Ordo Ab Chao?
La Corona Ferrea conservata nella Basilica di San Giovanni Battista, Duomo di Monza.

Corona Ferrea o di spine? (di Aldo A. Mola)

In principio era il Caos, ma...

 

… giovedì 14 marzo 1861 il primo parlamento nazionale, nato come VIII legislatura del regno di Sardegna e radunato in un’aula molto provvisoria allestita nel cortile di Palazzo Carignano a Torino, proclamò Vittorio Emanuele II re d’Italia. Fu la svolta di portata secolare. La legge venne pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale domenica 17, giorno poi assunto come data di nascita dello Stato d’Italia. Il suo 150° nel 2011 è stato celebrato con enfasi dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, comunista, repubblicano, non insensibile alle radici sabaude dell’Italia contemporanea da Mazzini e Garibaldi ad Azeglio, Cavour e ai quattro re, linfa vitale sino a Umberto II. Poiché la “tempesta magnifica” ebbe protagonisti anche il teologo torinese Vincenzo Gioberti e un lungo elenco di ecclesiastici (come l’abate di Montecassino) favorevoli all’immediata “conciliazione” tra il Sacro Soglio e il Regno, il 150° un tempo ritenuto frutto di un complotto satanico fu concelebrato dal Segretario di Stato vaticano, il salesiano Tarcisio Bertone, e dal presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco. Fu un anno che pareva irripetibile. Invece il miracolo si riaffacciò con il convegno italo-vaticano di tudi storici nel centenario di Porta Pia, l’1-2 ottobre 2020 (gli Atti saranno presto disponibili presso la Libreria Editrice Vaticana).

 

La nascita del regno d’Italia fu l’unica novità statuale importante dell’Ottocento nell’Europa bloccata dal Congresso di Vienna e dalla Santa Alleanza (1815). Nulla a che vedere con l’Impero di Germania, alla cui proclamazione nel Salone degli Specchi del Castello di Versailles nel gennaio 1871 (un indimenticabile ceffone alla Francia) non presenziarono i re di Sassonia e di Baviera e altri principi germanici. L’impero degli Hohenzollern accorpò attorno al regno di Prussia, vincitore su Napoleone III e la Terza repubblica di Francia, stati e staterelli tedeschi, i cui sovrani non deposero affatto le loro plurisecolari insegne.

Il regno d’Italia, invece, scaturì dalla concatenazione di insorgenze popolari (poco conta se eterodirette e promosse da società segrete, oggi scioccamente demonizzate), richiesta di annessione da parte di assemblee frettolosamente elette e plebisciti popolari che confermarono di volere Vittorio Emanuele II (di Savoia) loro re costituzionale. Mentre l’impero di Germania nacque dalla guerra vittoriosa dei sassoni contro i franchi (una delle tante scatenate nel corso di un millennio: altre due divamparono nella nuova Guerra dei Trent’anni che stremò l’Europa fra il 1914 e il 1945) la Nuova Italia sorse per processo interno e liberazione dallo straniero. Nacque insomma dalla volizione popolare di far coincidere confini geografici, politici, linguistici, costumali e “storici”.

Perciò il Regno fu lo Stato d’Italia, forte di simboli unificanti (anzitutto lo scudo sabaudo posto al centro del tricolore nazionale) e di riti capaci di collegare la realtà nuova all’età romana e preromana, la Terza Italia alle epoche precedenti: quella dei Comuni e delle Signorie (tutt’uno con Umanesimo e Rinascimento) e l’altra, dei consoli e dei Cesari, dei magici Etruschi.

Per emblema del nuovo Regno venne scelta la Corona Ferrea, che non era mai stata di un principe “locale” né di papi o cardinali. Essa venne utilizzata per l’incoronazione dei sacri romani imperatori di nazione germanica dagli Ottoni a Corrado il Salico, da Federico Barbarossa a Carlo V d’Asburgo, per la cui consacrazione (1530), officiata da papa Clemente VII (de’ Medici, domesticato con il sacco di Roma nel 1527), venne recata a Bologna.  Non la calcò il marchese Arduino d’Ivrea (955-1015), episcopicida, consacrato re d’Italia dal vescovo di Pavia in San Michele Maggiore nel 1002, ma aspramente avversato dall’arcivescovo di Milano e dal marchese Bonifazio di Toscana che chiesero al sacro romano imperatore germanico di spazzarlo via. Anziché far quadrato in difesa dell’Italia, le cui coste meridionali (e non solo quelle: ne sapevano qualche cosa la Liguria e le valli del Piemonte) subivano scorrerie di “saraceni”, islamici, a danno di tutti gli abitanti, si rivolsero al nemico storico d’Oltralpe e continuarono a farlo sino a Federico Barbarossa. Preferivano la regola “Signore lontano, briglie sciolte”.

