La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Il terribile assassinio Borbonaglia

La Stampa di martedì 4 aprile 1899 racconta che una grave rissa è avvenuta nella sera del giorno precedente, in località Cà neire, fra i fratelli Enrico e Giovanni Borbonaglia e una comitiva di otto o nove sconosciuti. Enrico ha ricevuto una gravissima coltellata al costato e suo fratello Giuseppe tre ferite in diverse parti del corpo.

I feriti hanno raggiunto da soli una farmacia, dove sono stati visitati dal medico municipale. Due guardie municipali li hanno poi accompagnati con una carrozza pubblica all’Ospedale San Giovanni, dove Enrico è stato ricoverato.

Per chiarire i motivi della rissa, Giovanni racconta che il 3 aprile Enrico, giovane operaio, mentre rincasava, poco lontano da casa sua, tre giovinastri gli si erano fatti incontro, l’hanno afferrato bruscamente per il panciotto e, minacciandolo con i coltelli alla mano, lo hanno alleggerito dell’orologio, della catena e del portafogli. Dopo di che i tre figuri si sono squagliati.

Enrico, giunto a casa, vi ha trovato il padre e il fratello Giovanni: in poche parole ha narrato loro la sua disavventura, e tutti e tre sono ritornati nella via, dove hanno trovato i depredatori, ai quali si erano uniti anche alcuni altri giovinastri. I Borbonaglia non hanno pensato alla sproporzione del numero. Li hanno affrontati in uno scontro terribile, brevissimo.

Alla fine, sul terreno giacevano i tre Borbonaglia: Enrico col fianco squarciato, il padre e il fratello feriti gravemente.

Giovanni narra di essere stato colpito da un certo R. e non sa fornire nessun’altra indicazione sui suoi feritori, che sono fuggiti. Il fratello Enrico non può essere interrogato per la gravità della ferita ricevuta, che ne provoca la morte, avvenuta sabato 8 aprile.

Nella rissa è stato anche ferito, con una coltellata alla guancia, Gabriele Bruera, manovale di 26 anni. Dopo essere stato medicato al San Giovanni viene arrestato, indiziato di essere uno dei feritori dei fratelli Borbonaglia.

Iniziano così le indagini su questo caso di omicidio che desta un certo clamore in Torino per l’atrocità con cui è stato commesso. Si protraggono nel tempo e avranno anche dei risvolti curiosi.

La Stampa del 27 giugno 1900 annuncia che il 17 luglio avrà inizio il grave processo a carico di una banda di assassini responsabili dell’uccisione e del ferimento dei Borbonaglia.

Il giornale ne presenta i componenti come tutti piemontesi, assai noti nel mondo dei barabba torinesi, alcuni accusati di essere gli autori dell’omicidio Borbonaglia, gli altri come complici. Sono Pietro Ronchietti, Leandro Reinotti, Giovanni Rosso, Giuseppe Balma detto Bagatin, Gabriele Bruera detto Gruvera, Domenico Alberto detto Mané, Ernesto Rolle, Edoardo Sibona detto Verdura, Ettore Bassino e Andrea Lovera. I soli testi di accusa raggiungono la bella cifra di centoventi.

Lo stesso giornale, il 1° luglio 1900, deve annunciare una riduzione a sette degli imputati, perché ulteriori indagini hanno portato alla scarcerazione per insufficienza di indizi di Ettore Bassino, volontario d’artiglieria, e Andrea Lovera. Un terzo imputato, che il giornale arriva a chiamare «il signor Leandro Reinotti», è stato dichiarato dalla Sezione d’accusa completamente innocente delle gravi accuse fattegli.

Il clamoroso processo, annunciato per luglio, dopo alcuni rinvii, si apre alla Corte d’Assise di Torino il 20 novembre 1900.

Nel gabbione degli accusati siedono Pietro Ronchietti, Giovanni Rosso, Giuseppe Balma detto Bagatin, Gabriele Bruera detto Gruvera, Domenico Alberto detto Mané, Ernesto Rolle. Edoardo Sibona è latitante.

