Centenario del Governo Facta
Luigi Facta (Pinerolo, 13 settembre 1861 – 5 novembre 1930)

1922: La frana - Come i partiti affossarono l’Italia (di Aldo A. Mola)

Giovani in piazza

“Abbasso il Parlamento!” fu il grido di centinaia di giovani, in gran parte fascisti, sotto la Prefettura di Bologna il 10 febbraio 1922. Poco prima avevano protestato per la condanna di loro “compagni di fede”, colpevoli di violenza privata ed altri reati. La magistratura non faceva favori ma il proprio dovere: applicare le leggi a difesa dello Stato. Poi raggiunsero il Comando d’Armata urlando “Dittatura!”. Il fatto (o “fattaccio”, secondo i punti di vista) fu ignorato dai principali giornali ma “Il Popolo d’Italia”, quotidiano di Benito Mussolini, lo segnalò come “prima manifestazione pubblica, alla quale molte altre potrebbero far seguito, per il sempre più acuto senso di disgusto che l’attuale regime parlamentare provoca e per la vasta e sempre più inconfessata aspirazione delle popolazioni per un governo che sappia governare”. Da tre anni l’Italia chiedeva un esecutivo stabile e capace. Perciò “il grido dei dimostranti fascisti di Bologna” sarebbe divenuto “il coro formidabile ed irresistibile dell’intera Nazione”, proprio per esorcizzare la “dittatura militare”, “una carta suprema, giocata la quale o ci si risana o si piomba nel caos”.

La spirale “marcia su Roma-insorgenza rossa-repressione militare” si era già affacciata nell’ottobre 1919 quando gli “scalmanati” da quasi due mesi accampati a Fiume al seguito di Gabriele d’Annunzio, fallita l’immediata annessione della città, decisero di spostare la crisi irrompendo in Italia. Mussolini fu tra i primi a prendere le distanze dall’avventura dei Legionari e del loro Comandante. Altrettanto fece il gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Domizio Torrigiani, al termine di una sorta di burrascoso “consiglio di guerra” tenuto a Trieste per stabilire sino a che punto convenisse assecondare il Comandante. Ne hanno scritto Raffaella Canovi nel pregevole libro su “D’Annunzio e il fascismo, eutanasia di un’icona” (ed. Bbliotheka) e Antonio Binni, Valerio Perna, Giorgio Sangiorgi e altri in “L’impresa di Fiume tra mito e realtà, 1919-1920” (ed. Etabeta, 2022). Contro il parere di “fratelli” repubblicani, come Oddo Marinelli, decisi a dar fuoco alle polveri, prevalse la saggezza. Se i legionari avessero tentato di incendiare il Paese, nella sola Lombardia sarebbero scesi in campo 300.000 socialisti. A quel punto la parola sarebbe passata ai militari, pronti a spazzare via eversivi e sovversivi e a far quadrato in difesa della Corona. Le elezioni del 16 novembre 1919 mostrarono i veri rapporti di forza. I socialisti ottennero 156 seggi su 508. Altri 100 ne ebbe il Partito popolare italiano fondato da don Luigi Sturzo. Sommando ai loro quelli dei repubblicani, metà della Camera risultava nelle mani di forze anti-sistema.

 

Nella palude

Nel febbraio 1922 lo scenario politico italiano rimaneva in bilico. A legge elettorale invariata (la “maledetta proporzionale” introdotta da Nitti nell’agosto 1919), il rinnovo della Camera voluto dal settantottenne presidente del Consiglio Giovanni Giolitti nel maggio 1921 aveva aumentato i gruppi parlamentari da undici a quattordici. Il governo rimase esposto a imboscate di gruppi e gruppetti e persino alle rivalse di singoli parlamentari, tanto alla Camera quanto al Senato dove (ricordò Benedetto Croce), un “pater” fresco di nomina si produsse in un veemente discorso contro il governo.

A Giolitti, dimissionario dal 24 giugno 1921, il 4 luglio seguì Ivanoe Bonomi (Mantova, 1873 – Roma, 1951), già ministro della Guerra e del Tesoro. Era convinto di durare a lungo, se non per forza propria perché le opposizioni erano divise. Accontentò i popolari ignorando la nominatività dei titoli finanziari voluta da Giolitti e aborrita dal partito di don Sturzo e dal Vaticano; blandì i riformisti e, di concerto con Gasparotto, ministro della Guerra, chiuse gli occhi dinnanzi agli eccessi dello squadrismo fascista. Era stato rieletto deputato nel collegio di Mantova in una lista comprendente il “ras” di Cremona Roberto Farinacci, “il più fascista” (e anche un po’ “fratello” ubiquo).

