I Gesuiti hanno fatto anche cose buone
Il gesuita padre Giovanni Caprile (1917-1993)

di Aldo A. Mola

Dare voce ai cittadini “comuni”

“The man in the street”. La “voce dell’“uomo della strada” fu il bastione e la riscossa del buon senso, del “sentire comune” negli anni bui dell’Europa totalitaria/autoritaria chiusa nella tenaglia rovente del nazismo hitleriano e del comunismo sovietico. All’epoca i dittatori si affacciavano al balcone per comunicare le proprie decisioni, destinate a segnare la sorte dei cittadini retrocessi a “sudditi”. In tutte le costituzioni postbelliche che già lo prevedessero vennero solennemente enunciati due principi inviolabili: “Tutti anno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21 della Carta dell’Italia) e “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”. Tutti gli interventi “in armi” comportati da alleanze devono passare al vaglio del Parlamento nazionale, come è avvenuto per le varie “missioni di pace: Parlamento sul quale ricadranno le ripercussioni delle sue decisioni, come avvenne sui re quando erano i titolari esclusivi del potere di dichiarare guerra, atto complesso includente deliberazione e proclamazione. Ma già Cavour, benché lo Statuto albertino non lo prevedesse ma non immemore che sconfitto a Novara Carlo Alberto aveva abdicato al trono (23 marzo 1849), per intervenire nella guerra di Crimea volle e ottenne l’esplicito assenso delle Camere.

E ora? Tanti, troppi “media” usano brandelli di esternazioni occasionali di questo o quel personaggio più o meno famoso per estremizzare e imbalsamare il “giudizio” su quello che occorre o non occorre fare, mentre incombe una catastrofe che potrebbe essere senza ritorno. Decisa da chi? Per quali obiettivi e/o tornaconti?

L’“informazione” mediatica sull’andamento della fase attuale di un conflitto ormai quasi decennale si disperde nella narrazione di dettagli macabri e/pietosi che possono suscitare qualche emozione la prima volta; ma poi risultano ripetitivi e scontati agli occhi di chi sa come sono sempre andate e vanno le guerre nel mondo e si domanda che cosa potrebbe avvenire se a qualcuno scappasse il dito per passare dalle scaramucce, dal “corpo a corpo” all’Apocalisse.

Volutamente o no? Al momento viene insinuato che Vladimir Putin, presidente della Federazione russa, sarebbe in difficoltà all’interno della sua cerchia di potere, di cui poco si sa. Ma come se la passa Joe Biden, presidente degli Stati Uniti d’America? A suo riguardo la certezza è conclamata: ampia sfiducia da parte di un’“opinione pubblica” ondivaga, divisa su questioni interne (inflazione, ordine pubblico assicurato a volte con metodi barbari, che suscitano emulazioni anche nel “Paese dei Limoni”) e l’interrogativo di sempre: chi comanda davvero là? Sa che cosa dice? Per chi parla a nome di chi?

 Altrettanto avviene nello spazio detto “Europa”, labile, a fisarmonica. C’erano e, per ora, ancora ci sono l’Unione Europea, i Paesi europei inglobati nella OTAN (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord), estesa sino alla Turchia), gli “altri” e poi lo spazio che nella “famiglia europea”, piaccia o meno a chi confonde la cronaca con la storia millenaria, comprende la Russia, come gli ugro-finnici, i magiari e altre etnie (ci riferiamo ai baschi, per evitare cattive interpretazioni, ma altre molte potremmo citarne).

  Constatato che l’Unione Europea non ha né una politica estera unitaria, né una forza militare e neppure una moneta unica (alcuni suoi membri usano l’euro, altri no), non ha insomma un governo effettivo ma solo competenze circoscritte e vincolate all’approvazione degli Stati aderenti (tanto che è prevista l’unanimità sulle decisioni vincolanti), almeno una volta all’anno è doveroso domandarsi chi in questa babele di idiomi parli “con lingua diritta”. Pasqua è il giorno giusto per fare pulizia e sgomberare il campo da ambiguità ed equivoci.

 

Il papa: Vox clamantis in deserto?

