Disabilità e pregiudizio

Quella società che ancora classifica come «handicappati» (di Alessandro Mella)

Il 14 ottobre scorso una circolare INPS ha stabilito che ai disabili che percepiscono l’assegno mensile di invalidità venga negata la possibilità, fino a quel momento possibile, di arrotondare la somma ricevuta con prestazioni lavorative, nella legalità e nel rispetto delle norme, fino a circa 4000 euro l’anno.

La faccenda ha smosso le associazioni di categoria e gettato nel panico migliaia di famiglie e di persone poiché, parliamoci chiaro, con 297 euro al mese non si pagano nemmeno le utenze o l’affitto.

Non solo, per molti disabili quei piccoli lavoretti proporzionati alle proprie possibilità rappresentavano anche una forma di emancipazione ed inclusione sociale ed emotiva.

Cosa si otterrà con questa scelta? Più lavoro nero, più disperazione, più angoscia e più emarginazione. Financo più povertà.

Per alcune istituzioni il disabile deve rimanere l’handicappato da isolare e da nascondere? Forse non in maniera esplicita ma l’effetto è, fatalmente, questo.

Alcuni mi hanno risposto, nelle settimane scorse, che il disabile potrebbe integrare con il reddito di cittadinanza ma è giusto ricorrere a questa misura che, alle volte, offre cifre ben superiori a normodotati?

No, non lo è. Rinunciare a dei piccoli lavori, magari legati a passioni gratificanti, per ricorrere a quella misura iniqua d’assistenzialismo elettorale non ha senso e non è nemmeno dignitoso.

Certo questa brutta storia troverà, prima o dopo, esito felice perché la politica tenderà a cavalcarla e cercare una soluzione elettoralmente pagante. Ma il problema è che si sia posta, che nessuno, a monte, si sia reso conto del principio che quel “messaggio” andava affermando e trasmettendo.

C’è una parte di società che, sobillata dai miti della bellezza e delle star social e tv, ritiene ancora inconsciamente i disabili come dei rottami e degli avanzi deformi della società. Un qualcosa da tenere in disparte, la polvere da buttare sotto al tappeto, da commiserare quando fa comodo in trasmissioni strappalacrime e fiction per le famiglie ma, subito dopo, rigettare nel cassetto delle cose dimenticate.

Lo abbiamo visto, ad esempio, ai tempi dei mai abbastanza vituperati lockdown quando i disabili hanno spesso dovuto sopportare la privazione delle terapie e soprattutto del miracoloso placebo degli affetti più cari e delle attività personali.

Senza eccezioni, senza misure eque di compensazione (non economica, si badi bene), senza deroghe quando necessarie se non attraverso ad interpretazioni soggettive e cervellotiche di allucinanti dpcm, senza nemmeno risposte ai vani appelli.

Per carità esistono associazioni e gruppi di volontariato che si dedicano con passione sincera ed amorevole ai problemi legati all’invalidità ed alla disabilità ma oltre a questo?

Non viviamo, forse, nel paese in cui i disabili sembrano ancora essere una zavorra? In cui ci sono ancora persone che parcheggiano indebitamente sui posti loro riservati?

Viviamo nella società in cui un disabile deve nascondersi oppure arrendersi alla sua diversità perché se prova a fare un qualunque cosa ecco le comari fare coro “Allora non sta davvero male” oppure “Si lagna ma poi nuota, fa perfino sport, va a passeggio” o anche “Si si prende i soldi ma poi si diverte perfino”.

Essì perché il disabile non deve fare sport, non deve fare volontariato, non deve lavorare, non deve sorridere, non deve essere felice, per fortuna lo lasciano ancora vivere e siamo lontani da tentazioni di oscura memoria.

Ma deve vivere derelitto, triste, abbandonato, deve fare pena.

Si, lo so, sono durissimo in questo mio pensiero ma è quello che viviamo ogni giorno quando i dolori ci sfiancano e le terapie ci prosciugano le poche energie dovendo scegliere, obtorto collo, se sembrare pigri o falsi.

Onestamente siamo stanchi, stanchi di doverci sempre spiegare, stanchi di doverci giustificare, stanchi di spiegare perché a trenta o quarant’anni ci tocca camminare con il bastone o non riuscire ad alzare una caraffa piena d’acqua.

Stanchi di dover subire controlli perpetui con una costanza che non tocca, a momenti, nemmeno ai delinquenti.

Perché, si sa, gli invalidi sono sempre “falsi invalidi” per la gente che ha il beneficio della salute perpetua e si sente crollare il mondo in testa per un mal di testa od un raffreddore.

Sembrerò polemico, antipatico certamente, e me ne scuso con i lettori.

Ma di fronte a tante mortificazioni quotidiane non possiamo non constatare che, in Italia, sul tema disabilità/invalidità c’è ancora molto da fare.

Anche solo per far capire che un contributo di pensiero, quando non d’opera, può provenire anche dal nostro mondo. Che non potrà faticare fisicamente come gli altri ma può far sentire la sua voce ed offrire molto.

Si, siamo più fragili, più delicati, più complicati ma “siamo”.

Esistiamo, pensiamo, amiamo, proviamo a vivere, proprio come voi.

Forse con quale barriera ed ostacolo in più ma se quelli materiali sembrano difficili da rimuovere non potete immaginare quanto siano complicati quelli morali e psicologici.

Resta più facile scalpellare dei gradini che dei pregiudizi. C’è ancora tanto da fare davvero. Non ci siamo ancora arresi comunque. Ancora no, anche se è dura.

Alessandro Mella

 

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Articolo pubblicato il 31/10/2021