Torino: arte farmaceutica dall’epoca romana ad oggi

Di Luca Guglielmino (Terza Parte)

Il Trecento e il Quattrocento. - Dopo aver esposto la situazione del Medioevo dal 1000 al 1400, entriamo più nel particolare.

Nel secolo XIII c’era stata una notevole crescita demografica ed economica, ma all’inizio del XIV secolo lo sviluppo frena ed inizia la stagnazione; ovviamente anche la crescita politica si blocca. Va detto che la pandemia di Peste Nera del 1348 (a ondate durò fino al 1429) uccise un terzo degli abitanti e rimasero quindi 3.000 persone su 4.500 abitanti. La crisi colpi le famiglie che investivano i loro beni nei commerci e nei traffici e risparmiò la nobiltà terriera che così restò dominante in politica e sotto il profilo socioeconomico.

Se un secolo prima tale fase pareva superata, ora la nobiltà, grazie alla crisi, è solidissima. Ma le famiglie di mercanti, notai e speculatori vari che riuscirono ad investire in tempo in terre fertili, evitarono il fallimento e divennero un’oligarchia ereditaria non comunicante con il resto del popolo. Costoro spartirono il potere comunale, non a caso i sindaci erano due, uno per la nobiltà e uno per la ricca borghesia. Ciò porterà pure all’acquisto di titoli nobiliari da parte di alcuni, instaurando così una nobiltà di toga di nuovo conio. Dalla Società di san Giovanni Battista erano quindi escluse le famiglie magnatizie come i Beccuti, gli Zucca, i Sili, i Borgesio, per esempio, tra le famiglie nobili più antiche (XI-XII secolo), famiglie numerose e ramificate, nobiltà di spada quindi con castelli, caseforti fuori città e torri in Torino.

È ovvio che costoro costituissero un problema per il comune e per la sua gestione “democratica” poiché regolarmente occupavano i posti del consiglio di credenza e quindi vennero esclusi dalla Società di S. Giovanni Battista onde difendere da abusi e prepotenze gli interessi mercantili e artigiani. Le famiglie nobili che avevano parteggiato per Asti, gli Zucca e i Sili, non solo furono estromesse dal governo cittadino ma anche dallo spazio urbano, tanto che le abitazioni occupate dai Sili divennero proprietà dei Beccuti. In pratica la parte guelfa prevalse e fino a metà del XVI secolo le famiglie Borgesio, della Rovere, da Gorzano e Beccuti, condivisero il potere con la classe mercantile o popolare.

C’è da notare comunque che il peso di artigiani, bottegai, mercanti e notai, a Torino non era così influente come a Chieri, Vercelli o Asti anche se Torino era sede vescovile, del vicario sabaudo, del capitolo della cattedrale e di diversi monasteri e residenza di famiglie nobili. Le attività commerciali interne alla Città erano comunque sviluppate in rapporto ai pochi abitanti. A parte il settore tessile, tra il XIV e XV secolo vi erano almeno cinque spezierie, beccai e notai, ben rappresentati nel governo cittadino così come alcuni venditori di generi alimentari arricchitisi con il commercio ecc. Gli arricchiti investivano in proprietà fondiarie ed erano in grado di minare il potere nobiliare. Si formano così due élites: una nobiliare e una popolare che sono pari a 1/20 della popolazione e che controllano 1/3 delle terre (catasto del 1363)

Pare che le corporazioni degli speziali o collegiate, risalgano già all’epoca comunale e a metà del XIV secolo tali corporazioni offrivano i ceri per la festa di S. Giovanni. La spezieria in tale epoca vendeva spezie propriamente dette, medicine per uomini e animali, articoli di ferramenta come chiodi o chiavi, limoni, frutta secca e talvolta diveniva luogo ove vi era un tavolo da gioco.

Nell’Archivio storico della città vi è un documento che parla di una multa inflitta ad Antonio di Papia, garzone dello speziale Alessio di Brozolo, perché gettò acqua sui giocatori che si trovavano al banco della spezieria.