Con quei precedenti non stupisce che la Corona Ferrea sia poi transitata dall’uno all’altro imperatore, sino a quando il 26 maggio 1805 Napoleone I la volle per sé e la impose quale emblema del regno d’Italia (Lombardo-Veneto, Emilia e altre terre annesse), affidato al ventiquattrenne figlio adottivo Eugenio di Beauharnais col titolo di viceré. Non era un regno vero, autocefalico, ben inteso. Quello era solo una gemma dell’impero dei Francesi, ma “parlava di Italia”. Sull’inizio furono in molti a scommettere sulla possibilità di farne scaturire uno Stato davvero indipendente. Quando da Maria Luisa d’Asburgo ebbe l’atteso figlio maschio Francesco Carlo Napoleone, destinato alla successione, Napoleone gli conferì il titolo di Re di Roma, a conferma della debellatio del potere temporale dei papi: una decisione che non ha mai portato soverchia fortuna (fu il caso di Casa Savoia).

 

A Regno d’Italia proclamato, Vittorio Emanuele II rivendicò e nel 1866  ottenne da Francesco Giuseppe d’Asburgo la restituzione all’Italia della Corona Ferrea, consustanziale alla regalità, tramite il generale Luigi Federico Menabrea, che la recò a Torino.

Restituita al Duomo di Monza, sua “teca” originaria dai leggendari tempi della bavara Teodolinda, regina dei Longobardi, e assurta per universale sentire a espressione della sacralità del regno d’Italia, la Corona Ferrea fu recata a Roma per le solenni esequie di Vittorio Emanuele II. Altrettanto avvenne per i funerali di Umberto I, assassinato a Monza il 29 luglio 1900. I Re d’Italia, che non un proprio mausoleo e per “salire in trono” giuravano fedeltà allo Statuto a capo scoperto, furono seguiti dalla Corona Ferrea per la loro tumulazione provvisoria nel Pantheon di Roma, in attesa che venisse completato il Vittoriano, concepito quale Mausoleo dei sovrani secondo progetti concatenanti le loro spoglie con la Dea Roma che accoglie i capi di Stato stranieri e nostrani, anche cattolici osservanti, in visita “religiosa” all’Altare della Patria.

 

Lo Stato d’Italia resse alle scosse telluriche più devastanti: non solo quelle “naturali” di Casamicciola o di Messina e Reggio di Calabria, ma anche le altre e peggiori, opera di uomini, quali lo sconquasso politico-partitico all’indomani della Grande Guerra, l’eclissi del sistema parlamentare, l’avvento del regime di partito unico e quanto ne seguì tra il 1926 e il 1943.

Il Regno sopravvisse anche alla catastrofe del suo intervento nella seconda Grande Guerra europea (1939-1945) dal 1941 divenuta mondiale: una decisione azzardata, seguita da scelte caotiche, spesso dissennate, destinate a trascinare il Paese nella sconfitta nel volgere di un anno dalla dichiarazione di guerra agli Stati Uniti d’America (dicembre 1941). Nel novembre 1942 gli anglo-americani sbarcarono in Marocco e Algeria e sette mesi dopo mossero all’assalto della Sicilia e dell’Italia meridionale, strategica per il controllo del Mediterraneo e base del lungo assedio alla Germania e dell’offensiva finale: irrompere nel suo territorio con l’obiettivo, mancato nel 1918, di sfasciarne l’unità politica, spostandone i confini a piacere delle “Nazioni Unite” vincitrici.

 

L’Italia sorta nel 1861 e cementata dalla vittoria nella Grande Guerra sopravvisse anche alla resa senza condizioni del 3-29 settembre 1943 e alle sue pesantissime conseguenze, inclusa l’imposizione del Governo militare alleato. Gli anglo-americani, come anche l’Unione sovietica, compresero che a tenere insieme i “popoli d’Italia” era lo Stato sorto dal Risorgimento. La sua unità era la garanzia del rapido ritorno tra le democrazie parlamentari, come l’Italia era stata da Camillo Cavour e Quintino Sella a Giovanni Giolitti. Lo ricordò Benedetto Croce quando ruvidamente corresse Ferruccio Parri, secondo il quale prima dell’avvento di Mussolini l’Italia non era stata una vera democrazia. L’improvvida affermazione dell’ex comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà” costituiva un immeritato regalo retroattivo a Mussolini, il cui successo nel 1922-1924 era stato appunto legato all’irrisione dell’“Italietta” e alla svalutazione dell’età liberale: la stessa poi ripresa e proseguita dalla storiografia anglo-dipendente. Fu il caso del veneratissimo Denis Mack-Smith, che ridusse l’età liberale a “dittature parlamentari”, a beneficio della retorica vetero-gramsciana e intrinsecamente anti-patriottica secondo cui la redenzione dell’Italia era ed è affidata al Nuovo Principe: il “partito di massa” vindice della “rivoluzione mancata”. Da quell’humus scaturirono il “proletariato senza rivoluzione” e le tante e sempre verdeggianti fiabe del sessantottismo perenne, che accomuna tutte le ideologie anti-sistema, incluso il cattolicesimo anti-nazionale e anti-curiale.

