Torino: arte farmaceutica dall’epoca romana ad oggi

Di Luca Guglielmino (Quinta Parte)

Cinquecento e Seicento. - I legisti detenevano il potere in Comuni ma i loro matrimoni con membri della classe mercantile e il fatto che molti figli di mercanti studiavano legge, resero più sfumate le differenze tra le due classi. Sono personaggi di qualità e sotto Emanuele Filiberto il sopra citato speziale Lorenzo de Georgis è sindaco per la borghesia per ben tre volte e viene rieletto nel 1583 mentre Giorgio de Georgis lo diventa nel 1611 e un altro Lorenzo de Georgis nel 1621.

Una figura interessante è lo speziale Giovanni Domenico Trotto, sindaco di Torino (da Emanuele Filiberto in poi i sindaci potevano essere entrambi borghesi) nel 1612, nel 1614 e nel 1623 (rubricato però come Domenico Trotto) che viene ricordato nel romanzo storico di Luigi GramegnaLa speciaria di Sant’Eusebio”.

Piazzetta S. Eusebio si trovava all’incrocio delle vie S. Teresa e XX Settembre odierne.

La chiesa o parrocchia di S. Eusebio si trovava dal lato opposto a quella di S. Teresa in prossimità dell’edicola di giornali all’angolo.

Subito a lato vi è il palazzo Compans de Brichanteau (via S. Teresa 10) e all’angolo con la stretta via (XX settembre) allora chiamata via S. Maurizio fino a via Monte di Pietà ultimo tratto fino a via della Palma (via Viotti), poi via Rosa Rossa da via Bertola fino a via Dora Grossa (via P. Micca non esisteva), e infine fino al Duomo era via del Seminario, vi era la speciaria di S. Eusebio proprietà del Trotto.

Via S. Teresa non esisteva ancora ma vi era un fossato che separava la città Vecchia dalla Nuova e quindi tale spezieria la potremmo definire periferica. Gramegna pur non citando le fonti, (è il 1640, anno di punta nella lotta tra madamisti e principisti – fautori di Madama Reale Cristina di Francia e fautori del Principe Tommaso e del cardinal Maurizio di parte spagnola - una guerra civile che portò Torino ad essere sottoposta ad un quadruplice assedio) riporta stralci di editti Vittorio Amedeo I (m.1637), per es. “Niuno possi aprire e fondare botteghe di drogarie o speciarie prima non sii di competente età, et esaminato et approvato dal Protomedico…et insieme giuri di esercitare quell’arte fedelmente, realmente, et habbi attestazione del Giudice che egli abbia il modo di comprar et tenere le cose necessarie a tale esercitio….Nella quale approvatione haverà il protomedico nostro (Don Cisco Fiocchetto- Gian Francesco Fiocchetto) a considerare che non lasci crescere più numero di speciali di quello che richiede la qualità del luogo”.

Continua cioè la polemica sul numero delle spezierie che ormai sono 36 ma che dopo la peste del 1630- quella manzoniana per intenderci - che fece circa 8.300 morti su circa 25.000 abitanti - nota da noi come “peste di Bellezia” in virtù del suo eroismo nel gestire Torino-riducendo questa drasticamente gli abitanti della Città, fece venire nuovamente attuale l’esigenza di 24 spezierie. Le casse comunque erano a corto di denaro e il Duca decise di chiudere le 12 in più solo dopo la morte dei titolari. In pratica avvenne poco o nulla. Chi poi abusivamente vendeva veleni e medicamenti in qualità di medico e chirurgo, veniva pesantemente multato, gli venivano dati tratti di corda (dalla torre civica e venivano dati anche ai corrotti e ai concussori) e in caso di morte del paziente vi era la forca.

La multa per chi non teneva esposti i prezzi dei medicamenti era ad esempio, di 100 scudi d’oro ossia di 1.230 € circa e data l’inflazione dovuta alla guerra e alla crisi economica sia prezzi che multe triplicarono.

