unificarsi dalle pressioni politiche francesi, progettarono insieme una cospirazione con lo scopo di uccidere la famiglia reale e prendere il potere. Tutto sulle orme dei giacobini francesi, che l’anno prima avevano ghigliottinato Luigi XVI di Borbone, ed anticipando i bolscevichi russi.

Inutile dire che i clubs repubblicani torinesi agivano in stretto contatto (per non dire agli ordini) con il ministro francese degli Affari Esteri, Jean Tilly, che si era trasferito a Genova, e anzi fu proprio per un suo ordine che essi dovettero unirsi, e fu proprio Ferdinando Barolo a finanziare più volte i viaggi che spesso gli emissari giacobini torinesi facevano a Genova per concordare con il Tilly il piano di azione.

Il tradimento nei confronti del Re fu approntato stabilendo che l’insurrezione dovesse scoppiare in contemporanea all’offensiva francese del 1794, la ribellione doveva essere guidata dai giacobini torinesi e prevedeva l’occupazione della Cittadella, la cattura del Re, la proclamazione della Repubblica e, per l’esplicita insistenza del Barolo, la soppressione dell’intera famiglia reale.

Per uccidere il re, si pensò ad un metodo semplice e banale: reclutare contadini, che nella loro mente borghese, intrisa di ideologia illuminista, erano i miglior alleati della Rivoluzione francese.

Costoro dovevano prima prendere possesso dell’Arsenale e della Cittadella di Torino, poi catturato e ucciso il Re e la famiglia, avrebbero accolto i francesi. Appare chiaro che ai congiurati sfuggisse completamente il sentimento di fedeltà ai Savoia dei contadini piemontesi; per i cospiratori – tutti appartenenti alla buona borghesia – sembrava cosa impossibile che i contadini, specie se ben pagati, si schierassero con i “tiranni”. Invece, fu proprio quel che successe, perché a rivelare, ed a far fallire, il complotto fu proprio un contadino, di nome Battistino Fenolio.

Ma per meglio spiegare ciò che successe useremo le parole dello stesso Barolo: «Quando si cominciò nel nostro club a trattare di rivoluzione, si progettò tosto d’impadronirsi di tutti li posti già da me ieri spiegati (arsenale, cittadella, padiglione palazzo reale) […] Si disse tosto che nell’impadronirsi del palazzo Reale dovessimo contemporaneamente assicurarsi del Re e di tutta la famiglia Reale, locchè venne da tutti approvato. Io fui il primo a dire che nell’impadronirsi di tutte le persone reali dovessimo far fine delle medesime. Alcuni che non saprei precisamente spiegare chi approvarono il mio sentimento. […] Dopo vari dibattiti concorsero poi tutti nel mio sentimento, cioè di dover far fine di tutte le persone reali subito dopo il loro arresto (7)». E proprio questa sua volontà ed il successivo comportamento, che vedremo, che farà passare alla storia Ferdinando Barolo come un infame (8).

Tutto era pronto per il colpo di Stato. Tuttavia, i congiurati giacobini non avevano fatto i conti con la coscienza di Battistino Fenolio. Il contadino, la cui moglie era stata la balia della figlia di Junod, era stato circuito proprio da Giovan Francesco Junod, il quale gli aveva chiesto di radunare qualche centinaio di persone per una impresa ben pagata. I dettagli della congiura, all’inizio molto generici, gli vennero rivelati man mano che Fenolio provvedeva ad arruolare i contadini per l’impresa (9).

«Si sarebbe dato il fuoco al Teatro o a qualche casa in vicinanza di Piazza Castello per ivi trattener la truppa, e il popolo, che sarebbe accorso; e intanto nel Palazzo del Re vi sarebbero in tutti li appartamenti persone appostate decisamente intese di uccidere con stiletti il Re, e tutti i principi Reali nei propj letti, e chiunque si fosse opposto (10)».

E fu proprio quando Fenolio si rese conto che Junod stava organizzando un massacro, che la coscienza gli si rivoltò contro, a tal punto che non dormiva la notte per il rimorso di ciò che stava per compiere. La moglie, che era all’oscuro di tutto, visto il suo stato d’animo gli consigliò di raccomandarsi alla Madonna e di confessarsi o chiedere consiglio ad un sacerdote.

Battistino, allora, per liberarsi la coscienza, scelse di confidarsi con il priore della basilica di Superga, padre Cesare Dionigi Garretti di Ferrere (11). Quel giorno, pioveva a dirotto e quando Fenolio giunse a Superga, era fradicio e in uno stato pietoso, al punto che sembrava un fuorilegge: «Io – scriverà il Garretti – pensai che costui avesse ucciso qualcheduno, vedendolo così turbato, e che cercasse consiglio, o rifuggio in questa Casa Ecclesiastica (12)».