 

Quando, oltre un anno dopo la fine della guerra in Europa, mentre stava sperimentando il ritorno all’elettività delle cariche (introdotta dallo Statuto albertino del 4 marzo 1848) ed era confortata dall’introduzione del voto femminile per decreto firmato da Umberto di Piemonte, Luogotenente del regno d’Italia, la quieta evoluzione del “sistema-Italia” all’insegna della continuità subì la profonda e mai cicatrizzata ferita. Il governo formato con il benestare degli Alleati (era tra le clausole della resa) avocò arbitrariamente le funzioni del capo dello Stato e ne conferì l’esercizio al democristiano presidente del Consiglio Alcide Degasperi (questa, ricorda Nico Perrone in un saggio di imminente pubblicazione per BastogiLibri, è la grafia originaria del suo cognome, corrotto in De Gasperi quando venne annotato nell’elenco dei deputati alla Dieta di Vienna).

Era il 13 giugno 1946. Lo Stato d’Italia si trovò inopinatamente con due Capi: Umberto II, subentrato il 9 maggio al padre Vittorio Emanuele III e riconosciuto dalla Comunità internazionale (si vedano, per conferma, i Documenti diplomatici internazionali), e, appunto, De Gasperi. Il Paese rischiò il caos, scongiurato di misura dalla sofferta decisione di Umberto II di lasciare il suolo patrio.

Poiché oggi circolano chiacchiere sgangherate sulla legittima richiesta dei suoi eredi di verificare a chi spettino i “Gioielli della Corona”, va ricordato che il Re non solo non li portò con sé (come pure avrebbe potuto fare, anche secondo Luigi Einaudi, governatore della Banca d’Italia) ma per fronteggiare la vita all’estero (dall’Assemblea Costituente tramutata in condanna all’esilio) chiese un prestito in denaro a Pio XII, contro deposito di suoi beni personalissimi. Debito puntualmente saldato.

 

In principio della Repubblica, dunque, vi fu il caos dei poteri. Gli atti pubblici continuarono a risultare “in nome di Umberto II, Re d’Italia” sino al 19 giugno (un mercoledì, sacro a Mercurio, protettore degli imbrogli), quando finalmente la “Gazzetta Ufficiale” pubblicò i risultati del referendum istituzionale del 2-3 precedenti, “certificati” a maggioranza dalla Corte suprema di Cassazione alle 18 del giorno precedente, con un colpo di stato contro la lingua italiana, giacché per votanti vennero intesi i voti validi anziché gli elettori recatisi alle urne.

La decisione del governo del 13 giugno fu il punto di arrivo della consorteria dei partiti che lo componevano. Essi non erano affatto espressione della nuova Camera ma dei componenti del Comitato di Liberazione Nazionale, l’“esarchia” che risaliva all’agosto 1943, quando i suoi animatori, raccolti nella casa romana del democristiano Giuseppe Spataro, decisero di essere gli unici autentici depositari della “volontà popolare” e di non riconoscere il governo presieduto da Pietro Badoglio su nomina di Vittorio Emanuele III. Ma quel “concerto a sei voci” (come Giulio Andreotti intitolò un gustoso “memoriale”) era un coro armonico? I vincitori (anglo-americani da un canto, stalinisti all’altro) li tenevano sotto controllo e li spingevano gli uni contro gli altri in una guerra fratricida destinata a indebolire l’Italia, già provata dalla sconfitta militare, da due anni di guerra civile e sotto l’incubo del trattato di pace punitivo. Chissà come verrà ricordato nel suo 75° anniversario, il prossimo 10 febbraio 2022 dal successore di Sergio Mattarella. Confidiamo non si risolva nell’ennesima mano tesa verso chi ha occupato le terre redente nella guerra del 1915-1918 a prezzo dei tanti sacrifici ricordati nel centenario della tumulazione del Milite Ignoto all’Altare della Patria lo scorso 4 novembre, in un clima di concordia civile che a pochi mesi di distanza già pare dissolto.

Nessuno stupore, dunque, se l’elezione del Capo dello Stato avviene come avviene: non all’insegna della Corona Ferrea ma della corona di spine che “cinge la chioma” dell’Italia nata dal gesto rivoluzionario del 13 giugno 1946.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 30/01/2022