L'origine dell'Universo per gli egizi
Divinità egizie

Affascinante introduzione di Riccardo Manzini a una realtà ancora misteriosa

La conoscenza della religione egizia antica si riduce alla versione scolastica che resta una semplificazione di una realtà molto più complessa e articolata. In pratica questo ambito culturale e storico resta di esclusiva competenza degli studiosi e di pochi appassionati del mondo egittologico.

La divulgazione di questo livello di approfondimento sembra che non abbia ancora avuto una presenza significativa. Coglie nel segno l’articolo “L'origine dell'Universo per gli egizi” del dr. Riccardo Manzini – medico chirurgo ed egittologo di lungo corso – che ci offre una introduzione sintetica, approfondita e nello stesso tempo affascinante a un contesto ancor misterioso.  

Nel ringraziare l’Autore, per la sua precedente e attuale collaborazione, auguriamo buona lettura (m. b.).

 

L'origine dell'Universo per gli egizi

Come tutte le culture pre-scientifiche anche quella egizia cercò nella religione una spiegazione sull’origine dell’Universo, concependo una elaborata mitologia in cui trovarono posto tutti gli dei il cui culto era più diffuso, ma in cui ogni teologia cosmogonica riservò il ruolo principale alla propria divinità.

Per quanto, infatti, sia ormai appurato che in Egitto non è mai esistita una divinità più importante delle altre, i soli sacerdozi del dio-sole Ra ad Eliopoli (slide 1), del dio-mummiforme Ptah a Menfi (slide 2) e del dio-ibis Thot ad Ermopoli (slide 3) acquisirono una certa priorità teologica concependo una Creazione legata al proprio dio, cui diedero in tal modo una valenza demiurgica ma senza subordinare teologicamente le altre divinità.

È significativo notare come, avendo questi tre centri religiosi elaborato cosmogonie imperniate su divinità differenti, queste siano riuscite comunque a coesistere contemporaneamente e pacificamente, secondo un concetto prettamente egizio, per quanto ciò producesse contrasti dogmatici.

Per altro tutte queste cosmogonie furono concepite secondo il medesimo modello in cui variava solo il demiurgo e le modalità con le quali era intervenuto nella Creazione, e tale modello venne in rari casi modificato da alcune altre teologie che aggiunsero la propria divinità o la sostituirono ad una di quelle, ma mai la figura del demiurgo.

Questo modello cosmogonico condiviso prevedeva che (usando un’espressione egizia) “prima che il tempo iniziasse a scorrere” esistesse solamente un oceano di acque primordiali identificato nel dio Nun (slide 4) in cui l’Universo, divinità comprese, esisteva già ma totalmente disperso e disorganizzato, e che tutta la realtà tornerà a confluire nel Nun quando il “tempo [ineluttabilmente] si fermerà”. La fine dell’Universo era quindi già insita nella Creazione (come nel moderno concetto di Universo pulsante) ed avverrà nel momento previsto solamente se verrà rispettata la continuità nella successione degli eventi, tutelata dalla dea Maat (slide 5); altrimenti potrebbe accadere in un momento anticipato qualunque.

Questo concetto condiviso da tutte le teologie prevedeva che il primo atto creativo sia avvenuto quando nel Nun il demiurgo, fino allora anch’esso disperso, decise di venire in essere secondo modalità differenti adatte alle proprie caratteristiche, iniziò a far “scorrere il tempo” e fece emergere da quest’oceano un’isola su cui “il sole brillò per la prima volta”.

Mentre infatti secondo la teologia eliopolitana il dio-sole Ra decise di venire in essere e fece emergere dal Nun una collina (ben-ben) sulla quale germinò un fior di loto che sbocciando liberò il sole fanciullo, la teologia menfita attribuì l’inizio della Creazione al proprio dio Ptah che, in accordo alla sua natura di “custode dell’intelletto”, generò se stesso e poi la realtà attraverso il solo pensiero e la parola, relegando di fatto il sole ad un ruolo secondario.

Ancora più complessa è la teologia di Ermopoli che supponeva la genesi stessa del demiurgo Thot da un’Ogdoade (otto dei) costituita da quattro coppie di rane e di serpenti (slide 6) che si autogenerarono dal Nun (in cui però rimasero), da cui fecero emergere l’isola sulla quale l’ibis Thot depose fisicamente “l’uovo cosmico” che schiudendosi generò il sole.

