Giosue Carducci
GIOSUE CARDUCCI, Ritratto da Alessandro Milesi (Casa Carducci, Bologna)

La sofferta iniziazione alla vita (di Aldo A. Mola)

Sommersi dal diluvio di agenzie su eventi bellici, prospettive catastrofiche, speranze di mediazioni fra i contendenti e interrogativi sulle origini prossime e remote del conflitto esploso nell'Europa orientale, registriamo l'avvento della putinologia. I suoi specialisti estraggono i ferri del mestiere non dalla storia e dalla vastissima congerie di fatti e di documenti ma dalla cassetta di “discipline” poco utili se applicate a un “fantasma” qual è, allo stato, Vladimir Putin. Poiché non l'hanno “sul “lettino” i negromanti scavano su dettagli biografici a caccia di spiegazioni plausibili sulla condotta di chi ha il domino politico-militare della Federazione delle repubbliche russe. In mancanza di certezze fantasticano sui suoi possibili malanni e sui medicinali di cui farebbe uso. La geo-strategia, la politologia e le altre dottrine sussidiarie della Storia lasciano il passo allo spiritismo. Come nell'Europa della Belle Epoque, precipitata nell’abisso della Grande Guerra per insipienza di statisti e pochezza degli “intellettuali”.

Le esperienze giovanili pesano sulla formazione di ogni persona. Ma sono come il Tema vitale degli astrologi: non sono predittive, bensì orientative. Possono essere dominate. È quanto seppe fare Giosue Carducci (Valdicastello, Pietrasanta, 27 luglio 1835-Bologna, 16 febbraio 1907): un gigante della letteratura e dell'organizzazione culturale della Nuova Italia, oggi purtroppo pressoché dimenticato.

 

Carducci lugubre: perché?

“Passa la nave mia, sola, tra il pianto/...Volgono al lido, omai perduto, in tanto/ le memorie la faccia lacrimosa.../ Voghiam, voghiamo, o disperate scorte/, al nubiloso porto dell'oblio,/ a la scogliera bianca de la morte”. Quando scrisse questo “sonetto”  Giosue Carducci aveva 16 anni. Lo datò “estate 1851”. Perché così lugubre?  La spiegazione va cercata frugando in carte d'archivio che meritano riflessione.

Primo e insuperato italiano premio Nobel per la letteratura, deliberato l'8 novembre 1906 dall'Accademia di Svezia, il 26 luglio 1850, alla vigilia del quindicesimo compleanno, il futuro Maestro e Vate della Terza Italia fu arrestato a Firenze col fratello minore, Dante, di due anni più giovane. A denunciarlo fu suo padre, Michele, chirurgo, all’epoca a Firenze con la moglie, Ildegonda Celli, e i tre figli (Giosue, Dante e Valfredo), dopo varie peregrinazioni e la rinuncia alle condotte di Bolgheri e Castagneto, privo di impiego pubblico e preoccupato che, fallita la prima guerra contro l'Austria, il governo granducale accendesse i fari sui suoi trascorsi settari.

Da un rapporto segreto della gendarmeria risulta che i due ragazzi avevano maltrattato il genitore “perché contrario alle lor massime repubblicane”. La relazione giornaliera della delegazione di governo del quartiere di Santo Spirito al Ministero dell’Interno lascia pochi dubbi sul fatto. Michele aveva dovuto “salvare in casa la propria vita”, perché il figlio maggiore “con un Ferro Chirurgico gli era improvvisamente andato a dosso” (sic). Tradotto dinanzi al tribunale, Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci si mostrò arrogante. Interrogato, rispose ghignando che la legge non consentiva di punire i figli “che non avevano altra pecca di non amare il proprio padre”. Venne chiuso in “stanza di sequestro” o, come si legge in altro documento, in “camera di forza”. Tutto lascia credere che non se la sia passata benissimo, e non solo per il calore e l’umidità di Firenze in quello scorcio d’estate.

Carducci aveva appena terminato il primo anno di studi nel collegio dei padri scolopi a San Giovannino, in Firenze. Aveva alle spalle una geremiade di travagli, comprese le fucilate che avevano costretto suo padre a fuggire da Bolgheri e i contrasti con la popolazione di Castagneto. Rifugiato a Firenze, Michele voleva evitare fastidi dal governo del Granduca Leopoldo II d’Asburgo-Lorena, che dieci anni prima, quando ancora era studente all’Università di Pisa, lo aveva condannato al confino a Volterra perché sospetto di iniziazione alla Carboneria, l’associazione segreta alla quale aderì anche Giuseppe Mazzini, primo della classe quanto a settarismo (ma oggi non se ne parla). Da Pietrasanta, ove aveva casa e nacque il primogenito (a Valdicastello, oggi Valdicastello Carducci: piccolo borgo sotto il monte Gabberi), Michele Carducci aveva vagato in tanti piccoli centri, con scarso stipendio e molte amarezze. Nel 1849 si trasferì a Firenze, ove, dopo il breve triumvirato Guerrazzi-Montanelli-Mazzoni, il Granduca Leopoldo II d'Asburgo-Lorena aveva ripreso le briglie dello Stato. Cadute la Repubblica romana e quella di Venezia l’unità d'Italia sembrava una causa persa, comunque lontanissima sull'orizzonte. Se non si poteva vivere secondo le proprie convinzioni, almeno bisognava sopravvivere. I contrasti politici e umorali tra Giosue e suo padre erano continui. In una lettera ad Angelo De Gubernatis nel 1871 Giosue scrisse che quando era adolescente suo padre lo vessava in molti modi, lo “chiudeva in prigione” e, non bastasse, gli faceva leggere le opere di devozione di Alessandro Manzoni e di Silvio Pellico... Si pensava fosse una metafora. Invece è una cruda realtà.