La tumulazione del Milite Ignoto all’Altare della Patria, il 4 novembre 1921, parve annuncio di ritrovata unità nazionale attorno alla monarchia, incarnata da Vittorio Emanuele III. L’incantesimo durò pochi giorni. Gli scontri armati tra opposte fazioni crebbero di numero e in ferocia. Molti pensavano fosse “politica”. Come intuì padre Agostino Gemelli, era conseguenza diretta dello psicodramma vissuto da cinque milioni di cittadini ammassati nella “città militare” sul fronte della guerra tra il 1915 e l’inizio del 1919.

Nel gennaio 1922 il salvataggio della Banca di Sconto fece da detonatore del malcontento di gruppi parlamentari al soldo di interessi economici. Il 2 febbraio Bonomi si presentò dimissionario e, come di rito, rimase in carica per il disbrigo degli affari ordinari. Lo stesso giorno Dino Grandi prospettò nel “Popolo d’Italia” la fusione tra fascisti e nazionalisti, benché diversi per genesi e identità. I nazionalisti erano sorti per reagire a mezzo secolo di “politica tenebrosa e decadente”; il fascismo come lotta contro il bolscevismo. Era giunto il momento di unire l’elaborazione dottrinale a quella pratica. Gli squadristi menavano le mani; i nazionalisti “pensavano”.

 

Nondum maturum erat

Iniziate le consultazioni per dar vita al nuovo governo, il 4 febbraio 1922 Vittorio Emanuele III ricevette Mussolini. Il 9 il gruppo parlamentare fascista e la direzione del partito, in una riunione congiunta presieduta da Mussolini, deliberarono osservare con apparente distacco la frana dei partiti. Come i deputati del Partito comunista d’Italia (appena sedici, pilotati dalla Terza internazionale, ovvero da Lenin e poi da Stalin) erano un’esigua minoranza. Meglio attendere l’esito della rissa fra i socialisti, i popolari e la galassia caleidoscopica dei “liberali”, restando pronti a incunearsi nelle loro divisioni, a sparigliarne i giochi per ottenere qualche ministero.

Candidato alla successione di Bonomi era Giolitti. La prassi consolidata prevedeva che il re incaricasse un parlamentare; questi proponeva al re ministri di sua fiducia e il governo nominava i sottosegretari. Da decenni tutto avveniva secondo una sorta di “Manuale Cencelli” dell’epoca: ogni partito, corrente e clan notabilare aveva tacito diritto a una porzione di governo e sottogoverno, ma a condurre il gioco erano il sovrano e il presidente designato. Meno durava l’esecutivo, maggiori erano i ricambi e la possibilità di accontentare appetiti e ambizioni, senza ignorare le variegate aspettazioni delle diverse aree geopolitiche.

Se incaricato di formare il governo, Giolitti, come suo costume, avrebbe deciso in piena libertà chi chiamare a farne parte, sulla base delle competenze e dell’interesse del Paese, senza piegarsi a dettami di partiti. Erano sempre “politici” dall’alta caratura “tecnica”. A differenza dei Gruppi parlamentari, formati da deputati eletti ai sensi dello Statuto e quindi senza vincolo di mandato né degli elettori né di poteri estranei alla Camera, allora, come ora, i partiti non avevano un riconoscimento costituzionale: nascevano, si dividevano, morivano. Erano associazioni di fatto.

Contro la designazione di Giolitti, don Sturzo, fondatore del partito popolare (biografato con partecipazione simpatetica dall’ex comunista Gabriele De Rosa), oppose il “veto” dei popolari. A suo giudizio il partito aveva diritto di decidere da chi farsi rappresentare al governo. Il quotidiano liberale “Il Giornale d’Italia”, benché ostile a Giolitti, denunciò il metodo del “prete intrigante e nefasto” e l’“atteggiamento sostanzialmente anticostituzionale del gruppo parlamentare o, più esattamente, di don Sturzo, che pretende di nominare i ministri e i sottosegretari e nega ogni libertà d’azione all’incaricato di formare il ministero”. A dirla tutta, il prete metteva in discussione le prerogative del re.