Il catasto o estimo del 1363 rimane un documento fondamentale perché veniamo a sapere da esso che i tre figli di Giovanni di Monteacuto, Pietro, Michelino e Antonio, gestiscono una spezieria probabilmente presso Porta Pusterla (alla confluenza di via delle Orfane con via Giulio) assieme a Orsino di Cavaglià.

Il capitale dichiarato nel 1363 dai Monteacuto ammontava a 50 lire di Vienne di cui 10 spettavano allo speziale Antonio Descalcino come conduttore dell’impresa. Notare che già allora era invalso l’uso di dichiarare di meno per pagare meno tasse. La lira di Vienne era la valuta più diffusa all’epoca di Amedeo VI. Ma i Monteacuto possedevano pure 46 giornate di terreno, una conceria e una bottega di calzature. Giovannetto del Poggio, medico (phisicus) e notaio, possedeva anche una apoteca speciarie ove investì 40 lire di Vienne.

Alle fine del XIV secolo si contano in Città almeno sette spezierie, quelle di Filippo Aliberti, Bartolomeo Iappa, Stefano Muratore, Pietro Sasse, Martino Borgesio, Antonio Voirone e Antonio de Nicoloso. Ai primi del XV secolo ne compaiono altre quattro, quelle di Onofrio de Triesto, Michele Borgesio, Alessio di Brozolo e Nicolino de Crovesio.

L’estimo del 1391 dimostra che costoro dichiarano patrimoni modesti e soprattutto i beni mobili vengono dichiarati in modo inattendibile come Stefano Muratore che dichiara solo 32 lire di Vienne. Martino Borgesio invece, di famiglia nobile, possiede 70 giornate di terra (276.628 mq circa di terreno), diversi affitti e quattro case.

La categoria degli speziali fu la più colpita dalla crisi economica. Mentre Muratore abbandona Torino e si stabilisce a Sion in Svizzera mentre le spezierie di Sasse e Iappa vengono chiuse causa decesso dei titolari e i loro beni sono dispersi. Al contrario l’intraprendente moncalierese Onofrio de Triesto risulta possedere una spezieria tra le prime di Torino. Investì nella lavorazione del cotone e richiese o l’uso della fontana presso il Po nei pressi della chiesa di S. Leonardo (nei pressi del ponte di Piazza Vittorio) o di un’altra fontana per lavare i propri tessuti, uso concesso con accordo scritto.

Da un atto rogato nel febbraio 1413 ad Avigliana, Michele Borgesio (mise il capitale e l’edificio) figlio di Martino, da tempo stabilitosi ad Avigliana e Oberto Calcagno di Piossasco con dimora in Torino, costituiscono una società per aprire una spezieria in un edificio di proprietà dei Borgesio situato in via Gregorio (ora S. Francesco d’Assisi) in prossimità della parrocchia di S. Gregorio, ora S. Rocco. Gli affari andavano a gonfie vele perché il gestore e titolare Calcagno nel 1415 dichiarava una giornata di terreno mentre nel 1436 ne avrà 73.

Antonio Voirone è un altro caso di attività assai redditizia con il commercio delle spezie. Nel 1380 costui possedeva una casa vicino a Porta Marmorea (incrocio tra via S. Teresa e via S. Tommaso). Nella sua bottega da “apotecario” si trovava di tutto: once di filati di seta, pelli, libri di musica, medicine…Vanta un credito di 800 genovini circa verso il principe Amedeo di Savoia-Acaia saldato nel 1392 e gli anticipa diverse somme come i 149 genovini d’oro pagati a Francesco Torneri di Pavia per velluti acquistati a Milano dal principe medesimo. Anche lui abitava in San Gregorio e oltre ad altri redditi mobili e immobili, svolgeva l’attività di speziale nella casa e nella bottega del defunto Bartolomeo Iappa che l’aveva affittata o ceduta al Voirone e gestiva anche la spezieria di San Gregorio. Il Voirone muore nel 1399 di peste. È probabile che l’edificio della spezieria fosse lo stesso divenuto poi di proprietà dei Borgesio, ove nel 1413 s’installò il Calcagno. Infatti, le figlie di Voirone, Guietta e Perina ereditarono tre case e questa possono averla venduta a Borgesio. Che la chiesa di S. Gregorio avesse due spezierie è molto poco probabile.

