In principio era l’Italia

1943-1945 continuità e riscossa (di Aldo A. Mola)

La resa non fu una “disfatta”

Dopo ottant’anni i drammatici eventi dell’estate 1943 suscitano ancora oggi sentimenti contrastanti, spesso di indignazione e di condanna morale di molti loro protagonisti. Quei fatti, però, non vanno estrapolati dalla storia d’Italia, quasi fossero punta di iceberg in un oceano inesplorato. Essi viceversa furono conseguenza dell’assetto dei poteri del regno nato nel 1861 sulla base dello Statuto albertino del 4 marzo 1848: un triangolo scaleno segnato dalla sproporzione tra il capo dello Stato, l’esecutivo (di sua nomina) e il legislativo.

In Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio (il Mulino, 2021) Paolo Cacace conferma che la revoca di Benito Mussolini da capo del governo e la sua sostituzione con il maresciallo Pietro Badoglio furono iniziativa personale di Vittorio Emanuele III, assecondato dal ministro della Real Casa Pietro d’Acquarone e dalla ristretta cerchia di militari di sua assoluta fiducia. Il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo a maggioranza “esortò” il re a esercitare i poteri statutari, senza però mettere in discussione il regime. Perciò Mussolini chiese udienza al re e nel pomeriggio si recò a Villa Savoia convinto che quasi nulla sarebbe cambiato. Nei disegni del re quel voto, intorno al quale tanto è stato scritto, era invece un eccipiente secondario rispetto al suo piano, curato nei dettagli in grande segretezza. I nuclei antifascisti albeggianti e le romanzesche trame cospirative di cui ancora recentemente si è fabulato, a loro volta risultarono irrilevanti. Fu la Corona a decidere tempi e modi della “svolta”, anche sbrigativi, come il “fermo” del duce, che si premurò di dichiararsi pronto a collaborare con Badoglio. Come osservò Luigi Einaudi, citato dal presidente Sergio Mattarella a Dogliani il 12 maggio 2018, chi detiene la somma dei poteri, può lasciarli apparentemente dormienti per vent’anni, salvo valersene quando percepisce che sia venuto il momento. Così fece il re.

Di seguito fu lui ad autorizzare la ricerca inevitabilmente lenta del contatto con il Comando nemico per ottenere che all’Italia, ormai in un tunnel dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, fosse concessa la “resa senza condizione”, deliberata dagli anglo-americani a carico dei vinti nella Conferenza di Casablanca su richiesta ultimativa di Stalin. Anche per conseguire questo scopo Corona e capo del governo si valsero di militari, unici interlocutori affidabili perché per lo Statuto il re aveva il comando delle forze armate, mentre sin dal regio decreto del 14 novembre 1901 il referente obbligato di tutti i ministri, Esteri incluso, era il capo dell’esecutivo.

L’obiettivo fu raggiunto in meno di un mese con la firma a Cassibile della resa (surrender, non, come poi si edulcorò, “armistizio”, che è frutto di stipula tra le parti). Lo strumento sottoscritto dal generale Giuseppe Castellano, datato “Sicilia, 3 settembre 1943” è esplicito: segnò la “sconfitta” ma, a differenza di quanto è stato talvolta affermato, non determinò la “disfatta” dello Stato d’Italia, perché la resa fu concessa (o imposta) al “governo del Re”, ovvero a Vittorio Emanuele stesso. Il “Comandante in capo” dei vincitori si riservò di stabilire “un Governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell’interesse militare delle Nazioni alleate” e di dettare “altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario che l’Italia dovrà impegnarsi ad eseguire”, analiticamente contenute nel secondo strumento di resa consegnato dal generale Dwight Eisenhower a Badoglio a Malta il 29 settembre 1943: così duro e mortificante da essere tenuto segreto. Però con la resa la monarchia ottenne tre vantaggi preziosi: lo Stato non fu debellato ma chiamato a rispondere da vinto quando fosse giunto il momento; a differenza della sorta poi toccata alla Germania, non ne venne previsto in alcun modo lo smembramento; e la sua forma istituzionale non venne messa in discussione. Anzi, per gli inglesi, più lungimiranti degli americani, la monarchia costituiva una garanzia.