Anche “La Voce Repubblicana” stigmatizzò “don Sturzo arbitro dei destini d’Italia” e i “clerico-popolari che anelano gli abbracci di quelle sgualdrine delle sinistre, consumate dalla febbre della simonia”. Il nodo era ben noto: la legge sulla nominatività dei titoli e i diritti del fisco sulle trasmissioni ereditarie fra persone non legate da alcun vincolo di sangue, come i membri delle comunità religiose, ricchissime e potenti.

Invitati dal re a formare il governo, uno dopo l’altro fallirono Enrico De Nicola e Vittorio Emanuele Orlando. Due settimane dopo l’annuncio delle dimissioni, a Bonomi non restò che presentarsi alla Camera. Il 17 febbraio, sacro alla memoria di Giordano Bruno, fu travolto:  295 voti contrari contro 127. Un esito mortificante. Come nel gioco dell’oca, il re riprese le consultazioni. Fallita l’ipotesi di un governo Giolitti-Orlando-De Nicola fu ipotizzato ancora una volta l’incarico a Giolitti, che però ebbe la strada sbarrata dai popolari Alcide De Gasperi e Giovanni Gronchi, tenuti al guinzaglio dal “prete nefasto”. Per uscire dalla palude, per la prima volta dal 1848 il re chiamò a consulto due parlamentari in contemporanea, Orlando e De Nicola, che però presero atto dell’ostilità dei socialisti nei confronti dei costituzionali e del “veto” dei popolari, ribadito nel “Corriere d’Italia”.

Il quotidiano socialista “Avanti!” deplorò il caos del “mondo borghese”. “Il Resto del Carlino” denunciò la doppiezza del partito popolare che aveva governato con Giolitti e ora lo demonizzava. “La Tribuna”, diretta da Olindo Malagodi e molto vicina allo statista piemontese, rivelò che nel corso di un colloquio Giolitti aveva respinto la pretesa di Sturzo di sottoporre le decisioni dell’esecutivo al vaglio del partito. Il governo governa.

La Santa Sede (mentre a Benedetto XV subentrò Pio XI) percepì che la crisi politica avrebbe potuto compromettere il dialogo cautamente avviato per chiudere l’antica “questione romana”. Perciò l’“Osservatore romano” ricordò che il Vaticano era del tutto estraneo alla politica interna dell’Italia. Ma già aveva scosso l’opinione pubblica la decisione del Cardinale Tommaso Pio Boggiani che nella lettera pastorale “L’azione cattolica ed il partito popolare” aveva esortato i credenti a non cedere alla chimera materialistica del partito e tornare al Vangelo. Investito da pesanti critiche, aveva lasciato la diocesi di Genova per raccogliersi in un convento a Roma.

Il 25 febbraio 1922 la direzione nazionale del Partito fascista propose una legge elettorale ancora più rigidamente proporzionale di quella vigente, “affrancata dalle clientele e dagli arrembaggi personali”. Lo stesso giorno l’allora scapigliato Italo Balbo, futuro quadrumviro, poi mussoliniano pentito e massone, denunciò: “Il regime attuale si sfascia. Non resta che una collezione di statisti decrepiti che comunicano la loro paralisi al Parlamento e agli organi dello Stato. I prefetti non hanno più bussola. Noi fascisti ce ne curiamo poco”. Gli squadristi delle sue “bande” ignoravano i nomi dei ministri dimissionari e di quelli in carica.

I socialisti italiani erano alle prese con il garbuglio delle trattative in corso fra quattro Internazionali: la Prima, la Seconda, la “Due e mezzo” e, infine, la Terza. La “politica” coinvolgeva partiti e sindacati effettivamente “di massa”, altra conseguenza della partecipazione alla Grande Guerra.

L’uomo di Pinerolo...

Il 26 febbraio, al termine di spossanti trattative, Vittorio Emanuele III conferì a Luigi Facta (Pinerolo, 1873 - 1930) l’incarico di formare il governo. Laureato in giurisprudenza a 18 anni, avvocato nello studio paterno, eletto deputato dal collegio di Pinerolo dal lontano 1892, sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Giolitti (1903-1905), confermato da Sandrino Fortis, poi all’Interno, ministro delle Finanze con Luigi Luzzatti e Giolitti nel 1910-1914 e della Giustizia con Orlando e ancora alle Finanze con Giolitti, durante la crisi del febbraio 1922 Facta si mise di traverso al possibile governo De Nicola-Orlando poiché costoro non avevano accettato Giolitti come presidente. La guerra intestina tra notabili liberali, come quelle dei popolari contro i liberali e dei socialisti contro tutti, si risolse nella frana del regime parlamentare. La parola passò alla “piazza”, a chi gridava “Abbasso il Parlamento” e invocava la dittatura.

