Roma. Carlo Calenda ed Enrico Michetti, i due candidati sindaci trombati, si dimettono dal Consiglio comunale, tradendo gli elettori

Le reazioni di Lega, Forza Italia e M5S

Le legge elettorale che disciplina l’elezione del sindaco e del consiglio comunale, nata sulle ceneri della prima repubblica, si basa su principi altamente condivisibili. I cittadini eleggono direttamente il sindaco, con la possibilità del ballottaggio tra i due contendenti più votati, quando nessuno dei candidati supera il 50% dei suffragi al primo turno.

Il consiglio comunale risultante si basa su maggioranze stabili ed il o i candidati sindaci soccombenti, dovrebbero esercitare il ruolo di capi dell’opposizione in consiglio comunale. Una specie di antisindaco che, con fierezza, dovrebbe continuare a  portare avanti le posizioni espresse nel corso della campagna elettorale a conforto e rispetto verso i propri elettori. E’ una norma mutuata da democrazie mature, anche se sarebbe opportuno rivedere alcuni aspetti o criticità emerse negli ormai lunghi anni di esercizio.

In sintesi, ruoli chiari del sindaco eletto e dei candidati perdenti, seguendo un meccanismo, volto ad evitare gli inciuci ed i cambi di casacca di consiglieri spuri che potrebbero , non senza vantaggi, porsi a sostegno del vincitore.

Ogni legge o principio, pur nato sotto i migliori auspici, deve sempre fare i conti con le miserie e la pochezza umana.

Nei giorni scorsi a Roma abbiamo avuto l’ulteriore esempio di come i nostri politicanti, per bieco tornaconto personale, con la massima disinvoltura e cinismo, continuino a gabellare gli elettori e se ne infischino di etica e rispetto dei principi. Per usare un termine moderato, sono squallidi.

Carlo Calenda, ed Enrico Michetti, già candidati sindaco di una lista Civica e del centrodestra a Roma, si sono dimessi dalla carica di consigliere comunale e non siederanno nell'aula Giulio Cesare. "La mia decisione nasce dalla sempre più pressante consapevolezza dell’importanza di continuare ad assicurare in via prioritaria la formazione e l'assistenza ad amministratori e funzionari pubblici. Così potrò continuare a offrire un contributo civico alla buona amministrazione" afferma Michetti nel lasciare lo scranno al primo dei non eletti di Fratelli d'Italia, Federico Rocca.

L'avvocato amministrativista con la passione per l'antica Roma spiega di volersi dedicare all'assistenza ad amministratori e funzionari pubblici, offrendo "un contributo civico indubbiamente superiore rispetto a quanto", a suo avviso,

potrebbe "garantire" da consigliere di opposizione.

Costui non ha capito un bel nulla sulla portata del suo ruolo ed il suo annuncio accende reazioni disparate.

Se da FdI c'è chi plaude al passo indietro di Michetti (come la consigliera regionale Chiara Colosimo e il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida, che ne sottolinea la "coerenza e serietà"), in Lega e Forza Italia non la pensano allo stesso modo. L'azzurro Maurizio Gasparri, per esempio, punta il dito contro una decisione irrispettosa. "Come partito non la condividiamo", dice anche il coordinatore leghista di Roma Alfredo Becchetti.

E Michetti diventa bersaglio anche del M5s appena diventato minoranza a Palazzo Senatorio e dell'ex pentastellato Alessandro Di Battista: "Calenda e Michetti per mesi hanno fatto dichiarazioni d'amore nei confronti di Roma" e ora "hanno rinunciato al ruolo di consigliere comunale. Vi hanno chiesto i voti ma di quei voti se ne fregano", attacca dai suoi social.

La risposta di Calenda è attirata a stretto giro: "Cuore di Panna, in consiglio comunale, dove potrei stare anche rimanendo parlamentare europeo, farò entrare un ragazzo giovane che ha coordinato il programma."

Anche il borioso e voltagabbana Calenda dimostra la sua disonestà intellettuale e ne va pure fiero.

Calenda, in ogni caso, parteciperà alla prima riunione del consiglio comunale prevista per il 4 novembre, e solo in seguito darà le dimissioni. In questa sede è atteso il giuramento del sindaco e l'elezione del presidente dell'Assemblea capitolina.

E Gualtieri di conseguenza se la ride, con la prospettiva di trascorrere cinque anni senza opposizione credibile, ma il cittadino si indigna.

Invece delle tante disquisizioni sociologiche che la TV ci ha elargito nel dopo elezioni, sono questi i comportamenti che determinano la disaffezione degli elettori.

Cosa aspettano i leader dei partiti, pur non essendo aquile, a rinnovare radicalmente la rappresentanza? C’è in ballo l’esercizio della democrazia e l’autorevolezza delle istituzioni, sempre che  a qualcuno nel Palazzo ancora interessino. Non  riusciamo ad adagiarci sull’irreversibilità del Governo tecnico o al commissario al posto del sindaco e del consiglio comunale.

La democrazia rappresentativa, in cui ancora crediamo, poggia su basi antitetiche.

 

 

 

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Articolo pubblicato il 31/10/2021