Il verbale del colloquio svolto il 29 settembre a margine della firma precisò la cornice degli eventi successivi. Il Comandante vincitore incitò il vinto a dichiarare guerra alla Germania, a “immettere nuovi elementi nel suo governo”, previo il placet del generale Mason Mac Farlane e, “parlando da soldato”, a destinare alla lotta contro la Germania le “divisioni migliori”. Badoglio precisò che “per la legge italiana solo il re  può dichiarare guerra” e scegliere i nuovi membri del governo. Assicurò la massima collaborazione anche in vista dell’ingresso in Roma (da Eisenhower dato per imminente: avvenne otto mesi dopo), accolse con freddezza l’annuncio del ritorno in Italia del “conte” Carlo Sforza, gran collare della SS. Annunziata e senatore ma accesamente repubblicano, auspicò di essere considerato “un collaboratore completo” e chiese di “prendere contatto col maresciallo Messe, ora prigioniero di guerra in Inghilterra”.

 

I punti di debolezza: il CLN contro la monarchia

Lo scenario istituzionale e politico italiano era però profondamente diverso da quello ventilato dal Comandante alleato. Il Comitato dei partiti antifascisti operante clandestinamente in Roma da metà agosto 1943, contrario a condividere il “passivo” della guerra e deciso a scaricarne la peso esclusivamente sulla Corona, assunto il nome di Comitato (Centrale) di liberazione nazionale tra fine settembre e inizio ottobre, rifiutò ogni collaborazione con il governo Badoglio, riservando gelida accoglienza alla proposta di collaborazione avanzata dal colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo, capo del Fronte militare clandestino. Lo ricorda Ivanoe Bonomi in Diario di un anno, 2 giugno 1943-10 giugno 1944. Il CLN propugnò l’immediata abdicazione del re, la rinuncia del principe Umberto alla successione e il conferimento della Corona al principe di Napoli, Vittorio Emanuele, di appena sette anni, sotto tutela di un reggente di nomina politica, contro la lettera dello Statuto. Anche molti liberali si accodarono e per bocca di Carandini fecero sapere di essere per “assemblea costituente più abdicazione”.

A vulnerare la continuità istituzionale aveva concorso proprio Badoglio che a inizio agosto, cancellati per decreto il Partito nazionale fascista, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, il Gran consiglio e tutte le organizzazioni del passato regime, aveva sciolto la Camera dei fasci e delle corporazioni in vista dell’elezione di una nuova Camera dei deputati entro quattro mesi dalla fine della guerra. Pertanto, data la natura bicamerale del Parlamento, il Senato fu paralizzato e il re risultò politicamente sovraesposto. La “monarchia rappresentativa” fu sospesa sotto il profilo formale e sostanziale. Il triangolo Corona, Governo, Parlamento fino a quel momento scaleno venne spezzato.

Sotto il profilo politico la parola passò dalle istituzioni vigenti a forze autoconvocate, come il congresso dei CLN, radunatosi a Bari il 28-29 gennaio 1944. Nel suo corso venne ribadita la richiesta di immediata abdicazione di Vittorio Emanuele III, da alcuni liberali liquidato addirittura come “cencio sporco”.

Per gli anglo-americani, pur diversi nella loro grammatica politico-istituzionale, lo Stato d’Italia era quello impersonato dal re e dal governo di sua nomina. Se mai avessero avuto motivo di dubitarne (ma non ne esistono documenti probanti) a rafforzarli nella loro posizione fu la costituzione della Repubblica sociale italiana incardinata su Mussolini e succuba della Germania. Malgrado tutto, all’indomani della resa e del trasferimento del re, del principe ereditario e del governo da Roma a Brindisi, nei modi che tante polemiche hanno suscitato e ancora sollevano, i vertici delle Forze Armate furono a fianco del sovrano. Il 26 settembre 1943 Vittorio Emanuele III ordinò l’organizzazione del Raggruppamento “Savoia”: un primo nucleo di circa 5.000 uomini. Cinque giorni dopo la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre), lo passò in rassegna nei pressi di Manduria. La riorganizzazione dell’Esercito molto deve alla tenacia di Giovanni Messe, ultimo Maresciallo d’Italia, biografato dal generale Antonio Zerrillo e da Luigi Emilio Longo nel volume pubblicato dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (2006).