L’Uomo della Strada da decenni ha trovato un’unica voce limpida e coerente: quella dei papi di Roma, da Giovanni XXIII a Paolo VI, da Giovanni Paolo II (che confutò radicalmente il concetto di “guerra giusta”) a Benedetto XVI (lapidato, almeno a parole, perché avanzò pacate riserve sulla compatibilità tra islamismo e “diritti dell’uomo”, comprendenti quelli delle donne) e all’attuale Francesco. Per l’eterogenesi dei fini, le Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino hanno fatto da supporto agli imperi coloniali. La Dottrina Monroe (1823) ha consentito agli USA (all’epoca una piccolezza: dieci anni prima gli inglesi avevano saccheggiato e incendiato Washington) di soggiogare gli imperi ispano-portoghesi dal Messico alla Terra del Fuoco. La Lega delle Nazioni dal 1919 è stata la pedana per l’ulteriore spartizione degli spazi afro-asiatici a beneficio di “mandatari”. Eccetera eccetera. Tutti quei solenni documenti sono rimasti parole e l’Organizzazione delle Nazioni Unite non hanno mai impedito lo scoppio di guerre dalla genesi non del tutto chiara, dagli obiettivi taciuti e dalle prospettive peggio che fosche.

Perciò nella confusione dilagante emerge l’appello del papa alla pace, che vuol dire semplicemente un “alt” immediato e perpetuo alle operazioni belliche, alla gara a chi fa più danni al nemico (e pazienza per quelli “collaterali” sia sui nemici sia sugli amici) e gioiosamente sperimenta armi novissime sempre più sofisticate e micidiali, proprio come nell’Apocalisse. Senza quell’“alt”, la guerra ora in corso (ormai poco conta chi, quando, come l’ha preparata e iniziata) può andare avanti a tempo indeterminato, perché non è conflitto tra “popoli”, ideologie, principi o valori, ma tra sistemi di produzione bellica: conferisce corpo e volto definitivo alla Terza Guerra Mondiale “a pezzi”, paventata da papa Francesco nel memorabile Discorso di Redipuglia. È un pontefice che non si nasconde dietro giri di parole. Le pubblica con sobri commenti p. Antonio Spadaro S.J. direttore di “La Civiltà Cattolica”, il quindicinale della Compagnia di Gesù, “la più antica rivista in lingua italiana”, come orgogliosamente riporta la sua copertina.

A conferma basti ricordare alcune conversazioni svolte “a braccio” dal papa con i confratelli della Compagnia. Il 12 settembre 2021 Francesco invitò i 53 gesuiti della Provincia slovacca (non sapeva fossero tanti: vuole dire che “la peste si espande dappertutto”, osservò suscitando una risata) a “buttare il pallone al portiere”. Alla prima domanda, su come stesse, rispose: “Ancora vivo. Nonostante alcuni mi volessero morto. So che ci sono stati persino incontri tra i prelati, i quali pensavano che il Papa fosse più grave di quel che veniva detto, preparavano il conclave. Pazienza (…) Gli infermieri a volte capiscono la situazione più dei medici perché sono in contatto diretto con i pazienti”. Aggiunse: “A me fa male quando sia voi sia altri sacerdoti si ‘spellano’ tra loro. E questo ci blocca, non fa andare avanti. Ma questi problemi c’erano stati sin dall’inizio della Compagnia… È vero ci sono vescovi che non ci vogliono, è una verità...”. Suscitando scalpore enorme all’”esterno”, ricordò il lavoro svolto dal Sinodo sulla famiglia “per far capire che le coppie in seconda unione non sono già condannate all’inferno”; esortò al discernimento e con molta serenità osservò che “ci sono anche chierici che fanno commenti cattivi sul mio conto”. Tanto da fagli perdere la pazienza, a volte. Avvenne a Cristo quando cacciò i mercanti dal Tempio; può accadere al suo Vicario, persino nelle poco ovattate stanze di Santa Marta. Si riferiva ai propugnatori della celebrazione della messa con il vetus ordo.

Il 4 dicembre 2021 nel colloquio con i confratelli alla nunziatura di Atene toccò il tasto dolente della riduzione numerica della Compagnia: “Quando sono entrato in noviziato, ricordò, eravamo 33.000. Ora quanti siamo? Più o meno la metà. E continueremo a diminuire di numero. (…) La vocazione non dipende da noi. La vocazione la manda il Signore. Se non viene, non dipende da noi”. Un precetto, questo, che vale per tutti gli Ordini “sacri” se non si voglia confondere l’iniziazione con il proselitismo tramite videomessaggi o promozione telefonica. Lo Spirito Santo, come la veglia d’armi e l’investitura del Cavaliere, non è un Soggetto da sconti tariffari. Francesco distinse tra la stanchezza “brutta, nevrotica, che non aiuta” e quella “buona”: la “grande stanchezza di un uomo che ha dato la vita” e non perde il sorriso.

Parlava e parla nella perfetta consapevolezza che la Storia è irta di cadute.

 

La missione...