Monarchico e liberale “senza se e senza ma”, sin dal 1908 Giolitti aveva spiegato a Facta perché l’Italia doveva tenersi alla larga dalla guerra che si stagliava sull’orizzonte d’Europa. Sarebbe stata lunga, costosa e di dubbio esito. Avrebbe assorbito tutte le risorse, interrotto gli investimenti a beneficio del Mezzogiorno e diviso il Paese a danno della monarchia. Non per caso a chiederla erano soprattutto i repubblicani, che soffiavano sul fuoco dell’irredentismo.

Nel governo varato il 27 febbraio Facta chiamò a raccolta liberali, democratici, demo-sociali e popolari di seconda fila. Parecchi erano i massoni: Carlo Schanzer agli Esteri, Giuseppe Beneduce, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giovanni Amendola alle Colonie, Arnaldo Dello Sbarba a Lavoro e previdenza sociale, Giovanni Antonio Colonna di Cesarò a Poste e telegrafi, come il suo successore Luigi Fulci… Il Partito popolare ebbe il monregalese Giovanni Battista Bertone alle Finanze e il calabrese Antonino Anile alla Pubblica istruzione, un tempo fortezza inespugnabile della cultura risorgimentale, quella di Francesco De Sanctis, Michele Coppino e Ferdinando Martini, tutti “fratelli”.

Guardato con rispetto anche dai nazionalisti (il suo unico figlio maschio era caduto nella Grande Guerra), Facta sembrava poter durare in nome della tregua d’armi già ventilata dalla “pacificazione” tra fascisti e socialisti mesi prima abbozzata da Tito Zaniboni e Giacomo Acerbo. Ma l’Europa stava virando a destra. In Gran Bretagna i conservatori vinsero le elezioni. Alla conferenza economica di Genova l’Italia si accodò alla Francia nel rifiuto di aprirsi alla Russia dei soviet.

Proprio perché rimasto all’opposizione, il Partito fascista ebbe buon gioco ad alzare il livello dello scontro. Pose al centro la questione istituzionale. Vittorio Emanuele III rimase isolato. All’inaugurazione della legislatura aveva chiesto ordine, disciplina, restaurazione dello Stato e vaste riforme sociali. Ma con scarsa eco. Lo ricordò lo storico Gioacchino Volpe: “La borghesia italiana ha lasciato solo il re, si è curata poco del re, come poco, in fondo, degli interessi veramente nazionali. Molti domani tradirebbero re e monarchia per poco che i loro particolari interessi apparissero meglio realizzabili con una repubblica di banchieri o di avvocati e di arricchiti di guerra”. Altrettanto fecero i partiti, che dal febbraio 1922 spodestarono Corona e Parlamento, salvo trovarsi pochi mesi dopo in balia di un gruppo minoritario qual era il fascista.

Non fu Vittorio Emanuele III a “passare la mano”. Ne scrisse Bonomi in un articolo del 1948, con riferimento alla crisi del primo governo Facta, costretto alle dimissioni dopo soli cinque mesi, il 20 luglio 1922. Dopo giorni di convulse consultazioni, Bonomi aveva ottenuto l’appoggio esterno di Turati a un governo di liberali e democratici orientato a sinistra. Illustrò il progetto al re che “si mostrò contentissimo” e “uscendo dal consueto riserbo” gli augurò “calorosamente di riuscire”. Altro che “re fascista” come poi si disse e si ripete. Sennonché Turati fu sconfessato dai suoi colleghi di partito, disponibili ad approvare solo singole proposte di legge, ma senza un impegno pieno e durevole. Per di più, don Sturzo oppose il secondo e ancor più drastico veto al ritorno di Giolitti. Fu così che l’Italia imboccò la strada verso il partito unico...: passo dopo passo, sempre con leggi votate non dalla Fata Morgana ma dalla Camera dei deputati, eletta dai cittadini a suffragio universale. Quale capo di Stato rigorosamente costituzionale, il re firmò le leggi via via approvate dal Parlamento. Altrettanto fa oggi, il Presidente della Repubblica. Magari obtorto collo.

Sono passati cent’anni… meminisse iuvat?

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 20/02/2022