Appena iniziato, il processo deve essere rinviato al giorno seguente. Il 20 novembre si festeggia il compleanno della Regina Margherita, la Regina madre, nata a Torino il 20 novembre 1851. Viene soltanto eseguita l’estrazione dei giurati, per questioni burocratiche. Le prime annotazioni del cronista Cini appaiono venerdì 23 novembre, sotto il titolo Il terribile assassinio Borbonaglia:

 

Mi è impossibile riportare, anche a larghi tratti, gli interrogatori e le deposizioni testimoniali, perché mi occorrerebbero tutte le colonne del giornale. E quand’anche a puntino tali deposizioni ed interrogatori riportassi, il lettore non si raccapezzerebbe, perché mai maggiore confusione ed ammasso di contraddizioni stridenti si ebbe in simili processi.

E ciò è dovuto al numero straordinario di testimoni, in gran parte poco franchi, amanti più d’ingannare la giustizia, spinti forse da falso sentimento di pietà, che di servire alla verità. E tanto è vero che alcuni di essi furono minacciati di arresto dal Presidente, il quale nemmeno colla sua solita cortese longanimità non poté ricondurre il vero su quelle labbra sempre balbettanti e reticenti.

Concorre maggiormente a rendere il processo un’arruffata matassa il contegno dei numerosi imputati, i quali si dimostrano l’uno all’altro avversi, accusandosi a vicenda e discolpandosi ciascuno strenuamente.

Sono tutti giovanotti di primo pelo; non tipi di barabba, né facce antipatiche. Però hanno già avuto quasi tutti dei conti da liquidare colla giustizia e sono ormai avvezzi ai pubblici dibattimenti. Sono sorridenti e tranquilli, e qualcuno ha dimostrato, nei pochi momenti di sospensione dell’udienza, cogli invocati e coi presenti, vivo compiacimento perché il proprio nome è divulgato sui giornali.

L’uditorio è sempre numerosissimo, ed accalcandosi la folla nell’aula, indecentissima, l’afa nauseabonda toglie il respiro. Quando l’Autorità si deciderà ad ascoltare le giuste lagnanze mosse a tal proposito e di cui ci siamo per i primi fatti portavoce?

 

All’udienza del 23 novembre è

 

Finita l’escussione dei testi che [...] procedette poco spedita perché non dettero troppo brillante esempio di amore della verità, prese la parola il Pubblico Ministero cavalier avvocato Avellone il quale “Orazio sol contro Toscana tutta” tenne fronte a tutte le eccezioni di difesa degli imputati. Ed i patrocinatori sono una coorte!

Il cavalier Avellone ebbe vigorose parole e roventissime contro la mala razza dei barabba contro l’ostinata protervia dei quali si spuntano le armi più affilate della giustizia. Sostenne vigorosamente l’accusa per tutti gli imputati ad eccezione del Bruera e dell’Alberto. Però quest’ultimo lo ritenne colpevole della rapina.

 

Prendono poi la parola gli avvocati difensori. Sono numerosi e Cini ci ironizza «Il fiume dell’eloquenza è in vera... piena».

Il processo si conclude il 24 novembre: si concludono le arringhe di difesa che devono combattere le accuse mosse dal Pubblico Ministero e le ragioni esposte dal patrocinatore di Parte civile. Si contengono e mettono un «freno ai fiume di eloquenza che, come ieri dicemmo, minacciava una piena travolgente la leggendaria pazienza dei nostri giurati».

In seguito, il presidente chiarisce ai giurati i centodieci quesiti e le risultanze processuali. Dopo quattro ore di discussione in camera di deliberazione, i giurati rientrano.

 

La lunga attesa ha spopolato la sala. Non v’è grande attesa, né trepidazione alcuna. I prevenuti [gli imputati, N.d.A.] sono tranquillissimi, e con una certa serenità pacata vanno intessendo faceti indovinelli sul numero delle loro berrette. Per chi - per sua fortuna - non ha conoscenza del gergo barabbesco, le berrette, sono gli anni di galera, con figura di rettorica così chiamati dalla divisa che indossano i galeotti.

