La mannaia sul confine italo-francese
La borgata di Saretto (Acceglio) con la Rocca Provenzale.

75° del Trattato di Pace (di Aldo A. Mola)

Una sconfitta strategica perpetua

Neppure per il Piemonte il 10 febbraio 1947 fu giorno di festa. Per gli italiani di Venezia Giulia, Istria, Fiume e Dalmazia la firma del Trattato di pace suggellò la tragedia in corso da due anni. L’epurazione politica ed etnica attuata ai danni degli italiani e l’esodo forzato di circa 350.000 persone in fuga dal regime comunista di Tito sono documentati e (con ovvie eccezioni di nemici in patria) fanno ormai parte della memoria nazionale.

Pressoché dimenticata è invece la rettifica della frontiera italo-francese imposta dal diktat sottoscritto a Parigi con la propria stilografica dall’ambasciatore Antonio Meli Lupi di Soragna: meno catastrofica sotto il profilo umanitario, ma altrettanto odiosa sul piano morale, poiché ispirata non già a una visione lungimirante della Nuova Europa ma dal tardivo neo-nazionalismo che animava il governo francese di Charles De Gaulle che aveva dichiarato nullo l’armistizio di Villa Olgiata e ancora in atto la guerra contro lo Stato d’Italia, quale ne fosse la forma.

I termini della rettifica delle frontiere risalenti al 1° gennaio 1938 sono elencati dall’art. 2 del Trattato: il confine fu spostato a est per una profondità dai due ai cinque chilometri nelle zone del Piccolo San Bernardo, del Moncenisio e del Monte Tabor-Chaberton. Molto più afflittiva fu la nuova demarcazione nelle valli della Vésubie e della Roja.

La descrizione dettagliata della rettifica fu affidata all’allegato II del Trattato. In sintesi la Francia inglobò Tenda e quasi tutto il territorio di Briga, che (previo plebiscito confermativo) erano rimaste italiane dopo la cessione della contea di Nizza e della Savoia da parte di Vittorio Emanuele II a Napoleone III a compenso dell’alleanza politico-militare che aveva condotto alla vittoriosa guerra per l’indipendenza (aprile-luglio 1859) e all’acquisizione al regno di Sardegna della Lombardia (Mantova esclusa) e, in seguito, dell’Emilia-Romagna (Ducati padani e Legazioni pontificie) e del Granducato di Toscana.

Il progetto di revisione dei confini rimase a lungo sotto traccia, quasi fosse pressoché irrilevante. In realtà era imbarazzante. Nelle “Dichiarazioni” rese al Consiglio dei ministri degli Esteri riuniti a Parigi in preparazione dei trattati di pace, il 3 maggio 1946 (un mese prima della celebrazione del referendum istituzionale e dell’elezione dell’Assemblea Costituente) Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri dall’11 dicembre 1945, non fece alcun cenno alla frontiera italo-francese. Dopo l’assunzione arbitraria delle funzioni di Capo dello Stato (13 giugno) e il suo esercizio sino all’elezione di Enrico De Nicola a presidente provvisorio della Repubblica italiana, lo stesso De Gasperi il 10 agosto 1946 annunciò alla Conferenza di Parigi che l’Italia avrebbe presentato tramite suoi delegati il proprio punto di vista sulle linee di confine in corso di definizione. ll 28 seguente lo fece il socialista Giuseppe Saragat, ambasciatore d’Italia a Parigi. Premessa la “volontà di andare incontro alle domande francesi” e di riconquistare l’amicizia franco-italiana “anche al prezzo dei più pesanti sacrifici” Saragat, antico allievo dell’Istituto Germano Sommeiller di Torino, concluse che “né il sentimento degli abitanti, né la lingua, né delle ragioni geografiche ed economiche giustifica(va)no in alcun modo la rettifica pretesa da Parigi”.

Però le sue osservazioni non mutarono di una virgola il testo del Trattato. Per l’Italia il danno politico ed economico fu poca cosa rispetto all’umiliazione e al senso di frustrazione.

Gli articoli 46 e 47 del Trattato previdero lo smantellamento di tutte le fortificazioni esistenti a 20 chilometri dalla frontiera e la loro smilitarizzazione perpetua. A differenza di quanto era avvenuto nei secoli dei secoli, sul fronte occidentale l’Italia si mise “in condizione di non nuocere”: una sconfitta strategica di portata storica permanente.

 

Quando venne ignorato il concorso dell’Italia alla Liberazione

A pagare in quei termini era innanzitutto il Piemonte, che aveva dato un alto contributo alla guerra di liberazione in tutte le sue fasi e componenti, sin dal primo Comitato militare del CLN subalpino, capitanato dal generale Giuseppe Perotti (catturato, torturato, condannato a morte e fucilato al Martinetto di Torino), e forte di numerose formazioni partigiane di orientamento monarchico, guidate da uomini di fegato come Edgardo Sogno, biografato da Luciano Garibaldi. Per saperne di più basta sfogliare La Riscossa di Raffaele Cadorna e Formazioni autonome nella Resistenza a cura di Gianni Perona (FrancoAngeli,1996).