Prescindendo da queste minime differenze teologiche, le fasi successive all’emersione dell’isola dalle acque del Nun ed alla nascita del sole furono concepite da tutte le cosmogonie secondo la medesima successione degli eventi.

Poiché in quel momento l’Universo era costituito unicamente dal sole e dal demiurgo, questi decise di creare le altre divinità. A tal fine “si accoppiò con se stesso” generando Shu - l’aria- (slide 7) e Tefnet -l’umidità- (slide 8), dalla cui unione nacquero il maschio Geb -la terra- (slide 9) e la femmina Nut -il cielo- (slide 10).

A loro volta Geb e Nut, accoppiandosi, generarono Osiri (slide 11), Isi, Nefti (slide 12) e Seth (slide 13), la cui discendenza popolò il mondo di tutti gli altri dèi. Prescindendo dal nome del demiurgo, queste nove divinità fondamentali sono conosciute come la Grande Enneade. Solo successivamente, e secondo miti differenti comunque sempre condivisi, nel mondo fino allora popolato da soli dei comparve l’uomo cui cedettero la realtà quotidiana.

Come già accennato, oltre a questa Enneade il clero di alcune altre divinità aggiunse o sostituì la propria alle figure di questi dei, ma mai il demiurgo, generando in tal modo delle genealogie definite dagli studiosi Enneadi Provinciali.

Probabilmente per collegare all’atto creativo la figura del sovrano, il clero eliopolitano concepì una tacita estensione dell’Enneade con la creazione del dio-falco Horo (v. slide 13), ritenuto figlio di Osiri e di Isi. Questo dio, infatti, venne correlato all’Enneade con il mito di Osiri, in origine sovrano del mondo ucciso dal proprio fratello Seth per usurparne il ruolo, e del conseguente contrasto tra Osiri e Seth per il governo del mondo (che per gli egizi era l’Egitto), risolto proprio con l’assegnazione di questo ad Horo che divenne quindi il primo sovrano del Paese. Perché non vi fosse un’interruzione negli eventi che avrebbe potuto “fermare il tempo” facendo finire l’Universo, nel momento in cui assurgeva al trono ogni faraone avrebbe quindi ceduto il corpo ad Horo (creando il diffuso ma errato fraintendimento della divinizzazione del sovrano), una delle personificazioni del dio-sole Ra, affinché questi potesse continuare ininterrottamente a regnare sull’Egitto, non interrompendo gli eventi e quindi ritardando l’inevitabile fine.

Questo mito della Creazione fu quindi completato da una successiva generazione divina, la cosiddetta Piccola Enneade, in cui vennero inserite varie divinità con un ruolo particolare nella cultura egizia, quali appunto il dio Horo, ma anche Anubi, Khnum, Neith ed altre.

Questo semplice e schematico concetto di Universo destinato a finire ebbe un’importanza estrema in ogni manifestazione della cultura egizia di ogni tempo, generando ad esempio l’attaccamento alla tradizione, la rarità di ogni cambiamento, la sensazione di precarietà, l’attaccamento alla quotidianità o l’amore per l’ordine e la simmetria, in quanto ogni variazione o anomalia avrebbe avvicinato la percezione della fine del tempo e quindi il ritorno del Nun.

Questo timore per lo scorrere del tempo verso l’inevitabile fine portò la cultura egizia anche a rari riferimenti a chiare successioni temporali, come ad esempio la narrazione di una vera Storia che fu limitata al più ai semplici avvenimenti.

Piuttosto significativa delle ripercussioni culturali di questi concetti cosmogonici e della conseguente sensazione di precarietà è la definizione egizia già citata che sulla collina emersa “il sole brillò per la prima volta”, con la quale si dava la sensazione teologica che ad ogni alba si ripetesse concettualmente l’atto creativo e quindi si allontanasse l’inevitabile fine di tutto.

La caducità di questo Universo comportò inoltre che le stesse divinità non fossero eterne e la devozione dei viventi fosse necessaria per rafforzarle e consentir loro di ritardare il più possibile l’inevitabile annullamento. Allo stesso modo influenzò persino il modello templare egizio, il quale doveva assomigliare più ad un fortilizio che ad un edificio di culto (slide 14), in quanto avrebbe dovuto simbolicamente fornire l’ultimo solido baluardo alla divinità ivi residente.

Riccardo Manzini

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Articolo pubblicato il 10/02/2021