Il 15 novembre il Raggruppamento “Savoia” fu autorizzato a muovere verso la linea del fronte di combattimento. Sulle fiancate degli automezzi il colonnello Valfrè di Bonzo fece istoriare lo scudo sabaudo. A inizio dicembre venne aggregato alla 36^ divisione statunitense del II corpo d’armata e (come scrisse Gabrio Lombardi) fu incaricato di espugnare il “dosso allungato, scoperto e roccioso, spezzato in una lunga serie di ondulazioni di altezza crescente”: Montelungo. Lì, l’8 e il 16 dicembre 1944, ebbero luogo le sue prime prove con attacchi ripetuti a reparti della divisione “Goering”. Subì pesanti perdite. Il primo giorno perse 4 dei 5 ufficiali in linea. Mostrò che “l’antiquo valore/ne l’italici cor non [era] ancor morto”. Lo stesso principe ereditario, che si levò in volo di ricognizione per fornire precise informazioni sul nemico, meritò la prima delle due onorificenze conferitegli dagli anglo-americani: la Silver Star e la Legion of Merit.

La riorganizzazione delle Forze Armate, a cominciare dal Regio Esercito, avvenne in quei mesi difficili per tutti. Il motto del Re e del principe ereditario Umberto di Piemonte, dal 5 giugno 1944 Luogotenente del Regno, fu “Viva l’Italia”. Continuò a garrire il tricolore che dal 1848 ne aveva guidato la lunga marcia verso l’indipendenza e l’unità nazionale con “in alto la Bandiera”, come ha scritto lo storico militare gen. Oreste Bovio.

 

Gli uomini che fecero l’impresa (1943-1945) in una Mostra a Torino

Dal rovesciamento del regime fascista all’instaurazione dalla Repubblica (19 giugno 1946) si susseguirono sei diversi governi. Nell’ordine, il maresciallo Pietro Badoglio ne presiedette tre diversi dal 25 luglio 1943 al 18 giugno 1944; Ivanoe Bonomi (ex socialista riformista, democratico, esponente della Democrazia del lavoro) ne guidò due sino al 21 giugno 1945. A lui segui il breve governo presieduto da Ferruccio Parri, comandante delle formazioni partigiane “Giustizia e libertà”, esponente del Partito d’azione, dal quale si separò nel congresso del febbraio 1946. Il 10 dicembre gli subentrò il democristiano Alcide De Gasperi, a capo di un governo formato da ministri dei sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (comunisti, socialisti, azionisti, democratici del lavoro, democristiani, liberali), con esclusione del Partito repubblicano italiano capitanato da Randolfo Pacciardi.

Al ministero della Guerra si susseguirono nell’ordine i generali Antonio Sorice e Taddeo Orlando con Badoglio; il liberale Alessandro Casati con Bonomi, il democristiano Stefano Jacini con Parri e il repubblicano e massone Cipriano Facchinetti con De Gasperi.

Nello stesso arco di tempo si susseguirono due soli Capi di Stato Maggiore Generale: il maresciallo d’Italia Giovanni Messe dal 18 novembre 1943 al 1° maggio 1945, quando gli subentrò il generale designato d’armata Claudio Trezzani. L’opera di Messe (massone, già aiutante di campo di Vittorio Emanuele III) è stata al centro di convegni e delle biografie scritte da Emilio Longo (Ufficio Storico dello SME, 2006) e dal generale Zerrillo in Il Regno di Vittorio Emanuele III 1938-1946 (BastogiLibri, 2021).