Quel Piemonte poteva guardare negli occhi i neo-nazionalisti transalpini. Bastino due esempi. Il 19 dicembre 1943 si riunirono clandestinamente esponenti della cultura autonomistica e approvarono la Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine. I monti uniscono, per chi li sa percorrere. Erano Emilio Chanoux, Ernesto Page, Gustavo Malan, Giorgio Peyronel e Mario Alberto Rollier. Cattolici e valdesi. Accadde a Chivasso ove, quando divenne autonomo, l’Istituto Magistrale non per caso fu intitolato all’“Europa Unita”, nel ricordo di quel Convegno i cui propositi, a cominciare dal decentramento di poteri alle regioni, entrarono nella Costituzione di una Repubblica che li ignorò per decenni, arroccata nel recinto di miopi nostalgie.

L’altro possibile “vanto” del Piemonte erano gli “accords” raggiunti tra partigiani italiani e francesi nel maggio 1944: una delle pagine più interessanti e neglette della lotta per la liberazione dell’Europa dalle tossine del totalitarismo nazionalistico e dei suoi ingredienti e, più ancora, del totalitarismo comunista sovietico, da taluno ancora oggi venerato come panacea contro tutti i mali del mondo.

Settantacinque anni dopo la firma del Trattato di pace del 10 febbraio 1947, duramente e stolidamente punitivo contro l’Italia, merita ricordare la Grande Illusione che animò i loro promotori e attori, miranti a una libertà capace di instaurare pace effettiva tra i popoli e la loro federazione democratica non inchiodata a interessi finanziari prima ancora che economici.

A idearli e a crederci fu anzitutto Tancredi Olimpio Galimberti (“Duccio”), figlio di un deputato originariamente garibaldino/radicale, giolittiano, antigiolittiano, filofascista, inventore del mito di Cuneo come culla della libertà, senatore del regno, uomo del Risorgimento. Risorgimentale fu anche “Duccio”, militante del Partito d’Azione. Pronunciato dal balcone di casa il celebre discorso all’indomani della revoca di Mussolini da capo del governo, costretto alla clandestinità dopo la resa incondizionata, fondatore della banda “Italia Libera” a Madonna del Colletto il 12 settembre 1943, ferito in circostanze aggrovigliate, nel maggio 1944 egli avviò i primi contatti con esponenti della resistenza francese, su suggerimento di amici e d’intesa con Ferruccio Parri, comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà”.

Obiettivo? Nella certezza che gli anglo-americani avanzassero finalmente verso Roma e (come ingannevolmente avevano fatto intendere) sbarcassero in Liguria, occorreva fare fronte comune. Mussolini, capo della Repubblica sociale italiana, intimò ai giovani di presentarsi alla leva entro il 24 maggio 1944 e minacciò l’offensiva contro i “partigiani” anche con carri “ippotrainati”. L’estate era alle porte. L’aviazione anglo-americana era padrona dei cieli. Non vi erano dubbi sull’esito finale. In quel clima, dopo un contatto al Sautron narrato da Giorgio Bocca, avvenne il primo colloquio a Barcelonette il 22 maggio 1944 tra Galimberti e Lecuyer, rappresentante dei combattenti francesi.

Il passo successivo e concludente ebbe luogo a Saretto, frazione di Acceglio, in alta Valle Maira, il 30-31 maggio. Come poi ricordò Max Juvénal, protagonista per parte francese con l’avvocato Jean Lippmann e Maurice Plantier, “senza direttive né aiuto dei rispettivi governi”, le due delegazioni si trovarono attorno alla tavola di una locanda, ricordata dalla lapide murata sulla sua facciata e conservata qual era da Marta Arrigoni, che ne serba e arricchisce la memoria. Il 30 dovettero riparare all’addiaccio nel timore di un’imboscata. L’indomani, riprese le conversazioni firmarono le “dichiarazioni”, retrodatate e ricordate dai francesi come “accords” e dagli italiani come “Patti di Saretto”.

Benché noto, quelle “dichiarazioni” meritano di essere ricordate nei tratti essenziali, pubblicati da Dante Livio Bianco in “Venti mesi di guerra partigiana nel Cuneese” (Cuneo, Panfilo, 1946) e ripetutamente rievocate sino al 2014 quando vennero celebrate dalla presidente della Provincia di Cuneo, Gianna Gancia, ora europarlamentare della Lega.

Soddisfatti dell’intesa, i rappresentanti dei due movimenti dichiararono che “i popoli francese e italiano non avevano alcuna ragione di risentimento e di urto per il recente passato politico e militare, che impegnava la responsabilità dei rispettivi governi”. Affermarono la piena solidarietà nella lotta contro i fascismo e il nazismo e tutte le forze della reazione, preliminare per l’instaurazione delle libertà democratiche e della giustizia sociale in una libera comunità europea. Riconobbero inoltre che la miglior forma “de gouvernement” per assicurare le libertà democratiche e la giustizia sociale è quella repubblicana. Prospettarono infine la collaborazione militare.