 

I giurati rientrano alle 22:10. L’uditorio si è andato riaffollando. Il capo dei giurati legge la risposta ai 110 quesiti. Il verdetto è severissimo perché ha accolto la maggior parte delle richieste del Pubblico Ministero. Solo per Gabriele Bruera il verdetto è favorevole: è esclusa la sua partecipazione all’omicidio ed è condannato a nove mesi di reclusione, già scontati col carcere preventivo. È perciò messo in libertà.

La sentenza, severa come il verdetto, condanna Pietro Ronchietti ad 8 anni, 8 mesi e 15 giorni; Giovanni Rosso a 7 anni, 4 mesi e 5 giorni; Giuseppe Balma a 7 anni ed Ernesto Rolle a 7 anni, 6 mesi e 25 giorni. Il cronista si dimentica di riferire la condanna di Domenico Alberto, che il Pubblico Ministero aveva ritenuto soltanto colpevole di furto, e quella di Edoardo Sibona condannato in contumacia a 10 anni di reclusione.

Questo il commento di Cini:

 

Pubblico ed imputati ascoltarono impassibili la sentenza. Sono le ore 21. La sala ha un aspetto tetro, impressionante. Generalmente questi verdetti, che cercano di annientare il barabbismo, sono accolti con viva soddisfazione.

 

Le severe condanne dei componenti della banda di barabba sono quindi condivise dal pubblico e dalla cittadinanza.

Ma il caso non si è concluso, visto che avrà un seguito a due anni di distanza, quando viene processato in Corte d’Assise il latitante Edoardo Sibona, condannato per aver consegnato a Rolle, assassino di Borbonaglia, il coltello usato per commettere lo scempio.

Come è giunto Sibona al processo, quando i suoi presunti complici vestono già la divisa dei reclusi?

Lo facciamo dire a Cini, col linguaggio dell’epoca:

 

Il giovanotto ha una santa madre. Nella sua gioventù commise un fallo, e questo figlio, nato dalla colpa, abbandonato da un padre disumano, ama svisceratamente, logorandosi la vita per mantenerlo. Quando seppe che la bufera imperversava sul capo del disgraziato lo nascose alle ricerche della Polizia e tanto bene lo nascose che fu dichiarato irreperibile: i suoi compagni furono processati ed egli fu colpito in contumacia da una condanna di 10 anni di reclusione.

 

Sibona si è poi presentato per fare il servizio militare, è stato arruolato nel 31° fanteria, e così non poteva più vivere sotto mentite spoglie. È arrestato e viene processato, il 25 e il 26 luglio 1902.

Il piccolo soldato nella gabbia degli accusati ha un aspetto tanto onesto e simpatico che pare strano che si sia frammischiato «a quella accozzaglia di malvagi, che avevano alcuni anni fa scritta una delle più brutte pagine del barabbismo».

Emerge dal dibattimento che il povero Sibona ha consegnato il coltello a Rolle senza sapere quale uso questi ne volesse fare. Rolle viene chiamato al dibattimento, vestito da galeotto, e accusa Sibona. Ma il suo atteggiamento appare ai giurati quello di un calunniatore vendicativo e gioca a favore dell’accusato.

È anche notevole l’impegno dell’avvocato difensore Allievo, il quale enfatizzare il fatto che Sibona sia figlio di una donna sedotta che lo ha allevato con enormi sacrifici: così «il cuore dei giurati s’intenerì».

Il difensore mette in campo un’altra trovata in favore del suo cliente. Fa citare come testimone l’uomo che ha sedotto e abbandonato la madre di Sibona. Si è addirittura procurato una fotografia dell’uomo.

 

Ma quegli, che già s’era rifiutato d’assistere il figlio in così terribili contingenze della vita, non comparve. [...] L’avvocato allora ne dichiarò altamente il nome, cognome e qualità, ed i giurati, unanimi, ne assolsero il figlio, assecondando la domanda fatta dal difensore e dal Pubblico Ministero.

 

Sibona viene così assolto, anche su richiesta del Pubblico Ministero. In questo caso i lettori del giornale e i torinesi appassionati alle vicende giudiziarie possono ritenere che la Giustizia abbia fatto il suo corso, con la severa condanna dei responsabili dell’omicidio di Enrico Borbonaglia e col corollario dell’assoluzione del povero giovane coinvolto da cattivi compagni.

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Articolo pubblicato il 12/03/2022