Capi di stato maggiore dell’Esercito furono i generali Mario Roatta sino al 18 novembre 1943; Paolo Berardi fino al 10 febbraio 1945, quando assunse il comando delle Forze Armate in Sicilia per contrastare l’Esercito volontario per l’indipendenza dell’isola, Ercole Ronco e infine il generale di divisione Raffaele Cadorna, già comandante del Corpo Volontari della Libertà, figlio di Luigi Cadorna, comandante supremo durante la Grande Guerra (su cui fa luce il volume Luigi e Carlo Cadorna, Caporetto? Risponde Cadorna, BastogiLibri, 2021).

Capo di Stato Maggiore della Marina (carica abbinata a quella di sottosegretario della Marina) fu l’ammiraglio Raffaele De Courten; a Capo di Stato Maggiore dell’Areonautica si susseguirono i generali Pietro Piacentini e Mario Aymone Cat. Quattro furono i comandati generali dei Carabinieri: i generali Angelo Cerica fino al 9 settembre 1943, Giuseppe Pièche dal 15 novembre 1943 al 20 luglio 1944, Taddeo Orlando e dal 7 marzo 1945 Brunetto Brunetti.

La loro opera si coniugò a quella dei comandanti del Corpo Italiano di Liberazione e, di seguito, dei Gruppi di Combattimento “Cremona” (generale Clemente Primieri), “Friuli” (gen. Arturo Scattini), “Folgore” (Giorgio Morigi), “Legnano”, “Mantova”, “Piceno (gen. Emanuele Beraudo di Pralormo), impegnati nell’avanzata verso il Nord.

“Nel decennale della Resistenza e del ritorno alla democrazia” il loro fondamentale contributo alla ricostruzione dell’Italia è stato documentato dal gen. Primieri in Il Secondo Risorgimento (Roma, Poligrafico dello Stato, 1955, con contributi di Aldo Garosci, Raffaele Cadorna, Costantino Mortati e altri) e, sulla scorta di ampia documentazione, dal generale Pierluigi Bertinaria nel convegno internazionale di studi (Milano 17-19-maggio 1984) La cobelligeranza italiana nella lotta di Liberazione dell’Europa, i cui atti sono stati pubblicati dal Ministero della Difesa-Comitato storico “Forze Armate e Guerra di Liberazione” (a cura di A.A.M, Roma, 1986).

La complessa evoluzione dal Raggruppamento “Savoia” al CIL e ai Gruppi di Combattimento è documentata dalla Mostra al Mastio della Cittadella di Torino (C.so Galileo Ferraris), allestita dal 22 al 30 aprile per iniziativa di illustri personalità (i generali Pastorello, Cinaglia, Uzzo, Puliatti e altri) di concerto con il Museo Storico Nazionale di Artiglieria e l’Associazione Nazionale Artiglieri d’Italia. La Mostra (i cui catalogo è in stampa) è aperta il 22 da una conferenza con interventi di Gianni Oliva e Pierfranco Quaglieni e viene conclusa il 30 con relazioni dei generali Antonio Zerrillo e Giorgio Blais. Entrambi gli incontri sono presieduti da Pier Carlo Sommo.

L’importante iniziativa scientifica e didattica evidenzia la continuità dell’Esercito italiano dalla sua costituzione (1861) a oggi e percorre il ruolo svolto per 19 mesi dalle forze armate italiane riorganizzate, giunte a contare 450.000 uomini tra reparti combattenti e ausiliari, senza dimenticare gli 80.000 militari che operarono nelle formazioni partigiane sorte nell’Italia centro-settentrionale, non solo di ispirazione dichiaratamente monarchica ma anche nelle file di Garibaldini, Giustizia e libertà, Matteotti e nelle brigate “bianche”, cioè di ispirazione democristiana o genericamente “cattolica”. Il panorama del contributo dato dai militari alla “Riscossa” (come Raffaele Cadorna intitolò le sue Memorie) non sarebbe completo se non venisse tenuto conto anche degli Internati Militari Italiani (la loro storia è stata recentemente documentata da Avagliano e Palmieri, ed. Mondadori) e dei prigionieri italiani negli USA e Gran Bretagna.

A quasi ottant’anni dai fatti, la svolta voluta e attuata da Vittorio Emanuele III nell’estate 1943 viene ricomposta alla luce meridiana la verità storica.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 10/04/2022