6 Marzo 1898: la morte di Felice Cavallotti
Felice Cavallotti

La professoressa Cristina Vernizzi ricorda i tempi in cui i politici per difendere il loro onore sfidavano in duello gli avversari

La biografia di Felice Cavallotti è nota in modo particolareggiato e reperibile, per gli eventuali interessati, facilmente sul web. Il 6 marzo 1898 Felice Cavallotti moriva dissanguato, per recisione della carotide, in un tragico duello con spada e guantone.

L’evento, all’epoca, ebbe risonanza nazionale e notevoli ripercussioni nelle dinamiche politico-partitiche del tempo.

In merito a questa ricorrenza ci giunge un sintetico ed esaustivo articolo della prof.ssa Cristina Vernizzi, Presidente dell’Associazione Mazziniana per il Piemonte, che riassume il contesto storico-politico dell’evento.

Nel ringraziare l’Autrice, per la sua preziosa collaborazione, auguriamo una buona lettura (m. b.).

 

6 MARZO 1898: la morte di Felice Cavallotti

I tempi in cui i politici per difendere il loro onore sfidavano in duello gli avversari

C’è un fatto che esattamente 183 anni fa, sconvolse tutto il nostro Paese e che ebbe come protagonista uno dei maggiori esponenti dei democratici: il garibaldino, poeta, giornalista, Felice Cavallotti, il “bardo della democrazia”.

Il 6 marzo 1898, il nostro personaggio affrontava il suo 33° duello contro il giornalista Ferruccio Macola che con un affondo gli recideva la carotide provocandogli la morte. Aveva 56 anni.

L’episodio si situa nella famosa Questione Morale intentata da Cavallotti contro Francesco Crispi nel 1894-‘95. Il focoso deputato l’aveva condotta a fondo, sui giornali e in Parlamento, ed era culminata nella Lettera agli Onesti di tutti i Partiti, pubblicata su gran parte dei giornali del tempo, dove senza riserve apostrofava Crispi: ministro disonesto. Questi era stato costretto alle dimissioni dopo pochi mesi, anche in coincidenza con il fallimento della guerra in Africa da lui voluta, e conclusasi col disastro di Adua.

Ma i sostenitori del politico siciliano restavano sul campo innescando una serie di querele e diffamazioni e vertenze legali reciproche tra cui ultima una polemica sorta durante la crisi ministeriale del 1897 che attribuiva a Cavallotti presunti rapporti politici con l’avversario Giolitti.

La Gazzetta di Venezia, filo crispina, di area conservatrice, non esitava a denunciare l’apparente incoerenza e mettere in dubbio la onestà politica del deputato dell’Estrema sinistra.

Il direttore del giornale, Ferruccio Macola, non aveva ritirato quelle asserzioni che aveva reso pubbliche, mentre Il Secolo, giornale di Milano diretto da Carlo Romussi, grande amico e sostenitore di Cavallotti, aveva sempre dato spazio agli articoli e alle opinioni di Felice, e in questa occasione aveva pubblicato tutta la querela anche attaccando con veemenza la Gazzetta di Venezia. Ora all’impetuoso Cavallotti, per difendersi da quelle accuse, non era rimasto che affrontare l’avversario con un duello, nonostante le esortazioni degli amici, tra questi Giosuè Carducci, a non avventurarsi nella ennesima sfida.

Il nostro non era nuovo a questo tipo di soluzione quando soprattutto gli bruciava il senso di un orgoglio ferito, lui che aveva subito la prigionia e le persecuzioni poliziesche per non aver mai smentito i propri principi accompagnati da un rigido senso del dovere nella politica come nella vita privata.

Aveva superato già 32 duelli, uno anche con Edmondo De Amicis, in una vertenza poi subito ricomposta. Da una sfida, in cui aveva affrontato tutti e ventidue i componenti del Club Felsineo di Bologna, aveva riportato una ferita in viso che lo aveva lasciato con una brutta cicatrice, ma comunque se l’era sempre cavata. Quindi si sentiva abbastanza tranquillo e aveva passato tutto il mese di gennaio a Dagnente, la località sul Lago Maggiore in cui aveva trascorso l’infanzia e dove si ritirava per ritemprarsi dalle fatiche di scrittore e di deputato dell’Estrema.

In quella pace aveva scritto la maggior parte delle sue poesie e dei suoi drammi, L’Alcibiade, Il Cantico dei Cantici, Il Povero Piero, per citare i maggiori, ed esprimeva sempre un grande affetto per quei luoghi, come scrisse anche in una delle prefazioni ricordando con commozione il paese e gli amici.

Era tornato a Roma in fine febbraio e il giorno precedente il duello aveva chiesto ad un amico il prestito di due sciabole di ricambio, perché Macola aveva scelto quell’arma per lo scontro, arma che metteva in difficoltà il nostro, più piccolo dell’avversario. La mattina del 6 marzo, quasi presago di una sconfitta, affidava all’amico Gian Pio Bocelli il suo testamento, con la sola raccomandazione di occuparsi del figlioletto Peppino, il bambino che aveva avuto nel 1885 da una attrice, Assunta Mezzanotte, e di cui si era sempre occupato con affetto, per il mantenimento e l’educazione.

Suo padrino nel duello, amico da anni, scrittore e uomo politico garibaldino, Achille Bizzoni, ci lascia la descrizione di quel pomeriggio. “… la strana profonda tristezza che era in tutti. Solo Cavallotti era calmo, sereno, anzi allegro. Poi il viaggio in carrozza per raggiungere fuori porta, la villa della contessa Cellere. Il cielo plumbeo, la giornata grigia, influivano a renderci ancora più pensosi”.

Cavallotti si gettò all’assalto, ma al terzo attacco, la lama di Macola che lo affrontava con il braccio teso, gli recise la carotide. Ebbe solo il tempo di dire “Cosa ghé?” e subito la morte.

Enorme fu in tutto il Paese l’impressione per questa tragica fine.

La salma fu trasportata a Roma, la città era stata addobbata per ricordare da lì a pochi giorni la morte di Mazzini del 10 marzo 1872, e subito una folla impressionante si accalcò per rendere omaggio al fedele garibaldino della spedizione dei Mille, all’uomo politico rigoroso, al difensore della pubblica moralità. Lui, povero, volle essere sepolto semplicemente lassù, sul lago Maggiore, a Dagnente, vicino ai suoi cari.

Parve a tutti che fosse stata la “consorteria” crispina ad armare la mano di Macola.

Dopo pochi giorni, Giosuè Carducci ne rievocò la figura di poeta, di garibaldino, e di fede repubblicana.

Il socialista Turati pronunciò il discorso a Milano: “… oggi non a un uomo diciamo addio, ma a una generazione di uomini, a quanto fu in essa di bello, di alto, di fiero … non un sepolcro è questo, ma un cimitero vastissimo nel quale un’era della storia riposa, che non fra due anni, come novella il lunario, ma oggi, qui, il secolo si suggella”.

In tutta Italia si volle ricordare la sua figura, non esiste città piccola o grande che non gli abbia dedicato vie, giardini, lapidi e monumenti.

Felice Cavallotti resta ancora nell’immaginario collettivo, come il simbolo di una giustizia sociale tanto perseguita quanto con lui persa.

Cristina Vernizzi

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 10/03/2021