Voirone si assicurò diritti sui pedaggi a Torino e alcune gabelle come quella sul vino e la beccheria nel 1387 con una cordata di soci che insieme sborsarono 1.500 fiorini. Gli altri due soci erano Giovanni di Peladru e Giovanni di Grugliasco, entrambi osti. Il suo commercio quindi più che i tessuti, tratta spezie, medicine, drogheria, ferramenta e coloniali. Voirone si lanciò quindi in politica e divenne membro del Consiglio di credenza (o Consiglio minore o esecutivo) dal 1390 e rettore della Società Popolare di S. Giovanni Battista.

Purtroppo, non ci sono pervenuti i cartolari notarili del basso medioevo (l’unico atto è quello tra Borgesio e Calcagno del 23 febbraio 1413). I nomi degli speziali li deriviamo dai conti dei clavari sabaudi, dagli estimi, dai catasti o dai verbali del Consiglio di credenza e così i tipi di merce venduta.

Il radicale rinnovamento degli speziali dovuto a ragioni economiche e demografiche mise in evidenza volti nuovi come il Voirone e il de Triesto ma in genere costoro provenivano da famiglie in affari da tempo che erano solamente attente a diversificare gli investimenti.

È noto che taluni medici si dedicavano pure ad attività commerciali come, ad esempio, Bertramino de Embenis che gestiva anche una “apotheca speciariae” tra il 1429 e il 1434 anche se al tempo l’arte farmaceutica era considerata “vilis et mechanica” pur essendo assai redditizia mentre Pantaleone da Confienza, archiatra di corte e chiarissimo professore alle università di Vercelli e Torino, si diede a pubblicazioni di “farmacologia” come il Pillularium e la Summa lacticinorum.

I dottori dell’università erano organizzati in collegio medico e controllavano il mondo della salute su ordine delle autorità: chirurghi, barbieri, speziali che dovevano attenersi alle prescrizioni dei luminari. Ma empirici, pratici e guaritori improvvisati erano una categoria abbastanza potente e concorrenziale, tanto che nel 1490 la credenza vietò ai barbieri di praticare autonomamente il salasso con obbligo di prescrizione medica o di un pubblico funzionario.

Fin oltre la metà del XIX secolo i chirurghi non avevano né titoli né qualifiche e poco si distinguevano costoro dai barbieri se non per l’esperienza e una formazione un po’ più dotta.

Medici e chirurghi erano differentemente pagati, un evidente dislivello sociale e di prestigio tra le due componenti l’arte medica.

Importante era la sorveglianza dell’attività delle spezierie perché gli speziali non esitavano a dare consigli medici a buon mercato e molte volte non applicavano le misure igieniche richieste o vendevano sostanze pericolose, frodavano e adulteravano prodotti.

Ecco che all’epoca di Amedeo VIII vengono pubblicati statuti con cui era vietato adulterare prodotti medicinali, era fatto obbligo di attenersi alle prescrizioni mediche, si doveva giustificare l’uso di veleni con registrazione delle generalità del cliente e di tre testimoni fededegni oltre alla data di vendita. Evidentemente gli avvelenamenti erano frequenti. Gli abusi continuarono e il duca Carlo II il Buono nel 1532 emanò una serie di articoli di legge e affidò a due commissari medici il compito di farli osservare: erano previste ispezioni improvvise con sequestro dei medicamenti non conformi e si ribadiva il principio per cui gli speziali dovevano agire solo come esecutori essendo loro inibito lo smercio senza ricetta medica.

Foto di apertura: le farmacie torinesi Antica Farmacia Bosio, Anglesio e Collegiata dott. Ferrero (Foto di Luca Guglielmino).

Luca Guglielmino

Fine della Terza Parte - Continua

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Articolo pubblicato il 28/04/2022