Fenolio si confessò e pregò la Madonna con lui, poi gli raccontò tutto, e padre Garretti, che ascoltava incredulo, scrisse nel suo resoconto della vicenda, conservato in Archivio di Stato a Torino: «Io nell’intendere questo racconto mi sentiva il sangue a gelar nelle vene, e un tremito alle gambe a potermi appena reggere in piedi (13)». Inutile dire che le indicazioni fornite di Battistino Fenolio furono indispensabili per individuare i congiurati e fermare la sommossa e l’assassinio del re e della sua famiglia. 

Ed è qui che il Barolo mostra tutta la sua meschinità.

Ferdinando Barolo non era fra i nomi che Battistino Fenolio aveva fatto, ma quando il 24 maggio la cospirazione viene scoperta, dopo i primi arresti, Ferdinando Barolo, per timore di essere catturato e sperando in una pena più mite, si auto-accusa. Tra lo stupore della stessa Polizia viene rinchiuso alle Porte Palatine, dove al magistrato rivela ogni dettaglio della congiura, tradendo tutti i suoi amici, e “fratelli”, e rivelando in un’ampia delazione, piani e nomi di ogni partecipante. Molti, tra cui il Botta (14), il Pellisseri, il Cerise e Bonafous, avvertiti per tempo del tradimento, riescono a mettersi in salvo con la fuga in Francia, ma un centinaio di cospiratori, massoni e giacobini, implicati in questo brutto affare vengono arrestati. Un tribunale speciale istruirà i processi che si concluderanno con dure condanne, molte delle quali però in contumacia.

La repressione, però, fu tutto sommato mite: Vittorio Amedeo III aveva gravissimi problemi al confine, la guerra con la Francia era in pieno svolgimento e non voleva esacerbare ulteriormente gli animi. Così, furono condannati a morte in dodici ma, malgrado la gravità del reato, e grazie all’intervento del Re, solo tre condanne furono realmente eseguite, quelle di Giovanni Chantel, Giovanni De Stefanis e di Giovanni Francesco Junod.

Ferdinando Barolo, l’infame che più di tutti avrebbe meritato il patibolo, si salvò ed anzi, più tardi, cercò di giustificare la sua delazione come il frutto di un “momento di debolezza e di un abile raggiro poliziesco”, ma troppo lucide e circostanziate erano le informazioni contenute nelle sue denunce, nei verbali degli interrogatori e nei confronti con i congiurati, perché qualcuno gli potesse credere. Ferdinando Barolo trascorse sette anni in carcere, prima a Torino poi a Ivrea, finché nel 1800, quando i suoi ex-amici francesi di fatto governavano Torino da due anni (15), si rivolse per un aiuto ad un noto giornalista ed editore, Giovanni Ranza, che appoggiò la sua causa nel proprio giornale L’Amico della Patria (20 vendemmiale IX: 12 ott. 1800).

Visto il clima politico, che giustificava i regicidi, si poteva liberare anche Barolo, infatti nell’ottobre dello stesso anno, il regicida pentito e traditore, fu rilasciato su ordine del suo antico compagno di cospirazione Carlo Botta, membro allora, insieme con Carlo Bossi e Carlo Giulio, della Giunta esecutiva di governo istituita dai Francesi. Ma i suoi ex-compagni non gli perdonarono il tradimento e, appena uscito dalla galera, fu “invitato” a lasciare immediatamente il Piemonte.

Malgrado ciò il Barolo chiese e ottenne, ancora per intercessione del Ranza, di poter restare per il tempo necessario ad elaborare e pubblicare la propria difesa. Libretto che usci alle stampe nel novembre 1800 con il titolo “Il cittadino F. B. ai suoi concittadini e ai patrioti del Piemonte”.

Nello scritto cercava inutilmente, di ripristinare un onore ormai perduto : dopo aver rivendicato il suo passato “patriottico”, cioè quando pretese dai congiurati l’uccisione del Re e di tutta la sua famiglia, egli rifacendo la storia dei clubs e dei contatti con il ministro francese Tilly, tentò di dare la colpa allo “stato di incertezza e di confusione esistente nell’ambiente della cospirazione nel maggio del 1794, a causa del rifiuto del ministro francese di impegnarsi a fondo e di concedere le sovvenzioni necessarie”; ovviamente accusò, come tutti i vili , uno di coloro che furono giustiziati a causa sua, e che non poteva più difendersi ,Giovanni Chantel, attribuendo a lui le “prime imprudenze” che avevano provocato l’intervento della polizia, lo accusò di essere l’esponente della fazione intransigente che voleva la rivoluzione immediata senza aspettare l’arrivo dei Francesi. Nella sua “difesa” dichiarava infine di essersi costituito solo per accusare se stesso (?!) e di essersi poi smarrito di fronte “all’abile giuoco inquisitorio” usato nei suoi confronti dal ministro Graneri e dal senatore Durando.

