La riscoperta del Milite Ignoto
Il Sacello del Milite Ignoto al Vittoriano

L'ultimo rito laico dell'Italia unita (di Alessandro Mella)

A quel tempo io prestavo servizio a Roma e, nelle rare passeggiate culturali che i doveri mi concedevano, mi ero recato al Vittoriano.

Scesi trepidante, emozionato, finché, in quel passaggio un poco oscuro e poco illuminato, giunsi dinnanzi al sacello del Milite Ignoto e lì fermai. A pensare, sentire, fantasticare. Quasi mi sembrava di poter toccare quella tomba, di poterla accarezzare, in quel tempio, in quel sacrario senza religioni.

Sono passati molti anni da quel giorno ed oggi di questa figura leggendaria, mistica, icona di una religiosità laica, parlano tutti. Anche coloro i quali la dimenticheranno per i prossimi cento anni. Perché l’Italia è, di questi tempi, il paese un poco ipocrita delle mode in cui ogni ricorrenza od anniversario spinge orde di soggettoni a cercare un palcoscenico, un ruolo, una parte, nell’ipocrita spettacolo delle commemorazioni dovute e forzate.

Spinte e spintoni per non restare giù dal carrozzone.

Commemorazioni rigorosamente spogliate di ogni aspetto morale, etico e spirituale nel nome dell’illuminata rinuncia alla retorica. Quasi amare quel giovine fosse una colpa, quasi un qualcosa per cui provare vergogna, quasi dovessimo espiare ancora le colpe del fascismo rinunciando a quella Patria cui il regime ricorse in modo morboso nella sua propaganda asfissiante.

Quasi che quel corpo martoriato non fosse stato fratello anche dei combattenti della Guerra di Liberazione, dei soldati sabaudi del Regno del Sud e di tanti partigiani.

Ma con il centenario della tumulazione dell’Ignoto Milite, al Vittoriano, abbiamo assistito a qualunque forma di manifestazione comunicativa. Compresi convegni in cui si è parlato di tutto omettendo rigorosamente il ruolo del vituperato Vittorio Emanuele III.

Quel Re che chi studia la Storia, sui fumetti, considera “fellone” quasi potessero permettersi, loro poltronisti, di giudicare un uomo che restò mesi e mesi in trincea come probabilmente essi non saprebbero fare.

Abbiamo visto le locandine con bandiere senza stemma sabaudo, con elmetti Adrian francesi modello 1926 spacciati per modelli 1915 e 1916, con divise senza mostrine al bavero.

Per non parlare di quelle con i soldati americani nella Guerra di Corea diffuse senza che nessuno tra i consulenti e gli esperti si fosse allarmato per tempo per l’infelice scelta grafica.

Imbarazza e ferisce la superficialità con cui questo paese si accosta, sempre tardivamente ed all’ultimo, alle sue memorie da rinnovare e tutelare. Ma i fatti che condussero il soldato sconosciuto nella capitale non furono e non sono banalità.

Sono il ricordo dell’ultimo rito laico che unì, davvero, un’Italia lacerata dalle ferite della Grande Guerra, da quelle del Biennio Rosso, d’una guerra civile strisciante, di anni e mesi di contrapposizione violentissima tra gli opposti estremismi.

Alla proposta di Douhet i più lungimiranti si unirono subito capendo che occorreva un momento di riavvicinamento dei cuori e delle coscienze per cercare di superare le lacerazioni sociali d’una Nazione sfiancata. In questo il Sovrano, soldato tra i soldati, si unì con rara attenzione ai gesti ed alle simbologie.

Nelle mani, nelle braccia forti, delle medaglie d’oro che portarono la salma sull’Altare della Patria c’erano quelle di quasi tutti gli italiani.

Milioni di cuori, quel giorno, batterono all’unisono come avevano fatto nei giorni prima quando il treno speciale aveva attraversato la penisola tra la commozione generale.

Quel giorno il Re, i generali, i militari, il popolo, furono tutti sacerdoti di un rito laico teso ad intrecciare anime e spiriti in una comunione che questo Paese non ha più saputo vivere.

E non ci furono interventisti o neutralisti, non ci furono socialisti o fascisti, non ci furono militari o civili, settentrionali o meridionali, ci furono solo tanti milioni di italiani ed italiane.

Con le lacrime agli occhi di fronte al corpo di quel ragazzo che avrebbe potuto essere padre, figlio, marito, fidanzato od amico di ognuno ed ognuna di loro.

Icona di quella guerra che aveva accomunato dialetti diversi, che aveva visto i figli raggiungere i padri in trincea, vissuto il dramma di Caporetto, il riscatto di Vittorio Veneto, le promesse tradite del dopoguerra, i troppi cimiteri, le lapidi con i nomi dei defunti in ogni contrada, paese perfino borgata dello stivale.

Cosa rimane di quello spirito? Tutto disperso, tutto perduto, bruciato sulla pira infausta di quel fascismo con cui oggi ogni manifestazione d’amor patrio viene etichettata. In questo turbinio di stupidità ci si perde d’animo.

A Parigi, poco lontano dall’Arco del Trionfo, si trova un altro Milite Ignoto e così in diverse capitali mondiali.

Non hanno nulla a che vedere con la retorica nazionalista. De Gaulle diceva che il patriottismo è amare la propria Patria ed il nazionalismo odiare quella degli altri.

Mentre guardiamo all’Europa, all’avvenire, nel rispetto delle patrie di tutti, non scordiamoci di amare la nostra.

Entrammo nella Prima Guerra Mondiale assai male, ci conducemmo come si poté, cademmo e ci rialzammo. Ne uscimmo a testa alta il giorno in cui le Campane di San Giusto accolsero l’Audace nel porto di Trieste.

Fu la Quarta Guerra d’Indipendenza? Difficile rispondere con certezza a questa domanda.

Non ricordiamoci del Milite Ignoto solo in questo 2021 in cui la moda impone di parlarne, discorrerne, scriverne, fare qualunque cosa per non stare in ombra e non sfuggire ai riflettori.

Quella salma, scelta disperatamente dalla Maria Bergamas ad Aquileia, non è solo e soltanto una reliquia centenaria inanimati e stantia. Ancora adesso, ancora oggi, è il fratello di ognuno di noi.

Patì i tormenti della trincea, le malattie, le pulci e i pidocchi, le artiglierie nemiche, le palle dei cecchini austriaci, la fame, il freddo, la paura e l’angoscia del non rivedere i suoi cari.

Non basterebbe questo per provare, non pietà, ma affezione per lui e migliaia come lui?

Quelle povere ossa, fregiate di medaglie d’oro al valore militare, sono i resti mortali di mio fratello, di vostro fratello, del congiunto d’ognuno di noi. Vivo nei cuori questo 4 novembre come quelli passati quando questa data significava ancora qualcosa prima dell’oscurantismo, prima dell’entropia, prima della pigrizia dei cuori e della memoria.

Quei frammenti d’una vita perduta cent’anni fa sono la nostra storia, la nostra memoria, la nostra libertà, il nostro spirito unitario che, martellato da tanti facinorosi, resiste.

Il Milite Ignoto è la personificazione di quell’Italia per la quale dobbiamo compiere, con coraggio e speranza, il nostro dovere. Ogni giorno, come fece lui. Mio fratello, vostro fratello, nostro fratello.

Alessandro Mella

 

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Articolo pubblicato il 03/11/2021