Come appunto è avvenuto alla Compagnia. Fondata da Ignazio di Loyola a Parigi il 15 agosto 1534 col proposito di predicare il Vangelo in Terra Santa nel solco di Francesco di Assisi, elevata a Ordine da papa Paolo III (Alessandro Farnese) con la bolla Regimini militantis il 27 settembre 1540, essa raggiunse l’apogeo sulla metà del Settecento. Arrivò a contare quarantanove province, seicentosessantanove collegi, trecento quaranta residenze e un esercito di ventiquattromila “religiosi” organizzati nelle cinque classi: novizi, studenti, fratelli laici o coadiutori temporali, sacerdoti e professi. Una milizia votata all’obbedienza al pontefice perinde ac cadaver. Lo aveva mostrato con l’evangelizzazione di genti lontane, sino al Giappone e alla Cina, terre di martirii e di trionfi, istoriate in innumerevoli opere d’arte e in chiese dai colori sanguigni dette “della Missione”. Come sempre accade nella storia, nel secolo dei lumi e della secolarizzazione sfrenata la potenza spirituale venne fraintesa all’esterno della Compagnia, suscitò invidia e demonizzazioni, sino alla callida invenzione dei Monita del polemico Girolamo Zaharovsky. Già sospettati di complotti contro la vita di sovrani anti-papisti, come Elisabetta I d’Inghilterra, che non esitò a far torturare a morte i gesuiti caduti nelle sue grinfie di Vergine Astrea (come era cantata da chi poco ne conosceva o molto apprezzava la spregiudicatezza politica), i membri della Compagnia divennero bersaglio di campagne d’opinione sempre più crude. Paradossalmente ebbero una sorte speculare a quella dei Cavalieri Templari giunti nel Duecento al massimo della loro espansione e forza economica e in pochi anni precipitati nell’abisso sotto la persecuzione di Filippo IV il Bello di Francia con la connivenza succuba di papa Clemente V (Bertrand de Got), che nel 1312 lo sciolse e non deplorò che il gran maestro Jacques de Molay e il suo “vice” venissero arsi vivi: una vicenda fosca, destinata a suscitare l’indignazione di contemporanei, come Dante Alighieri (a sua volta dai fiorentini condannato al rogo), e di un fiume di poeti e romanzieri che li elevarono a paradigma del ricorrente ricorso del Potere a inventare complotti e ad additare al ludibrio, alla condanna e allo sterminio i loro supposti artefici.

Quanto a metà Settecento nel volgere di pochi anni avvenne a danno dei Gesuiti ha dell’incredibile e deve far riflettere ancora oggi. Nel 1759, all’indomani dell’elezione di Lorenzo Ricci a Generale della Compagnia, i padri furono espulsi dal Portogallo, vittime della macchinazione ordita da chi li colpiva nel continente europeo per punirli di quanto avevano fatto nell’America meridionale e avrebbero quindi potuto attuare anche “in patria”, cioè nel Vecchio Continente ormai avviato al predominio del potere secolare su quello spirituale. E poi via via dagli altri Stati legati alla Casa di Borbone nel “patto di famiglia”. In pochi anni, dinnanzi alla ferma resistenza del Generale della Compagnia (sint ut sunt aut non sint), un altro papa di nome Clemente, il XIV, arrivò a decretare lo scioglimento della Compagnia. I suoi componenti trovarono rifugio e accoglienza nella Russia di Caterina e nella Prussia del “fratello” Federico II.

Le Riduzioni gesuite nell’opera di Gianpaolo Romanato

L’antefatto di quella fosca stagione è narrato da Gianpaolo Romanato in Le Riduzioni gesuite del Paraguay. Missione, politica, confronti (ed. Morcelliana, fresco di stampa). “Cattolico adulto”, docente nelle Università di Trieste-Gorizia e di Padova e componente del fattivo Pontificio comitato di scienze storiche, Romanato ha alle spalle volumi di lungo impegno su Daniele Comboni (L’Africa Nera fra Cristianesimo e Islam, ed. Corbaccio, presentato vent’anni orsono all’ISPI di Milano da Sergio Romano), la biografia di Giacomo Matteotti, Un italiano diverso (Longanesi, 2010: confidiamo venga aggiornata in vista del centenario, anche perché l’Autore dirige la Casa Museo Matteotti a Fratta Polesine), L’Italia della vergogna nelle cronache di Adolfo Rossi: 1857-1921 (ed. Longo) e Pio X. Alle origini del cattolicesimo contemporaneo (Lindau, 2014, Premio Acqui Storia, tradotto anche in spagnolo (e quindi accessibile a una platea di lettori dieci volte più numerosa degli italofoni).