 

Compleanno in “camera di forza”

Dopo l’arresto, la sera del 26 luglio 1850, su richiesta di Michele i gendarmi rilasciarono il tredicenne Dante, ritenuto dal padre “meno colpevole”. Giosue invece rimase in carcere. Proprio alla vigilia del suo 15° compleanno. Fu la prima delle tristi vicende che ne segnarono la vita. Essa aiuta a comprenderne l’opera di poeta e scrittore politico: all’insegna della ribellione da una parte e, dall’altra, della ricerca di ordine interiore, di disciplina, di devozione a un Ideale superiore: la Libertà. Il padre voleva trattenerlo da imboccare una via pericolosa. Il ragazzo, precocissimo, scriveva versi di fuoco contro i ‘tedeschi’ che occupavano Firenze e l’Italia...

Rilasciato e tornato studente modello al San Giovannino (alla scuola di padri scolopi geniali quali Geremia Barsottini, Eugenio Barsanti e Francesco Donati, “Cecco Frate”), dall’ottobre 1850 Giosue scrisse i versi A la sventura, Il delirio del Trovatore e La mia vita. Cantò la madre, unica sua “amica”, la sola che nei giorni tristi seppe capirne il dolore. Da quel dramma il quindicenne Carducci comprese quanto sia breve il passo tra il Bene e il Male, tra la buona e la cattiva sorte. Il ribelle, spinto dalla passione politica sino allo scontro fisico col padre, venne messo a tacere dallo studioso, ma non cessò di ruggire. Lo ritroveremo negli anni di Giambi ed Epodi, percorsi da umori che possono essere riassunti nel Carducci “nero”, fosco, volgente alla malinconia e da questa alla rivoluzione sociale e politica che costituisce il tema conduttore della sua opera sino ai dodici sonetti di Ça ira, scritti un lustro dopo l’incontro con la Regina Margherita di Savoia e con Umberto I e la sua migrazione dalle sponde garibaldine, con venature mazziniane, alla difesa della monarchia, bastione del neonato Stato d'Italia.

Sette anni dopo l’arresto, il 4 novembre 1857 Giosue visse il secondo dei tanti drammi della sua giovinezza: la morte del fratello Dante durante un alterco col padre a Santa Maria a Monte. Suicidio? Un colpo di bisturi involontario? Mistero. Non venne fatta alcuna autopsia. Da San Miniato al Tedesco, a soli otto chilometri dalla tragedia, Giosue si presentò solo sei giorni dopo, a funerali avvenuti. Perché impiegò tanto tempo? Aveva intuito e doveva metabolizzare la tragedia di casa? Nascondeva a se stesso la verità? In un’accorata lettera a un amico narrò di aver chiesto informazioni sulla morte del fratello: il dramma, però, non ebbe testimoni, a parte il padre che (si disse) chiamò aiuto affacciandosi sulla via, sconvolto e con un occhio tumefatto come dopo una colluttazione. Si sapeva che era malato. Morì pochi mesi dopo, sul Ferragosto del 1858. Quando sentì approssimarsi la Grande Visitatrice fece chiamare al capezzale suo figlio. Giosue però giunse quando il padre era già spirato. Subito dopo i funerali, si affrettò a vendere per pochi paoli i ferri chirurgici paterni, la cui vista tanta angoscia gli dava.

Quanto alla morte di Dante, l’autorità giudiziaria optò per la versione meno traumatica: un suicidio. Per delusione amorosa, si fabulò. Anche il parroco avallò, pur confidando i suoi dubbi al registro dei morti, ove parlò di un “mistero” pieno di “alto spavento”. I funerali religiosi (solitamente interdetti ai suicidi) chiusero ufficialmente il caso. Giosue scrisse cinque sonetti per la morte del fratello, prima di raggiungerne la salma. Poetò poi sulla sua tragedia quando morì il suo secondo maschio, Dante, quattro anni dopo la perdita del primo figlio, battezzato Francesco perché stava studiando Petrarca (solitamente ignorato dalle sue biografie).

La lapide che a Santa Maria a Monte (Pisa) ricorda la tragedia di Casa Carducci indica una data sbagliata: 5 anziché 4 novembre 1857. Ma persino la data di nascita del grande poeta rimane incerta: generalmente è fissata al 27 luglio, ma sulla casa natale di Valdicastello una lapide dice che nacque il 28, come del resto si ricava dal registro parrocchiale.