Ma ormai nessuno poteva prestar ascolto alla difesa di un “infame”; una breve nota apparsa il 23 novembre sulla Gazzetta nazionale piemontese a firma dei giacobini Carlo Botta (16) e Maurizio Pellisseri la definiva del tutto priva di serietà. Perduta definitivamente la speranza di far riaprire il suo processo, il Barolo fu costretto ad emigrare; si trasferì a Tunisi, dove per lunghi anni esercitò la sua professione di medico. Con la Restaurazione poté rimpatriare e in seguito entrò, paradossi della vita, al servizio della Casa reale come medico della servitù. Lui che avrebbe voluto assassinare il Re e la sua famiglia. Morì a Spigno (Alessandria) il 28 marzo 1821.

Michele Tosca

Note

(1) D. Carutti, Storia della corte di Savoia durante la rivoluzione e l’impero francese, Torino-Roma 1892, 1, pp. 274 ss.; II, D. 360

(2) Era inoltre contraria alle riforme iniziate negli anni Settanta da Vittorio Amedeo III, questa era appoggiata dai tre figli del re: Carlo Emanuele, principe di Piemonte, Vittorio Emanuele, duca d’Aosta, e Carlo Felice, duca del Genevese.

(3) C. Francovich, Storia della Massoneria in Italia, i liberi muratori dalle origini alla Rivoluzione francese, Ghibli, Milano, 2013, p. 429.

(4) G. Sforza, L’indennità ai giacobini piemontesi perseguitati e danneggiati (1800-1802), Torino 1909, pp. 2,50-258.

(5) Ferdinando Barolo, come tutti i capi rivoluzionari non era povero. Nato nel 1751 a Giaveno, in provincia di Torino, si laureò in medicina a Torino ed esercitò all’inizio la libera professione. Le sue idee repubblicane lo posero presto al centro del movimento giacobino piemontese, che, nel corso dei 1793, a Torino e in altre città, assunse forme organizzative più solide in vista di una decisa azione rivoluzionaria per prendere il potere.

(5) Il club di Ferdinando Barolo comprendeva anche giacobini e massoni che faranno fortuna negli anni della Rivoluzione in Piemonte e nel periodo napoleonico; altri congiurati erano Secondo Salsetti, ed i radicali Guglielmo Cerise e Ignazio Bonafous.

(6) G. E. Cavallo, La tirannia della libertà, il Piemonte dai Savoia a Napoleone, Chiaramonte, Collegno, 2016, pp. 12-13.

(8) Costa di Beauregard, Vecchio Piemonte nella bufera, Torino, Fogola, 1985.

(9) L. C. Bollea, Il carteggio di un rivoluzionario piemontese (L. Belmondo), luglio 1800-dicembre 1801 Torino 1912, pp. 4, 26, 40.

(10) G. E. Cavallo, La tirannia della libertà, il Piemonte dai Savoia a Napoleone, Chiaramonte, Collegno, 2016, p. 14.

(11) G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, I, Milano 1956, pp. 182 s.

(12) G. E. Cavallo, La tirannia della libertà, il Piemonte dai Savoia a Napoleone, Chiaramonte, Collegno, 2016, p. 13.

(13) G. E. Cavallo, La tirannia della libertà, il Piemonte dai Savoia a Napoleone, Chiaramonte, Collegno, 2016, p. 14.

(14) G. C. Bogino, Biografia medica piemontese, II, Torino 1825, P. 433; N. Bianchi, La verità trovata e documentata sull’Arresto e prigionia di Carlo Botta, in Curiosità e ricerche di storia subalpina, II, Torino 1876, pp. 106-109.

(15) Il 3 luglio 1798 i francesi occuparono Torino, venne istituito un governo provvisorio, e Carlo Emanuele IV venne costretto ad abbandonare la corona, raccomandando ai suoi sudditi l’obbedienza agli invasori.

(16) Botta era un massone e giacobino, coinvolto nella congiura, fu arrestato la sera del 27 maggio 1794 e tradotto il 28 dello stesso mese nel carcere militare di Acqui. Rilasciato nel 1795, emigrò ovviamente in Francia, per ritornare in Italia l’anno dopo come chirurgo nell’armata francese guidata da Napoleone Bonaparte. Nel 1799 fa parte del Governo provvisorio della Nazione Piemontese istituito dopo la cacciata del re Carlo Emanuele IV e nel 1801 è uno dei triumviri insieme con l’anatomista Carlo Giulio e Carlo Bossi; sostenitore di una politica filofrancese, sarà favorevole all’annessione del Piemonte alla Francia, proclamata l’11 settembre 1802. Con il ritorno dei Savoia in Piemonte nel 1814, si ritira a vita privata ma, per poi rifugiarsi in Francia, assumendone anche la cittadinanza.

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 27/08/2022