 

La discorde concordia...

Nulla si sa di eventuali diatribe interne per la parte francese; molto invece risulta per la parte italiana. Quelle intese furono invero precedute e seguite da faide intestine tra gli esponenti apicali del partito d’azione. Occorre ricordarlo per comprendere come anche i più nobili propositi possano essere vulnerati alla base da personalismi meschini e da calcoli pseudopolitici di bassissimo conio.

Obiettivo precipuo di Giorgio Agosti, mente politica del Partito d’Azione piemontese, fu di escludere dalla “scena finale” delle “conversazioni” italo-francesi Galimberti, sospettato di ambire a ruoli politici nel dopoguerra anche grazie al vasto seguito personale. Fra altro, a differenza di Bianco, Duccio non era mai stato iscritto al Partito nazionale fascista ed era anche l’autore del “Progetto di costituzione confederale europea ed interna”, scritto a quattro mani con Antonino Repaci, magistrato a Cuneo.

In esso il diritto di voto era riservato ai “cittadini maschi alfabeti, maggiorenni”; era “garantita la libertà di pensiero ma vietata la costituzione di partiti politici”.

L’“accordo” comunicato trionfalmente da Bianco risultò subito impresentabile. Il governo Badoglio, costituito a Salerno con i rappresentanti di tutti i partiti del CLN, comunisti inclusi, si fondava sull’impegno dei ministri (e rispettivi partiti) a non interferire nella “questione istituzionale”. La lotta di liberazione era come quella di Stalin: “guerra patriottica”.

Il “documento” di Saretto finì nelle nebbie dei buoni propositi. Lo stesso accadde per il versante militare. Nelle lettere agli amici partigiani cuneesi Galimberti irrise al comandante partigiano Ezio Aceto (“Napoleone”) e ai due compagni partito, Agosti e Bianco (“Cavour I” e “Cavour II”) che tra loro si scambiavano perfidi sarcasmi su di lui, persino sulla sua “gloriosa ferita”. Difficile pensare che su quelle basi davvero nascesse l’Europa dei popoli liberi.

Poi avvenne quanto né gli uni né gli altri avevano messo in conto. Gli americani (con modesta “scorta” francese e nessun inglese, per non turbare gli umori gallici) anziché in Liguria sbarcarono in Provenza. Le bande partigiane italiane che ripararono oltralpe vissero sempre peggio. Spesso vennero impegnate o si avventurarono in missioni difficili.

La Francia di De Gaulle mirava a tutelare i suoi interessi nazionali permanenti. Era stata l’Italia a dichiararle guerra. Alla vigilia dello “sfascio finale” (aprile 1945) il colonnello inglese J.M. Stevens avvertì i partigiani: in caso di conflitto con i francesi avrebbero avuto torto anche quando avevano ragione. Dovevano salvaguardare gli impianti produttivi essenziali. I francesi svalicarono e giunsero ovunque possibile. Confidavano in Richelieu, Luigi XIV, Buonaparte/Bonaparte e nel principio arcaico “uti possidetis”. Pinerolo e Cuneo erano state a lungo assediate e dominate. Da lì si controllano Torino e la via verso la Liguria.

A ben vedere il Diktat del 10 febbraio 1947 fu umiliante, ma sarebbe potuto andare peggio. Nei primi giorni della Liberazione non mancarono incidenti incresciosi tra militari francesi, partigiani italiani e popolazione civile. Le “conversazioni” o “colloqui” del Sautron e di Barcellonette e le Dichiarazioni di Saretto vennero narrati in versioni postume come “Accords” e persino quali “Patti” e ancora così vengono enfaticamente ricordati. Al pari dell’“arrangement” di Londra con il quale il 26 aprile 1915 l’Italia aderì alla Triplice Intesa, spacciato per “Patto di Londra”. Le mistificazioni linguistiche però non cambiano la dura realtà dei fatti. A difendere l’italianità di Tenda provarono l’allora giovane storico Giorgio Beltrutti in un’opera ripetutamente aggiornata e ristampata, Vittorio Badini Confalonieri, i liberali e i monarchici. Gli altri, molto più numerosi, rimasero in seconda fila ed esortarono a “prendere atto”. All’indomani dell’entrata in vigore del Trattato, il 12 ottobre 1947 il plebiscito confermativo bene orchestrato da Parigi attribuì 1445 “sì” a favore della Francia contro 76 “no” in Tenda e 759 “sì” contro 26 “no” a Briga (ormai divenuta La Brigue).

È questa la lezione che, al di là della retorica, impartisce il 75° anniversario del Trattato di pace, figlio della “resa senza condizioni” del 3-29 settembre 1943: chi dichiara guerra ha il dovere di vincerla; se la perde, ne paga le conseguenze.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 13/02/2022