L’Opera su Le Riduzioni gesuite ha richiesto a Romanato decenni di viaggi nei luoghi, anche oggi non facilmente accessibili, ove i padri “ridussero” cioè raccolsero i nativi (niente affatto “in cattività” come il vocabolo potrebbe far intendere) avviandoli a una vita comunitaria, realizzando il “cristianesimo felice” di cui scrisse, su relazioni altrui, Ludovico Antonio Muratori, che ebbe il merito di richiamare l’attenzione degli studiosi non prevenuti.

Dopo importanti saggi preliminari su gesuiti, guaranì ed emigranti nelle Riduzioni del Paraguay (all’epoca molto più vasto di come lo conosciamo oggi), sulla scorta di vastissima letteratura in varie lingue, fonti archivistiche e l’esplorazione di quanto rimane dell’“oggetto materiale” e della sua ricerca sul “soggetto spirituale”, in duecento e più pagine di “testo” e altrettante di fonti con sapiente ricamo Romanato intreccia le biografie dei pionieri e dei bandeirantes che lentamente, senza mai scoraggiarsi, in quasi due secoli di missione condussero gli indigeni dallo stato quasi ferino a comunità con regole chiare e certe, valorizzando le loro qualità anche in territori che ancor oggi sorprendono, compresi la musica e, perché no?, il gioco del calcio.

L’Europa “civile” però non poteva consentire che “alla fine del mondo” (come di sé disse l’“argentino” José Mario Bergoglio alla sua elezione sul Sacro Soglio) nascesse una società opposta a quella consentita dalle ferree regole vigenti in Stati che avevano combattuto le autonomie tradizionali, i “fueros”, gli statuti comunali, col loro rullo compressore. Nell’Europa del barocco, del rococò, di chi volteggiava da una all’altra corte tra motti di spirito e indifferenza nei confronti delle plebi, il comunitarismo delle Riduzioni risultava indigesto, anacronistico, inaccettabile, tanto più e peggio da quando i padri della Compagnia dovettero organizzarne la difesa contro le irruzioni di masnade di pochi scrupoli in caccia di schiavi. La grande tratta di negri dall’Africa verso le Americhe era ancora di là da venire. Ma il disprezzo dei mercanti di carne umana nei confronti degli indios era rimasto come ai tempi di Bartolomé de Las Casas che aveva sostenuto con forza che anche essi possedevano l’anima e andavano rispettati come esseri umani, fratelli in Cristo.

La Quaresima è alle spalle, ma tutto lascia presagire che primavera non brillerà nell’aria e maggio non sarà affatto radioso. La Pasqua è motivo di raccoglimento. Ancora una volta è papa Francesco, ad ammonire, come ha fatto nel colloquio con i padri della Provincia euromediterranea (Malta, Italia, Albania e Romania) ai quali ha detto che la Chiesa di Roma diventerà più piccola, perderà molti privilegi, sarà più umile e autentica e troverà energia per l’essenziale. “Sarà una chiesa più spirituale, più povera e meno politica: una chiesa dei piccoli”, come aveva già annunciato Benedetto XVI, libera da ipocrisia e da “atteggiamenti cortigiani”.

 

Heri dicebamus, oggi dimentichiamo?

Anziché storcere il naso, i non cattolici, giustamente pronti a rivendicare il diritto all’eresia e la libertà di pensiero, hanno motivo di riflettere su un Magistero che ha attraversato i secoli e si è liberato dalle scorie della secolarità.

Hanno motivo di domandarsi che cosa abbiano appreso e che cosa oggi sentano di dover ripetere nel solco di Immanuel Kant. Il pacifismo (che non è ping-pong tra neutralità pelose, come quella svizzera, e alleanze militari) era solo un’utopia o una scelta fondata sulla consapevolezza che dal 6 agosto 1945 tutto è cambiato e che in ogni istante l’umanità rischia la propria autodistruzione, magari per distrazione?

È tempo di tornare all’iniziatismo autentico, vestibolo della fratellanza universale, antitetica all’anarchia planetaria oggi dilagante. Un Ordine iniziatico che dall’origine professò i principi oggi in gran parte condivisi da papa Francesco, così diverso da suoi precursori corrivi alla “scomunica”, e in Italia visse quasi sempre in clandestinità ha motivo di consolazione constatando l’abissale diversità tra le Chiesa di Roma e culti ancora immersi nel fondamentalismo e nell’intolleranza. 

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 18/04/2022