I medicamenti del tempo. Per esempio per 12 fiorini (circa 10 €) con ricetta approvata dal protomedico veniva commerciato il seguente intruglio: “Corno di cervo bruciato, cappone distillato, limatura di dente di caprone, olio di scorpione, olio di volpe, olio di scoiattolo, unghia di leone, grasso di orso,…lapislazzulo, ematite, pietra orientale” (Belzoar che Fiochetto chiama betzaar, ammonite, pisolite) .

Vi era poi il “rimedio principe” dedicato solo ai ricchi sovrani. “Farai fondere nell’aceto le perle calcinate, aggiungendo aceto finché il liquido diventi trasparente; ed allora si distilla. Immergerai dodici ore in acqua, distillerai una seconda volta, e così di seguito fin che otterrai un residuo bianco come la neve. Questa quintessenza restituisce le forze perdute, accresce il latte alle madri, giova assai nelle ulceri, nei cancri, nel noli me tangere [scabbia? lebbra?, N.d.A.]; è miracoloso nel delirio. … La dose è di otto a dieci gocce”.

Certamente vi erano superstizione, ignoranza sia popolare che nelle alte sfere di corte e dell’amministrazione, tutto meno che scienza. Contro la scrofola (malattia infettiva) molto diffusa a partire dal X secolo in Francia e Inghilterra, si ricorreva a rimedi taumaturgici (cfr. ad es. I re taumaturghi di Marc Bloch) secondo i quali l’imposizione di un dito o della mano del re di Francia sul malato, nel giorno dell’incoronazione, guariva la malattia che in seguito veniva curata con “olio di serpente rosso e unghia d’asino”. (L. Gramegna op. cit. pp. 66-70).

A chi ingurgitava l’olio di scoiattolo si potenziavano sveltezza e velocità, il lapislazzulo faceva bene alla vista ed era antinfiammatorio, la pietra orientale se messa a sinistra del corpo era antidoto contro i veleni ecc,

Un’importante istituzione torinese era l’Università.

Ludovico d’Acaia aprì uno Studio Generale nel 1404 con bolla di papa Benedetto XIII poi antipapa dopo il Concilio di Costanza che lo depose nel 1417. Nel 1412 un diploma dell’imperatore Sigismondo conferma la bolla papale. Sigismondo a quel tempo era Rex Romanorum e cioè imperatore eletto del Sacro Romano Impero ma prima dell’incoronazione papale nel 1433 che lo proclamò Romanorum Imperator. Nel 1413 seguì una bolla dell’antipapa Giovanni XXIII di Pisa e nel 1419 probabilmente una bolla di papa Martino V.

Dapprima l’Università formò giuristi per il Comune e la Corte. I primi locali furono probabilmente verso Porta Pusterla in case private, sia come alloggi che come aule. Nel 1420 si aggiunse l’insegnamento di Teologia.

Il duca Amedeo VIII (ebbe il titolo ducale dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo) richiedeva più finanziamenti al Comune di Torino che non era in grado di fornirli e molti professori si trasferirono a Chieri e a Savigliano (1434) e in queste sedi si trasferì temporaneamente l’Università che con le Patenti ducali del 1436 si trasferì nuovamente a Torino.

La conferma del trasferimento definitivo a Torino avvenne con le bolle papali di Eugenio IV (1438) e di Felice V (lo stesso duca Amedeo VIII divenuto antipapa- 1441). Nel 1443 la troviamo -secondo il Cibrario - nella nostra città. Nel 1536 “lo Studio” fu chiuso per ordine dei francesi occupanti Torino.

Ci fu quindi la parentesi di Mondovì che nel XVI secolo divenne la città più popolosa del Piemonte e ove fu pubblicato nel 1472 il primo libro stampato e datato in Piemonte (Il confessionale) anche se pare - ma non è datato - che a Savigliano nel 1470/71 fosse già stato pubblicato a stampa un Manipulus curatorum.  Mondovì fu sede dell’Università dal 1558 al 1566. Sono i primi anni di Emanuele Filiberto e della dipartita dei francesi.