Molti anni dopo la morte di Dante un illustre letterato allobrogo, Onorato Roux, cercò di ottenere da Carducci ricordi giovanili per un’opera antologica di largo successo sui trascorsi dei personaggi famosi. Dopo molte tergiversazioni il poeta rispose con un secco “No!”. Non intendeva scavare nel passato né aveva piacere che altri lo facesse per lui. Aveva la morte nel cuore. Ma era sua.  All'esterno ostentava sicurezza, vitalità: “voghiam, voghiamo...” per un'Italia migliore, non verso “la scogliera bianca de la morte”.

Solitudine di un iniziato all'Italia

A Valdicastello-Pietrasanta tornò solo molto avanti negli anni, in compagnia delle sue amiche e ispiratrici, Carolina Cristofori Piva (Lina, Lidia, Lydia...) e la fantastica Annie Vivanti, il “fantino” in sella a “Giosue Cavallo” tra il 1890 e il secondo più grave ictus del 1899, che gli causò paresi del braccio e della mano destra e perdita della favella, dolorosa per un docente e conversatore appassionato qual era. Un viaggio a Civitavecchia per incontrare clandestinamente Lina (1874) lo riavvicinò a Bolgheri e a Castagneto, che poi frequentò per condividere banchetti di selvaggina e grandi libagioni (“ribotte”) con gli amici di un tempo. Celebri furono quelle del 1885-1886, connesse alla sua candidatura a deputato alla camera per il collegio di Pisa. Non rimise però piede nei borghi che suscitavano malinconici ricordi: Celle, Pian Castagnaio e soprattutto Santa Maria a Monte, ove prese sempre più credito la voce che Dante non fosse affatto morto suicida ma per mano del padre.

Carducci ebbe due personalità: quella ufficiale di professore illustre, di poeta celebre nel mondo, e quella nascosta: il massone, il “satanico”. Alla luce dei documenti inediti la sua tragedia interiore risulta più decifrabile e si comprende meglio anche l’Inno a Satana (1863), nel quale celebrò la scienza che plasma la “seconda natura”, la modernità conciliata con la natura originaria dei luoghi cari al Poeta: la Versilia, la Maremma, le Alpi. Le due nature, la bellezza del creato e quella forgiata dall’uomo, lo aiutarono a superare la morte dei due figli maschi, Francesco e Dante.

Dopo il fallimento della spedizione di Garibaldi dalla Sicilia verso Roma (agosto 1862), ancor sempre capitale dello Stato Pontificio con Pio IX papa-re, da quattro anni docente di eloquenza all’Università di Bologna Carducci si immergeva negli studi di letteratura, filologia, linguistica e di storia, ma coltivava anche la passione politica. Non si può neppur dire che la nascondesse. Il 1° agosto 1864, quand’aveva da poco compiuto 29 anni, firmò la squillante convocazione di un’assemblea popolare e la pubblicò nel giornale politico “Il Progresso”, espressione dei democratici vicini al partito d’azione. Il suo nome si aggiunse a quelli di Francesco Domenico Guerrazzi, Lorenzo Niccolini, Giuseppe Dolfi, Antonio Martinati, Odoardo De Montel..., tutti massoni. Lo stile e i contenuti fanno attribuire a Carducci l’articolo di fondo del giornale che, senza titolo, sotto la data Firenze 9 agosto, si apre con l’appello: “Fuori i ladri! Ecco il grido o, se volete, la formola colla quale può rendersi nettamente il pensiero” del comitato promotore dell’assemblea convocata per deliberare “intorno alle supreme necessità della patria”. “Si: fuora i ladri, e tutti, o manifesti o nascosti! Fuori i ladri d’ogni colore...”: un vero e proprio incitamento alla ribellione immediata, a far piazza pulita della dirigenza corrotta e inetta. Era, si è detto, il 1864: quattordici anni dopo l’arresto a Firenze e quattordici anni prima dell’incontro a Bologna con la Regina Margherita, che ne accelerò la svolta a fianco della monarchia non perché attratto dall'“Eterno femminino regale” ma in nome dell’unità nazionale e della difesa del Risorgimento. L'alternativa alla Corona erano le tonache. A suo tempo lo capirono Antonio Gramsci e Concetto Marchesi, che votò contro l'inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione della Repubblica italiana. A quel punto aveva un motivo in più per cancellare ogni traccia del ribellismo giovanile e liquidare l’Inno a Satana come una “chitarronata”.

Carducci concorse dunque a “ri-velare” sia il suo passato sia la sua vita quotidiana. Consegnò se stesso a pochi memorabili versi per il fratello, il figlio, la nonna, le emozioni giovanili, la sfortunata Lina e l'indomabile Annie Vivanti. Sotto il profilo umano Carducci rimase irrisolto, incompiuto, persino scostante e quindi indecifrabile. I versi e i discorsi famosi erano la scorza sotto la quale scorreva altra linfa. Motivo in più per riprenderne lo studio. Va però sottratto a letterati e accademici e restituito alla sua genuina grandezza di scrittore, politico, massone, stratega della cultura della Terza Italia ed espressione di tutte le contraddizioni della sua epoca, campione dei patrioti che unificarono l'“itala gente da le molte vite”.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 13/03/2022