L’8 ottobre 1560 il duca concesse a Mondovì l’apertura di uno Studio generale. Terminata l’occupazione francese a Torino, si accese una lite per lo studio tra Mondovì e la nostra città.

Il 12 ottobre 1566 una sentenza del Senato di Piemonte (il Senato era allora la suprema istanza, simile alla Cassazione) decise a favore di Torino che divenne l’unica sede universitaria.

La riapertura fu affidata al Comune e per lo studio venne reperita la casa comunale dei Beccuti in via San Gregorio (detta anche via dello Studio) ora via S. Francesco d’Assisi, di fronte alla chiesa di S. Rocco.

Le lezioni ripresero nel mese di novembre 1566 e fino al 1720, anno di apertura della sede di via Po (progetto dell’architetto M. Garove), i corsi si tennero in tale edificio.

Mondovì comunque mantenne corsi di teologia, giurisprudenza e medicina fino al 1719. Contemporaneamente sorsero i collegi di facoltà addetti al conferimento delle lauree, al curriculum universitario e all’ammissione nei corpi professionali.

Erano insegnate la medicina teorica (principi medici e classificazione delle malattie) e quella pratica (sintomatologia e terapie), ma non quella che oggi chiamiamo farmacia

La botanica o arte dei semplici (dall’hortus simplicium - il giardino (o orto) dei Semplici - posto dapprima all’interno dei vari monasteri e adibito alla coltivazione delle piante medicinali e aromatiche, con la loro seguente conservazione nell’armarium pigmentariorum) era comunque uno studio legato alla medicina e la maggior parte delle cure del tempo, provenivano dalle piante.

Dal XVI secolo la botanica divenne materia separata e si cominciarono a creare gli orti botanici per insegnare al pratico la materia ai futuri medici che avrebbero poi dovuto prescrivere le cure realizzate dagli speziali che agivano in subordine.

Si cominciò anche lo studio delle sostanze inorganiche. Sia a Mondovì prima che a Torino dopo, fu un “farmacista” torinese, Pietrino Rapaluto, il lettore dei “semplici” dal maggio 1566 e curatore del “giardino” o primo orto botanico onde formare gli studenti in medicina. Il collegio di facoltà dei medici eleggeva un priore e il resto del collegio era composto da otto numerari e quindici soprannumerari; il compito principale era la valutazione degli studenti e il conferimento della laurea.

Il collegio dei medici era comunque la sede per affermare la superiorità dei medici verso le professioni sanitarie minori come chirurghi e speziali. Tali mestieri erano divisi da vere barriere socioculturali e i medici erano gli unici a conoscere il latino mentre le altre categorie non erano formate se non tramite l’apprendistato in quanto “arti manuali”. Tuttavia, nel XVII secolo si ravviva l’interesse per una formazione più specifica di chirurghi e speziali e per una maggior preparazione culturale; spesso tali figure considerate “minori” erano l’unico punto di riferimento per poveri e gente dei villaggi.

Al tempo la trattatistica distingueva tra medicina per i ricchi e medicina per i poveri con terapie e politiche sanitarie differenti.

Ma la medicina ormai si scomponeva in diversi campi e ai medici venne affidata la medicina interna con formulazione di diagnosi, quella esterna ai chirurghi (ferite, salassi, osservazione delle urine) e infine la preparazione dei medicamenti era affidata agli speziali.

Siccome tali professioni dipendevano esclusivamente dal collegio dei medici, questi controllavano strettamente le professionalità minori per eliminare l’abusivismo e l’incompetenza. I chirurghi non erano ammessi tra i dottori collegiati e coloro che eventualmente avessero esercitato come tali o come speziali, venivano espulsi.

Luca Guglielmino

Fine della Quinta Parte - Continua

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Articolo pubblicato il 30/04/2022